La morte tra filosofia e fede
Per Platone, la filosofia è un esercizio di morte o di preparazione alla morte, al momento in cui l’anima potrà finalmente distaccarsi dal corpo e lo spirituale liberarsi dai pesanti e grevi condizionamenti della materialità dei sensi: la morte, dunque, come fine di una lunga prigionia a causa della quale la spiritualità umana è come privata della libertà di realizzarsi pienamente e la stessa esistenza umana è solo espressione di vita apparente ma non di vera vita. Già, ma cosa accadrà con la morte, quando essa sarà sopraggiunta? In che modo concretamente la vita spirituale dell’uomo potrà pienamente esplicarsi, potendo finalmente estrinsecarsi al di là di ogni possibile condizionamento fisico, ambientale, storico-sociale? Si potrà dare un’intelligenza pura, incontaminata, trasparente, delle cose al di fuori della corporeità, dell’esperienza sensibile, dell’emozionalità, delle passioni, o non si rischierà di perdere del tutto persino quella limitata, difettosa, approssimativa e tuttavia utile e confortevole conoscenza del reale resa possibile dalla vita terrena?
Bisogna imparare a vivere morendo per liberarsi gradualmente da ciò che offusca il nostro intelletto e impedisce alla nostra coscienza di purificarsi dalle impurità dei nostri pensieri e delle nostre abitudini. Il vero e il bene possono raggiungersi oltre la temporalità e negli spazi indefiniti e indefinibili dell’eternità, secondo la lezione platonica, ma resta difficile capire come il pensiero possa continuare ad agire, arricchendosi anzi di nuove e più efficaci potenzialità conoscitive, al di fuori della sua corporeità terrena e in assenza di qualunque altra possibile forma di corporeità. Infatti, in Platone la vera vita si realizza con e nella morte, ma la morte in lui non preannuncia una nuova vita, se non nel senso di una condizione umana totalmente libera dalle occupazioni e preoccupazioni della condizione terrena ma anche totalmente inerte e immobile rispetto ad essa, non preannuncia la luce, lo splendore conoscitivo del vero e del bene, non preannuncia alcuna risurrezione e alcun realistico godimento spirituale.
La lezione platonica di una lunga e faticosa preparazione alla morte, ovvero alla rinuncia di conoscenze ed esperienze futili e superficiali, di verità illusorie e beni apparenti, di falsi valori e di passioni irragionevoli, è certamente degna di essere considerata come momento indimenticabile di saggezza filosofica, ma è sin troppo evidente che non basta morire alle apparenze, alle falsità, alle fallaci opinioni del mondo, per conferire valore di eternità al pensiero e alla vita morale dell’uomo e soprattutto per assicurare a quest’ultimo il passaggio da uno stato di contingenza, precarietà e finitezza ad uno stato di eterna beatitudine contemplativa e di immortalità, comunque si voglia intendere quest’ultima. Certo, nel «processo di purificazione l’anima cresce insieme in conoscenza e, per così dire, in essenza, da mortale come sono mortali le cose che vede si fa immortale, come immortali sono i contenuti del suo sapere, fino a coincidere, al limite, con essa stessa, riconosciutasi divina. Ecco perché per il filosofo antico conoscenza e salvezza sono tutt’uno, conoscenza di sé significa conoscenza dell’origine, teoria, cioè contemplazione, e virtù, rettitudine morale, coincidono, hanno lo stesso orientamento e non è possibile l’una senza l’altra»1. Ma questa teoria della reincarnazione, presente in Pindaro, in Pitagora, Empedocle, e nello stesso Platone (nel suo “Fedro”), e la parallela coincidenza di azione conoscitiva e azione salvifica, a differenza della risurrezione evangelica incardinata nella persona e nell’opera storiche di Cristo, costituisce, filosoficamente parlando, nient’altro che un volo pindarico completamente privo di fondamento logico ed empirico o storico.
