Sul significato della insuperabilità del sacrificio salvifico di Cristo

Scritto da Francesco di Maria.

Sono sempre più frequenti, anche in campo cattolico, gli studi volti a dimostrare che la passione e la morte di Gesù non abbiano il significato e la funzione di una riparazione espiatoria da questi offerta per il ripristino della sovranità e del diritto divini infranti dal peccato originale degli uomini e dello stesso rapporto d’amore tra quest’ultimi e il loro Creatore, e che quindi la tradizionale dottrina della sostituzione e della riparazione vicarie di Cristo necessiterebbe di una forte rivisitazione critica. Poiché lo scrivente non ha mai pensato che la logica sia riducibile a linguaggio e alle sue valenze terminologiche e lessicali e sia necessariamente o univocamente espressione e strumento di razionalità potendo essere invece utilizzata anche per scopi diversi e risultare funzionale a ragionamenti o percorsi teorici e concettuali completamente irrazionali, si occuperà qui di chiarire per quali motivi e in che senso l’antica concezione soteriologica del sacrificio riparatorio ed espiatorio di Cristo non solo conservi dopo due millenni tutta la sua sostanziale veridicità, ma resti ancora uno dei pilastri spirituali e teologici insostituibili della fede cristiana.

Senza l’opera, la morte e la risurrezione di Cristo, all’umanità non sarebbe rimasta alcuna possibilità di salvezza eterna. Senza il suo sacrificio, le sue atroci sofferenze, la sua umiliazione, la sua immolazione per la causa di giustizia e di amore di suo Padre e, insieme, per il bene del genere umano, il destino di quest’ultimo sarebbe stato solo un destino storico di mortalità. Pertanto, noi tutti dobbiamo la nostra salvezza, per quanto virtuale, al fatto che Cristo abbia fatto quel che nessuno di noi, nessun essere umano di qualunque epoca, avrebbe mai potuto fare per riannodare un rapporto d’amore tra la creatura e il Creatore, tra la finitezza e la miseria creaturali e la potenza e la grazia infinite di Dio: per riannodare, certo, non perché la misericordia divina, per estrinsecarsi, abbia bisogno di essere sollecitata dalle creature, ma solo perché è il principio stesso della divinità che esige nei suoi stessi confronti una sottomissione concettuale, fisica ed esistenziale, morale e spirituale, di tutto ciò che divino non è. In caso contrario, il divino non potrebbe sussistere né come realtà logico-ontologica, né come fonte sovrannaturale di salvezza integrale.

Se Cristo non fosse stato inviato dal Padre e non fosse venuto in soccorso di una umanità debole e peccatrice, del tutto incapace di amare Dio senza aiuti di sorta, senza la viscerale misericordia divina pronta persino a sacrificare una parte integrante della realtà trinitaria di Dio per esclusivo amore delle creature, il destino terreno e mortale di quest’ultime sarebbe stato ineluttabile. Cristo si è perciò sostituito ad un’umanità priva di conoscenza, di sapienza e di energia spirituale necessarie ad assolvere la funzione particolarmente delicata e impegnativa di riannodare i fili di un discorso teocentrico e antropocentrico interrotto, di riconciliare in modi appropriati le creature con il Creatore. Cristo, l’Unto del Signore, l’unico vero Unto di Dio, ha riparato, nella sua duplice natura umana e divina, i danni derivati dall’offesa oltraggiosa arrecata al Padre di tutti e tutto da un’umanità ribelle e irriconoscente. Cristo, non come uno dei tanti possibili, presunti o imperfetti, “salvatori” della storia umana, ma come l’unico salvatore celeste in grado di restituire agli uomini l’incredibile dono perduto dell’immortalità, ha preso nelle proprie mani il destino stesso dell’umanità e, pur contrastato dalla sua dimensione umana, è riuscito sia a tutelare la sovrana onorabilità paterna di Dio, a restituire al Padre tutta la sua dignità, sia a rimettere noi tutti nella condizione di poter partecipare ad un festoso banchetto di eterna beatitudine.

Senza tale sostituzione e riparazione vicarie, lo si voglia o no, avremmo dovuto semplicemente rassegnarci a morire. Ma, si sente spesso dire, un Dio che pretende dalla mattina alla sera genuflessioni, pentimenti, sacrifici, espiazioni, un Dio che non esita a mandare a morire il Figlio per la sua sete di vendetta, per vedere soddisfatta la sua esigenza di sovranità, di assoluta e imperscrutabile giustizia, può essere mai considerato un Dio realmente amorevole, misericordioso, e persino giusto, o non sarà piuttosto molto più simile ad un Dio dispotico, spietato, disumano? Si potrebbe essere tentati per qualche momento di chinarsi pensosi a riflettere su obiezioni di questo tipo, se non fosse palesemente arbitrario il tentativo di applicare a Dio giudizi e categorie morali esclusivamente umani, soggettivi, costitutivamente suscettibili di essere sonoramente invalidati e confutati in ogni momento. Sì, in effetti si può anche parlare di Dio come un’entità disumana, ma solo nel senso che la divinità deve essere necessariamente altro dall’umano, o almeno da ciò che si considera e si percepisce come umano, altro ma non contro, lontano dall’umano anche se illimitatamente vicino. Dio è divino, non umano, ma proprio in quanto divino ha il potere di essere anche umano, di mettersi al servizio dell’uomo vivendo e operando in lui e per lui.   