Tuttavia, dalla filosofia antica scaturisce l’idea, di fondamentale importanza culturale e pedagogica, di un’educazione alla morte, che in Occidente era anche prerogativa delle religioni, ma, prima e accanto ad esse, per l’appunto della filosofia. La filosofia nasce con uno scopo pratico ben preciso: imparare a vivere morendo e a morire vivendo. In fondo, già allora era presente in nuce il concetto spinoziano della vita e della morte sub specie aeternitatis. Non si tratta di vivere avendo paura della morte, che pure incute psicologicamente paura nell’animo individuale, ma di vivere pensando a cose vere e nobili dell’esistenza, in ciò imparando gradualmente a morire alle passioni tristi, com’è quella religiosa fondata sulla paura della morte e, più in generale, come sono tutte le passioni che ci opprimono: l’odio, la gelosia, la collera, la rassegnazione o il nichilismo, insomma tutte quelle passioni che deprimono esistenzialmente gli esseri umani. Il senso della vita è da ritrovare nell’esistenza di un tutto, Natura cosmica o Dio che si voglia definire, di cui fa parte e in cui rientra la stessa vita umana ivi compresa la sua fine ovvero la morte. Questo è sostanzialmente la visione teorica che accomuna la filosofia antica ad una filosofia moderna, pure così diversa sotto altri aspetti tematici, quale quella spinoziana. E poco importa, in tal senso, che nel pensiero antico e platonico si dia una meditatio mortis anziché, come in Spinoza, una meditatio vitae2. Il senso filosofico della riflessione sulla morte è fondamentalmente identico.
Che la vita possa e debba essere intesa e affrontata attraverso una riflessione sulla morte piuttosto che sulla vita stessa, di cui la morte sia in ogni caso momento ineliminabile, fa poca differenza, dal momento che, in entrambi i casi, e al di là degli stati d’animo con cui ci si possa venire confrontando con la morte, quest’ultima è e resta un termine oggettivo, un dato di fatto insuperabile da cui non si può prescindere nel bisogno etico e nel tentativo teoretico di decifrare l’esistenza e di conferirle un senso anche se il suo unico senso possibile dovesse coincidere con una totale assenza di senso. Il significato della vita, ovvero quello che per ognuno di noi rappresenta la vita, dipende dal significato che ognuno di noi, in modo più o meno consapevole, più o meno riflessivo o colto, ritiene le si possa o debba riconoscere, sí che, in definitiva, rispondere alla domanda che cos’è la vita è rispondere alla domanda che cos’è la morte, giacché anche se il saggio è spinozianamente colui che pensa alle cose da pensare, da capire, da scegliere e infine da fare o attuare nel corso della vita senza troppo curarsi della morte, non c’è attimo, pensiero, scelta o atto della sua esistenza di cui egli non colga almeno intuitivamente il limitato e imperfetto valore razionale e morale proprio a ragione del suo sapersi e sentirsi finito e mortale.
La verità è che la morte è compagna inseparabile della vita pur essendo ontologicamente diversa da essa e anzi ad essa contrapposta. Dove c’è vita, c’è sempre la morte in agguato; e anche dove c’è crescita, processo o sviluppo di vita, essi sono inesorabilmente destinati ad andare incontro verso il loro graduale depotenziamento ed esaurimento, verso la loro fine mortale. Dunque, è difficile che il saggio, tra i temi della sua riflessione esistenziale, non includa anche, con tutto il rispetto per l’ateo Spinoza, quello della morte e non si interroghi, anche se con malcelato fastidio, su ciò che alla morte potrebbe seguire, su ciò che dopo la morte potrebbe accadere e i trapassati potrebbero o non potrebbero sperimentare. Contrariamente all’errore che molto frequentemente si viene commettendo in ambiti intellettuali molto sofisticati, la morte non evoca semplicemente un’inquietudine di natura psicologica ed emozionale, e non ha a che fare semplicemente con particolari forme di sensibilità soggettiva, ma riveste, al contrario, anche una precisa valenza logica, teorica, etica, filosofica e teologica, oggettivamente riscontrabile nelle riflessioni e negli studi innumerevoli su essa compiuti nel quadro della storia universale della cultura umana3.
Non si pensa alla morte semplicemente perché istintivamente condizionati dalla paura non già della morte in generale ma della propria morte, ma anche e principalmente perché essa costituisce il presupposto logico-ontologico dell’essere di questo mondo e dell’esserci in questo mondo, la condizione intrinsecamente costitutiva delle stesse modalità umane del pensare, che non a caso sono tutte indistintamente condannate a percepire e a rappresentare il reale in forme più o meno inadeguate. Non è possibile pensare senza pensare di pensare in quanto esseri mortali: si pensa tutto ciò che è vita e appartiene alla vita a cominciare dalla morte, come fatto e come tema, che più di ogni altro caratterizza e sovrasta la vita. Pertanto, si deve pensare alla morte e a come morire, non per odio alla vita ma per capire come bisogna amare la vita e imparare a vivere, e bisogna essere pronti a morire per ragioni che non rinneghino ma rendano onore alla vita e ad ogni pensiero e azione capaci di alimentare e nobilitare la vita di tutti oltre che la propria vita.
Per il cristiano la migliore forma di vita è quella che consiste nella postulazione teorico-pratica di una vita oltre la vita, di una vita totale e perfetta oltre questa vita parziale e imperfetta. Ma tale postulazione non nasce da un volo pindarico come quello che è alla base della reincarnazione, bensí da una oggettiva esperienza storica, dalla vita e dall’opera di una persona storicamente esistita e ormai sempre esistente nella memoria storica dell’umanità: Cristo, al quale intere moltitudini avrebbero riconosciuto nei secoli non solo una natura umana ma anche una natura divina. Qui la morte non sarebbe venuta più assolvendo una semplice funzione educativa da esercitare in vista di una vita pensata e vissuta non in modo conformistico e irresponsabile ma secondo princìpi di sano discernimento e di giudiziosa condotta morale, in quanto avrebbe assunto un vero e proprio significato salvifico in virtù della morte cui il Cristo si sarebbe sottoposto in espiazione e in riscatto dei peccati degli uomini e dunque per la loro eterna salvezza. Ma qui, a differenza di ciò che pensavano gli antichi filosofi, non è sufficiente conoscere la verità delle cose e distinguere il bene dal male, per conseguire la salvezza, essendo necessario non solo comprendere ma anche compiere e realizzare il vero, il bene e il giusto, al di là del giudizio su essi espresso. La salvezza non scaturisce da forme di intellettualismo etico quanto piuttosto da un atto di volontà che trascende i limiti del conoscere, del sapere, della stessa coscienza morale dell’individuo, in quanto atto di fede nell’esistenza di una realtà altra momentaneamente inaccessibile ma ontologicamente ed escatologicamente possibile, probabile, certa per chi, senza peccare di fideismo, non ritenga ragionevole dubitare della parola di Cristo. La salvezza non può essere una salvezza senza fede, una salvezza etica, una salvezza pagana, perché una salvezza siffatta è in realtà non solo contraddittoria ma già una dannazione. Vivere per un senso, per un qualunque senso di vita, non è ancora vivere per la vita4.
Non che una vita filosofica come quella concepita da Socrate fosse di per sé votata all’ozio e a comportamenti praticamente indolenti, cinici o disimpegnati, ma la vita cristiana non consiste nell’assecondare individualisticamente i suggerimenti o le prescrizioni della ragione umana, per quanto elevati possano essere, bensì nel conformare quanto meglio possibile, altruisticamente e in spirito di carità (verso Dio e verso i simili), tali suggerimenti o prescrizioni alle superiori norme del Logos divino, incarnato e rivelato nella persona del Cristo, là dove tuttavia la fede in un Dio trascendente e sovrannaturale non sia da intendere come estranea alla stessa razionalità soggettiva e personale dell’uomo ma come una sua possibilità esplicativa. La conoscenza ha la funzione di purificare la vita dell’uomo rendendo più libera e acuta la vista del suo intelletto, ma la conoscenza del bene non basta a garantire il perseguimento del bene, perché altro è pensare il bene, altro è volerlo e farlo. L’eternità non si conquista onorando una coscienza inondata di umana saggezza separata da una sapienza divina o in cui la sapienza divina venga riduttivamente risolvendosi e annullandosi, ma confidando in una sapienza divina come fonte di verità e di salvezza nel quadro dell’esperienza esistenziale degli uomini. Per il cristiano, solo la Parola di Dio può salvare, solo essa può salvare la stessa angusta e difettosa parola dell’uomo.
D’altra parte, se per la filosofia antica, sulla scorta della lezione socratica, la morte non è un motivo di dolore devastante o di sconvolgimento esistenziale, ma un viatico di salvezza che riporta l’uomo a quell’Eterno da cui proviene, solo in ragione della morte redentiva di Cristo la morte, che in se stessa non ha nulla di salvifico ma costituisce il termine naturale ultimo di ogni esistenza creaturale, viene assurgendo da un lato a fine, a termine di una vita intrinsecamente mortale ma, dall’altro, a inizio di nuova e immortale vita o a transito verso essa5: in tal senso, finisce per apparire molto più convenzionale e problematico il rapporto tra vita e morte con la conseguenza di sentirsi indotti a chiedersi se morire non sia il vivere e il vivere non sia un morire. Morire immersi nel corpo e nel sangue eucaristici di Cristo, oltre che nella autenticità della sua Parola, è ciò che realmente e non solo filosoficamente consente, per fede, di risorgere ad una vita eterna non astratta, non generica ed impersonale, non vagamente iperuranica, ma contrassegnata da una gioia senza fine di spirito e di sensi gloriosamente trasfigurati. In quanto fatto naturale e biologico, la morte non riveste alcun particolare significato: si nasce, si vive e si muore6.