Ma, al di là di questa ricorrente, e talvolta inavvertita, tentazione di dare una rappresentazione antropomorfica della divinità, va piuttosto ribadito che il Cristo ha preso sulla sua persona il peso dei peccati del mondo, come a nessun essere creato e non semplicemente generato da Dio sarebbe stato possibile fare, espiandone sino alla fine, con una passione dolorosa e una morte infame, tutte le conseguenze, innanzitutto in ragione del suo strettissimo e ontologicamente indissolubile legame affettivo con il Padre, del cui grandioso progetto di vita avrebbe tentato di salvare le ragioni e i fini stessi, poi anche in ragione della preoccupazione misericordiosissima di concedere ancora una via di salvezza all’umanità peccatrice e ormai costitutivamente impossibilitata a procurarsela da sola. Gesù con il suo sacrificio ha riparato le offese arrecate a Dio-Padre dall’umanità delle origini ma, poiché l’umanità delle origini è la stessa che continua a peccare storicamente contro Dio, solo l’adesione sostanziale e compartecipativa al sacrificio espiatorio di Cristo, può consentire agli esseri umani di liberarsi dalla colpa originaria e dalle colpe attuali e di ottenere salvezza da morte eterna.

Questo assunto teologico si ricava dalla Lettera agli Ebrei e dalla elaborazione teologica, nota come ”espiazione vicaria”, che di questo punto centrale della fede cristiana avrebbe fatto sant’Anselmo d’Aosta. Ci si è spesso chiesto e ci si chiede ancora insistentemente se un solo uomo, anche se Figlio di Dio, possa espiare i peccati di tutta l’umanità, non solo del popolo ebraico, come sarebbe già più comprensibile, ma dell’umanità di ogni tempo della storia umana, e possa espiarli al posto degli uomini, sostituendosi ad essi. In realtà, il Padre invia il Cristo sulla terra non solo come vittima sacrificale particolarmente amata da Lui in quanto manifestazione suprema d’amore e obbedienza alla sua divina volontà, ma anche come annunciatore, come messaggero dell’unica e ultima opportunità di salvezza utilizzabile dall’umanità per far ritorno alla casa celeste. Come dire: se persino il Figlio di Dio è stato capace di soffrire tanto per il Padre, per ottemperare al suo volere, per non deludere le sue aspettative e corrispondere ai suoi disegni salvifici, anche le sue creature, dotate di grande dignità ma pur sempre incomparabilmente inferiore a quella dell’uomo-Dio, potranno, nel Cristo e per mezzo del Cristo, onorarlo virtualmente nello stesso modo, posto che, come lui, tengano a vivere eternamente nel suo regno.

Il compito salvifico di Gesù è, dunque, duplice: di saldare ontologicamente un conto, un debito con Dio, ma anche e di conseguenza, in quanto l’amore per le creature presuppone l’amore per il Creatore, di insegnare alle creature umane come e cosa fare per meritare non solo in un ambito storico-temporale ma per l’eternità una condizione di felicità. Ma cosí come non è affatta cieca l’obbedienza di Cristo, che accetta la volontà del Padre non senza tuttavia chiedergli di sottrarlo a quel terribile sacrificio tuttavia conseguente ad una vita interamente e coraggiosamente trascorsa a mettere in discussione i poteri costituiti di questo mondo e consolidate logiche di devianza etico-comportamentale in esso radicate, anche gli uomini, pur destinati alla morte a causa della malattia mortale contratta con il peccato originale, potranno ricevere il dono dell’immortalità beatifica non attraverso un sacrificio passivo e rassegnato, ma consapevolmente e responsabilmente finalizzato alla realizzazione della giustizia e della misericordia divine e alla conquista della celeste beatitudine.

Per comprendere esattamente la vera natura del sacrificio o dell’espiazione del Cristo e di riflesso il significato e il valore della stessa volontà umana di conformarsi al suo insegnamento, bisogna tener sempre presente il rapporto di comunione che sussiste tra il Padre e il Figlio per il tramite dello Spirito Santo, comunione che implica collaborazione e non certo dispotismo del primo e sottomissione forzata e umiliante del secondo, donde poi il riflettersi di questo solidale rapporto cooperativo anche nel mondo creato in cui ogni creatura che si riconosca in Cristo vivendo in lui, di lui e per lui, non si comporta da schiavo ma da libero in un rapporto privilegiato d’amore con Dio.