Tuttavia, la morte è percepita dall’uomo anche come violenta negazione del suo desiderio di vita, del suo desiderio di continuare ad esistere, perché l’essere cosciente, a differenza di esseri privi di coscienza, non può restare indifferente alla consapevolezza della sua inesorabile fine. L’essere cosciente sa bene quale sia il suo destino di essere finito e mortale, ma si ribella ugualmente all’idea che la morte, sempre incombente minacciosamente sulla sua vita, prima o poi giungerà a decretarne la fine, benché si possa anche desiderare soggettivamente la morte a causa di una esperienza di vita troppo convulsa, faticosa, dolorosa e infelice. In linea di principio, la morte viene umanamente accettata per rassegnazione, non per convinzione, tranne che da parte di chi, avendo sempre vissuto per morire alle tristi o alle cattive passioni del mondo e del suo io, pur nel quadro di un incessante e sofferto travaglio interiore, va incontro alla morte non solo come ad un’estrema opportunità di liberazione totale da tutti quei condizionamenti terreni che si frappongano al godimento definitivo della sua vita in pienezza, ma anche come ad un’inedita opportunità di sperimentare, conservando la sua personale identità, ulteriori forme eternamente gioiose e perfette di vita.
Per Dilthey la morte era una limitazione dell’esistenza non solo in quanto termine biologico di essa, ma soprattutto in quanto condizione del modo esistenziale di porsi di fronte a tutti i suoi momenti costitutivi. Con Jaspers e soprattutto con Heidegger essa veniva a configurarsi, un po’ artificiosamente se si vuole, come possibilità indeterminata e insuperabile dell’impossibilità di ogni rapporto, di ogni esistere. E, in quanto pura possibilità, essa può essere compresa non come attesa del suo sopraggiungere né come rinuncia a pensarci, ma come anticipazione emotiva del suo ineluttabile accadere, ovvero come angoscia. Ma il sentimento della morte come angoscia può essere temperato dall’assunzione della morte quale oggetto di impegnativa ma serena riflessione critico-razionale di tipo eidetico-intenzionale, già esercitata entro determinati limiti dai pensatori greci, la cui funzione sia quella non solo di portare alla conoscenza delle leggi fisiche di decomposizione graduale dell’organismo corporeo ma di introdurre anche l’individuo ad un’esperienza diretta delle forze invisibili che agiscono nel corpo visibile della sua complessiva realtà psicofisica.
In tal modo, in fondo, la filosofia, sin dai primordi, proprio attraverso una graduale evoluzione da esercizio e approccio prettamente “mentali” ai problemi del cosmo e dell’uomo in quanto parte del cosmo ad esercizio e approccio più ampiamente “esistenziali” a questi stessi problemi, era venuta affinando e approfondendo la sua attitudine indagatrice. La filosofia come via, ante litteram, ad un’esperienza fenomenologico-intenzionale della morte consentiva nei tempi antichi ma, su rinnovate basi logico-metodologiche, può consentire anche oggi di acquisire, se non la certezza, almeno il sospetto dell’esistenza di una dimensione “altra” dell’Essere, altra da quella puramente visibile, osservabile, percepibile sensorialmente, vale a dire di una dimensione sacra, divina, e di un connesso destino oltremondano che però, per quanto intuito, nel pensiero greco sarebbe rimasto privo di precisa identificazione, astratto e impersonale, ignoto. Il destino ultraterreno, come il Dio cui faceva capo, era per i greci un destino ignoto, non era il destino promesso dal Dio rivelato per mezzo e per opera di Cristo. Era comunque inevitabile che la filosofia dovesse tendere in modo inesausto a quella sofìa mai completamente raggiungibile che apparteneva allo spazio del sacro e del divino. La ricerca del divino veniva a coincidere con la ricerca della sapienza, infinita come Dio e pertanto inesauribile e sempre sostanzialmente inaccessibile come quest’ultimo. Filosofia era l’amore per la conoscenza, il sapere, la verità, amore non però suscettibile di convertirsi in raggiungimento e possesso di verità e vita, che sarebbero stati invece garantiti dall’avvento della “buona notizia”: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6) e “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (Gv 11, 25-26)7.
Non basta amare la sapienza umana, anche se costantemente proiettata verso l’ignoto, non basta un approccio metafisico-speculativo al problema della verità o un’sperienza tutta interiore di essa per conseguire la salvezza e una qualche forma non meglio precisata e precisabile di vita eterna, ma bisogna attenersi fedelmente, più che a criteri euristici di natura pur sempre umana e spesso privi di riscontri ontologici oggettivi, alla Parola di Dio e a tutto ciò che il Dio della vita e della morte sia venuto magnanimemente rivelando attraverso l’opera salvifica del suo Figlio unigenito. Soprattutto alla luce dell’originale e sorprendente pensiero cristiano, «l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo», avrebbe scritto Schopenhauer che però della storia cristiana avrebbe apprezzato solo i primi Padri della Chiesa, sarebbe stato dato dalla «cognizione della morte, insieme con la vista del dolore e della miseria della vita», giacché non vi è dubbio che «se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esiste e perché sia fatto proprio così»8. Ma bisogna precisare che la filosofia medievale, a torto considerata come ancillarmente e strumentalmente subordinata alla fede e alla teologia, in realtà sarebbe venuta semplicemente e necessariamente arricchendosi di una dimensione religiosa e teologica imponente, di cui sul piano culturale non si sarebbe potuto non tener conto, e ormai capace di offrire un importante e significativo contributo alla stessa ricerca filosofica e alla sua riflessione sistematica sui problemi del reale come del sapere, della gnoseologia come dell’etica, della scienza come della politica o dell’economia. La differenza tra la religiosità filosofica del misticismo razionalistico dei pensatori greci e la religiosità della filosofia cristiana del medioevo consiste evidentemente nella forma prettamente teoreticistica, più che laica (dal momento che anche un pensatore credente può essere tale in forma laica), della prima rispetto alla forma dichiaratamente confessionale della seconda.
La filosofia di matrice socratico-platonica, che risente dell’antica dottrina orfica e di una tradizione misteriosofica, da una parte era stata applicazione di un pensiero razionale ai dati del mondo sensibile, con ciò ponendo le basi dello sviluppo scientifico del pensiero stesso, dall’altra, e soprattutto, era venuta esprimendo una linea di ricerca che, trascendendo le conoscenze puramente empiriche e razionali, conducesse l’individuo ad un’esperienza gnostica di tipo mistico-intuitiva e quindi ad una sorta di illuminazione extrarazionale propedeutica alla diretta contemplazione del vero assoluto, carico di conseguenze anche sul piano affettivo, emotivo, estetico. La filosofia, dunque, sin dagli inizi, avrebbe chiaramente manifestato le sue due essenziali dimensioni essenziali e costitutive: una rivolta all’analisi e alla comprensione della realtà esterna all’individuo, l’altra rivolta all’analisi e alla comprensione della realtà individuale esistenzialmente più intima e profonda.
Di qui anche la centralità della riflessione sul morire. Il processo ascensionale della filosofia dalle tenebre dell’ignoranza e dell’erronea opinione alla luce della pura e divina verità, è paragonabile al processo ascensionale della vita morale dell’individuo da forme dispersive e superficiali di giudizio e di comportamento alla scoperta del senso via via più essenziale e universale dell’esistenza: nell’uno come nell’altro caso bisogna saper morire all’errore, alle apparenze, alle illusioni, per venire finalmente a capo della verità immutabile ed eterna del conoscere non meno che del vivere e per poter essere felicemente partecipi di una vita eternamente immortale. Le analogie tra un modo iniziatico di esercitare la filosofia e la morte tanto in senso fisico-biologico che in senso esistenziale sono ben descritte da Plutarco: «L’anima, al momento della morte, prova la stessa sensazione di coloro che sono iniziati ai Grandi Misteri (...) Si tratta dapprima di corse a caso, di svolte dolorose, di marce inquietanti e senza fine attraverso le tenebre. Poi, prima della fine, lo sgomento è al culmine; brividi, tremiti, sudore freddo, spavento. Ma subito dopo una luce meravigliosa si presenta davanti agli occhi e si attraversano luoghi puri e praterie che echeggiano di voci e di danze; parole sacre ed apparizioni ispirano il rispetto religioso. Allora l’uomo, ormai perfetto e iniziato, è libero, si muove senza angustia e con il capo cinto da una corona celebra i Misteri; egli vive con gli uomini puri e santi; vede sulla terra la moltitudine di quelli che non sono iniziati e
purificati affondare nel pantano ed essere oppressi dalle tenebre e che, per paura della morte, indugia nei mali, illusa dalla felicità di laggiù»9. Non bisogna, dunque, temere la morte ma trattarla come una specie di musa ispiratrice di nobili sentimenti e azioni ispirate.