Ma, ci si chiede, perché Dio, per perdonare il peccato dell’umanità e riappacificarsi con essa, ha bisogno del sacrificio cruento, dell’immolazione del suo Figlio unigenito? Non poteva limitarsi ad attendere la richiesta di perdono delle sue stesse creature? Qui si tratta di capire che, nel rapporto dell’uomo con Dio, l’offensore è troppo piccolo, troppo modesto, rispetto all’offeso e quindi alla grandezza del Creatore, per cui la soddisfazione richiesta dall’offesa arrecata a quest’ultimo è del tutto sproporzionata rispetto alle possibilità umane di realizzarla. Ed è per questo che Dio si fa uomo, affidando al Cristo, vero Dio ma anche vero uomo, il compito di compiere un atto riparatorio perfettamente corrispondente alla infinita dignità divina. A beneficiarne è principalmente l’umanità visto che per essa il Cristo diventa una fonte inesauribile di vita e di amore sovrabbondanti. In tal senso, il Cristo espia per tutti, ma al tempo stesso, come scrive san Paolo, è anche il Primogenito di molti fratelli (Rm 8, 29), ovvero il più amato da Dio, l’eletto di Dio, colui che è in possesso della stessa potenza e della stessa grazia ontologicamente costitutive del Padre. Essendo ontologicamente uguale al Padre, tranne che per la funzione, nessuno più di lui poteva essere ritenuto degno di assolvere la funzione salvifica di riportare il genere umano a Dio, attraverso il sacrificio di sé fino alla morte di croce, ma anche di annunciare agli uomini che non avrebbero avuto altra via di salvezza se non quella di condividerne l’insegnamento e la croce.

La storia dell’umanità è, in realtà, una storia in cui coesistono sempre due piani: quello adamitico, dell’uomo naturale, istintivo, egocentrico, che si fa centro assoluto della sua esistenza, e quello dell’uomo cristiano, dell’uomo spirituale, che diventa o risulta consapevole di come la sua materialità sia funzionale alla sua spiritualità, non potendo la prima raggiungere forme piene di vita solo chiudendosi in se stessa e nelle sue mere pulsioni biologiche, fisiologiche e meccaniche. C’è un uomo senza Cristo, a prescindere da Cristo, e c’è un uomo con Cristo, inondato dalla luce di una verità non già apparente e contingente ma effettiva ed eterna e dalla forza di una grazia che fortifica le sue deboli strutture naturali. Ma il rapporto tra queste due fasi non è tanto di natura cronologica quanto spirituale. Il campo della storia umana è un campo di perenne conflittualità tra questi due possibili modi di essere uomini ma, senza la discesa salvifica di Cristo sulla terra e in mezzo ad un’umanità ancora incapace, persino sulla base delle sue migliori propensioni naturali di conoscere e onorare Dio, quest’ultima non avrebbe mai potuto disporre dell’oggettiva e concreta possibilità di valicare il limite della morte.

Tutto ciò, pertanto, non porta alla conclusione che la “espiazione vicaria” non appartenga alla missione del Servo di Dio. E’ infatti vero che il sacrificio estremo di Cristo non può intendersi come condivisione dei peccati di tutti gli altri esseri umani e come atto di espiazione di colpe altrui, ma è altrettanto vero che, senza quella passione e quella morte che solo nella persona di Cristo, del servo sofferente di Dio, potevano trovare un’esemplare e gloriosa attuazione, senza le ragioni specifiche e straordinarie ovvero sovrannaturali di entrambe, l’umanità non avrebbe mai potuto offrire, con le sue sole forze, un sacrificio adeguato di riparazione e di lode e sommamente gradito a Dio. E’ quindi, in tal senso, che Gesù ha espiato il peccato originale prendendo il posto di un’umanità che non avrebbe mai potuto esercitare un’autonoma capacità di ripristinare il rapporto d’amore con il Dio dell’amore e della giustizia infiniti, meritandone altresì il perdono e la salvezza.

Ognuno risponde delle sue opere, ma, senza quell’unico e incomparabile esempio di donazione e fedeltà a Dio, nessuno mai avrebbe potuto trovare la via per appartenere pienamente al Signore fino a conquistare la salvezza eterna. Il sangue versato da Cristo è un sangue particolarmente prezioso perché è il sangue stesso di Dio che, mescolandosi con il sangue carnale dell’uomo, assume un valore sacrificale, espiatorio, inestimabile, che nessuna offerta sacrificale puramente umana avrebbe mai potuto eguagliare. Ora, la domanda di fondo è e resta pur sempre la seguente: perché il Cristo, il tre volte santo di Dio, ha dovuto affrontare il martirio fino alla morte di croce? E la risposta teologicamente più attendibile è che, senza quel sacrificio, attraverso cui peraltro Dio dimostra di avere realmente a cuore la sua creazione e le sue creature, l’umanità avrebbe continuato a barcollare nel buio pesto della sua ignoranza e del suo peccato.   