Tuttavia, contrariamente all’insegnamento di questo pensiero greco, il cristianesimo avrebbe avvertito in modo energico che né la salvezza, né la vita immortale sono diretta conseguenza di ascesi razionale e di un’attività teoretica culminante nell’illuminazione gnostica. Salvezza e immortalità, pur potendo senz’altro disporre della facoltà conoscitiva come di un importante strumento di liberazione, avrebbero potuto infatti essere conseguite solo se il conoscere il vero si fosse convertito in strumento di reale e coerente conversione teorico-pratica, intellettuale e morale, psicologica e spirituale, in un’adesione esistenziale al mistero dei misteri, quello di un Dio contemporaneamente uno e trino, sempre identico a se stesso e tuttavia detentore della straordinaria prerogativa di assolvere simultaneamente funzioni sovrannaturali distinte a beneficio degli esseri celesti e, soprattutto, degli esseri umani. Inoltre, la salvezza e l’immortalità prefigurate dal cristianesimo non riguardano solo o prevalentemente l’anima, ma corpo e anima ad un tempo, ma un’anima che è inseparabile dal corpo, così come il corpo non può che far capo ad un’anima che lo governi in modo positivo o negativo, razionale o irrazionale, saggio e giudizioso o insensato ed empio. Nell’ottica cristiana, non è esatto quel che Platone, nella sua “Apologia”, fa dire a Socrate circa il rapporto tra anima e corpo. In altri termini, non è il corpo in se stesso che, pur essendo sede di preoccupazioni fisiche e psichiche, di malattie e turbamenti di varia natura, e poi di paure, di illusioni e di passioni impure, causa unilateralmente l’inattività o la stasi del pensiero e le connesse malattie dello spirito, così come guerre, ribellioni e controversie, non hanno univocamente origine nel corpo e nelle sue passioni, dal momento che sul corpo, sugli istinti naturali e su tutte le forme di sensibilità che vi sono connesse, può esercitare una funzione diligente o non diligente di controllo o di moderazione la ragione che, a seconda della forza o dell’energia con cui essa verrà esprimendo la sua costitutiva volitività, potrà favorire oppure impedire entro limiti di ragionevolezza l’asservimento del pensiero alle pulsioni di per sé completamente naturali dell’io corporeo.
D’altra parte, è questa stessa latente conflittualità tra facoltà sensibile-istintuale e facoltà intellettivo-razionale della vita individuale che, lungi dal condizionare e dal limitare il libero e autonomo esercizio del pensiero e la ricerca del vero, può sollecitarne e rinnovarne continuamente lo sforzo di approfondimento e di risoluzione delle difficoltà o delle aporie via via insorgenti sul piano etico-esistenziale. Ciò non toglie che, come dice Socrate, potremo raggiungere la «conoscenza suprema» solo quando saremo morti, ma questo non avverrà a causa dell’imperfezione del corpo rispetto ad un’ipotetica, perfetta capacità razionale di discernimento e di giudizio, ma a causa di un’imperfezione che accomuna in egual misura il corpo e l’anima: il Cristo viene a salvare il corpo dell’uomo offrendo in sacrificio di amore il suo corpo, ben sapendo che il corpo umano ha un’anima da esso inseparabile ma di esso responsabile. Poiché la corporeità umana va là dove fondamentalmente la conduce la facoltà intellettiva e razionale che vi inerisce per il tramite della connessa coscienza morale, ad essere giudicati e salvati o dannati da Dio saranno i corpi e le anime come un composto unico e indistinguibile, pur con ogni più attenta considerazione divina per la specificità dell’esperienza esistenziale di ciascun individuo10.
Si comprende altresì, alla luce della lezione soteriologica evangelica e cristiana, che il filosofo non può accampare alcuna pretesa di superiorità rispetto ai comuni mortali, che non saranno giudicati in base allo sforzo teoretico o gnostico compiuto per un avvistamento quanto più possibile ravvicinato del vero e del bene assoluti, ma in base al modo in cui, nei limiti delle loro forze e capacità, avranno impiegato la loro intelligenza e la loro sensibilità per vivere e agire secondo la verità e il bene semplicemente rivelati da Dio e posti al servizio di ogni ricerca e condotta umane di senso. Al contrario, i sapienti dovranno prestare molta attenzione a non identificare le loro presunte capacità conoscitive e relative virtù morali con la sicura conquista della salvezza e dell’immortalità, al punto di non poter e non dover più temere minimamente la morte, giacché, in caso contrario, resterebbero vittima dell’errore più tragico che uomo possa commettere: quello di potersi salvare conseguendo presuntivamente il senso più alto della divinità senza attendere e senza implorare di essere salvati da Dio. Ecco perché non il conoscere, non il sapere, non la filosofia, sono principio di salvezza ma unicamente la fede, certo accompagnata e sostenuta dalle opere, nel Signore e nel suo Cristo, nella sua grazia, nella sua giustizia e nella sua misericordia, e infine nella sua sapienza o nel suo eterno Logos.
Anche la fede, però, ha un significato non ovvio, non scontato, un significato purtroppo suscettibile di essere frainteso ed equivocato, e assoggettato a inconsapevoli e perversi usi ideologici, da parte del più sprovveduto dei fedeli oppure anche da parte del più autorevole principe della Chiesa. Anche in questo senso occorre sempre confidare non già in un’autonoma e salvifica capacità della mente di illuminare gnosticamente se stessa ma nella possibilità di essere illuminati e fortificati dalla grazia divina nel ricordo perenne e nella continua riattualizzazione del misericordioso e salvifico sacrificio di Cristo11. Bisogna saper morire alle certezze terrene, del sapere, della scienza, della stessa teologia e della storia, non nel senso che siano necessariamente prive di verità ma nel senso che non esprimono e mai potranno esprimere la verità, solo la verità, tutta la verità. Bisogna saper morire anche alla vita dei sensi, alle apparenze, alle utopie più o meno immaginifiche ed entusiastiche di spiriti forse geniali ma incontrollati, non per disprezzare qualunque forma di godimento terreno e di creatività storico-culturale, ma per essere sufficientemente capaci di aprire la mente e la coscienza a cose, realtà, valori, affetti, che non avremo potuto conoscere, vivere, sperimentare negli angusti orizzonti della vita terrena. Bisogna saper morire ad aspettative erronee o parziali e precarie di vita per poter rinascere o risorgere a visioni via via più veritiere e più ricche di senso, a processi infinitamente appaganti di approfondimento conoscitivo, ad esperienze esaltanti di godimento sensibile e spirituale nel segno di un purissimo amore e di una perfetta giustizia. Dopo la morte fisico-biologica, sono questi gli scenari paradisiaci, amplificati in grandezza, potenza e bellezza, che, alla luce delle pur limitate indicazioni escatologiche contenute nelle Sacre Scritture, verranno presumibilmente dischiudendosi alla vista dei defunti ritenuti degni di gloriosa beatitudine.