Gesù si sacrifica, si immola per, a favore di, in funzione della salvezza di tutti gli uomini, e di fatto espia qualcosa, un distacco, una separazione da Dio e la relativa punizione, al posto e per conto di altri. Solo il Figlio di Dio poteva morire per il bene integrale dell’umanità, per la salvezza totale e definitiva delle creature e del popolo di Dio. Anche ove si sostenga che Cristo sia venuto in mezzo agli uomini per insegnare loro, più in qualità di profeta che di salvatore messianico, quale sia la via da percorrere per ottenere il perdono, la misericordia, la giustificazione e l’eterna salvezza di Dio, e che egli sia morto non sostituendosi all’umanità peccatrice ma solo per liberarla dal terrore della morte, inoculato da Satana nel cuore degli uomini, non si capisce come possa uscirne invalidato il concetto di “sostituzione vicaria”, dal momento che, non foss’altro che per consentire all’umanità di capire la vera natura della misericordia e della giustizia divine, per testimoniare concretamente l’amore di Dio per il popolo d’Israele e per tutti i popoli della terra, il Cristo di fatto ha dovuto lasciare il suo inattaccabile trono celeste, entrare in un mondo di peccato, di malvagità e iniquità, sottoporsi all’incomprensione e all’odio di molti, ad atroci sofferenze derivanti dalla rivelazione e dalla strenua difesa delle sue origini divine, per morire alla fine appeso ad una croce allo scopo di dimostrare che quanti non fossero disposti a familiarizzare con essa non avrebbero potuto beneficiare né di misericordia, né di giustizia divine.

In altri termini, è davvero molto difficile sostenere che Cristo non si sia sostituito all’umanità tutta per salvarla da morte sicura e irreversibile. Come si può ancora affermare che, avendo lasciato la sua patria celeste per venire a soffrire e a morire in questo mondo, non si sarebbe comunque sacrificato per noi tutti e per ognuno di noi? Come si può continuare a negare che senza quella rinuncia di Gesù a se stesso e alla prerogativa della sua onnipotenza, senza quel vero e proprio sacrificio terreno di sé e della propria regalità, nessuno di noi avrebbe potuto ritrovare la via del ritorno a Dio? Non si è forse immolato Gesù per il bene delle moltitudini, sia con la sua irreprensibile e santa condotta di vita e con la sua illuminante e intransigente predicazione evangelica che con tutti i suoi prodigiosi atti taumaturgici, atti non necessari, né dovuti ma del tutto gratuiti di carità e di dedizione al prossimo, ivi compreso quello relativo alla sua ferma e risoluta accettazione della morte per croce? Non ha forse inteso egli espiare per noi, per il nostro riscatto dal peccato e dalla morte, per il nostro spirituale ricongiungimento a Dio,  ma anche e in pari tempo per il pieno soddisfacimento della volontà del Padre, a prescindere dalla quale la sua stessa missione salvifica non sarebbe stata possibile e non avrebbe avuto alcuna giustificazione? Non è, insomma, la radicale offerta sacrificale della sua vita, il vero, inaudito prezzo che Dio, in particolare nella persona del Figlio, ha dovuto pagare per poter salvare, con il suo complessivo disegno creazionale, tutte le sue umane creature? Quale creatura umana, al posto di Cristo, avrebbe potuto meritare per l’intero genere umano, la stessa compassione del Padre, la sua stessa amorevole disponibilità a spalancare le porte del Cielo ad esseri tutto sommato volubili e inaffidabili?

E’ Cristo che, quale che sia la “libera” esegesi che i dotti di ogni tempo intenderanno proporre, ha realizzato quel che nessun salvatore semplicemente umano ha mai realizzato e potrà mai realizzare, ha offerto in sacrificio la sua vita per liberare gli uomini dalla loro intrinseca debolezza e dalla loro ordinaria cecità, per riscattarli dalla perdizione e dalla morte. Tutto questo si chiama “sostituzione vicaria”, piaccia o non piaccia ai disinvolti e agguerriti esegeti, anche cattolici, di questo nostro disgraziatissimo tempo. Gesù Cristo, che muore per non fare morire noi, non appartiene semplicemente alla fenomenologia della vita spirituale storico-umana ma, in misura ancor più rilevante, alla impenetrabile ontologia salvifica della storia eterna di Dio.