La concezione cristiana comporta, pertanto, una meditatio mortis in realtà funzionale ad una meditatio vitae, all’unica meditatio vitae umanamente e storicamente aperta ad una concreta possibilità di vita oltre la morte, di vita eternamente zampillante di vita, di vita definitivamente sottratta a questa terrena “valle di lacrime”. Ma questa concezione cristiana della morte, preparata dalla constatazione biblico-sapienziale di una vita precaria, fugace e transitoria, in cui tutto è “vanitas vanitatum”, sarebbe stata messa a dura prova dalla moderna rivoluzione scientifica, che avrebbe ridotto meccanicisticamente tutti i fenomeni della coscienza, ivi comprese le premonizioni, le idee e le convinzioni religiose in essa radicate, a semplici epifenomeni corporali, a semplici manifestazioni secondarie, illusorie e dipendenti dalla corporeità, per cui lo stesso tema della morte doveva essere relegato in un ambito biologico, psicologico e sociale12. Ma, evidentemente, tanto il tema di Dio quanto quello ad esso connesso della morte, restava ancora troppo distante dalle lenti indagatrici e dalle procedure logico-metodologiche della scienza moderna per poter rischiare di poter essere liquidati sulla base delle sue pure travolgenti scoperte. In realtà, la nuova cultura scientifica avrebbe ancor più mobilitato e incentivato, non già arrestato o rallentato la riflessione teologica e cristiano-cattolica, anche perché nel frattempo avrebbero visto la luce forme di teologia naturale che, pur eludendo o non condividendo i princìpi dogmatici del cattolicesimo, non avrebbero certo messo in discussione la centralità di Dio nella storia dell’universo e della vita degli uomini e dei popoli, né avrebbero pensato di affrontare il tema della morte in senso irreligioso. D’altra parte, nel ‘700 illuminista, l’idea di un Dio universale, unico per tutti gli esseri umani e concepito al di là di qualunque confessione religiosa, veniva non di rado propugnata e propagandata non certo sulla base di ragioni teoretiche e teologiche particolarmente robuste e pregnanti bensì per ragioni essenzialmente ideologiche (l’antipapismo) e polemiche (contro la presunta o reale funzione oscurantista della Chiesa). Tuttavia, sotto l’impulso della cultura razionalistica settecentesca, il tema della morte comincia ad essere oggetto di un processo di desacralizzazione e di marginalizzazione sociale, per cui ad una riflessione sui problemi metafisico-religiosi legati alla morte tende a sovrapporsi sempre più spesso la riflessione sui problemi esistenziali della vita. Ormai, più che della salute dell’anima, ci si viene preoccupando della salute del corpo: la presenza della morte nella vita e nella cultura della collettività, viene collocandosi sempre più sullo sfondo di un atteggiamento mentale volto a rimuovere l’idea della morte dalle esperienze e dalle pratiche ordinarie della quotidianità13. La morte non viene più percepita come un tema carico di significati etici e religiosi, di una valenza esistenziale particolarmente rilevante, e da meditatio mortis viene a trovarsi derubricata a semplice, e sia pure paralizzante, paura della morte.
Tale orientamento psicologico e culturale, incoraggiato nell’ottocento dalla riduzione della mortalità, da una migliore alimentazione di base e dal progresso industriale, nonché da un’accresciuta capacità di controllo su epidemie spesso in precedenza devastanti, avrebbe avuto spesso il suo culmine nella convinzione che prima o poi si potesse addirittura sconfiggere la morte stessa con la medicina e i vaccini. La cultura novecentesca e infine quella attuale sarebbero state pervase da un crescente fideismo tecnologico-scientifico e dalla conseguente illusione di poter migliorare e allungare notevolmente la vita media degli esseri umani se non in modo indefinito, almeno fino al punto di favorire la graduale e definitiva espulsione dall’immaginario collettivo del timore o del terrore della morte. L’attaccamento sempre più spasmodico ad una vita corporea spiritualmente arida o improduttiva e sfociato nel sentire comune di questa vita terrena come dell’unica vita possibile, ha finito per erodere oggi la tradizionale solidità della fede cattolica in una vita eterna che, pur comprensiva della vita terrena, abbia proprio nella morte e nella accettazione relativamente serena della morte una delle sue principali condizioni o dimensioni escatologiche. Tuttavia, il cattolico fedele alla Parola di Dio-Cristo non solo non si pone dubitativamente il problema, sia pure in forma retorica, di stabilire se la proposta cristiana, o meglio la promessa evangelica di una vita oltremondana dopo la morte, sia un’illusione o una speranza, ma resta tenacemente convinto che la vita del mondo che verrà, ancor più che una speranza, è una certezza fondata sulla rocciosa parola di Cristo, sebbene non sempre la sua Chiesa appaia in grado di onorarla14. Una proposta alternativa a questa visione è solo quella per la quale l’uomo, alla fine della sua vita e della sua storia, scopra di essere stato, sartrianamente, soltanto una «passione inutile».
L’uomo contemporaneo, in generale, più che vivere eticamente e religiosamente, si lascia vivere abbandonandosi alle emozioni, vere o false che siano, che la vita quotidianamente gli procura, senza sottrarsi all’imperante consumismo edonista, senza porsi troppi problemi di natura spirituale e, per così dire, sopravvivendo in uno stato di apatia o di indifferenza. Uno studioso spiritualista di tradizione esoterica, gnostico e massone di fede islamica e ferocemente anticattolico, giudicava la civiltà moderna una vera e propria anomalia tra tutte le civiltà storiche conosciute, a causa del suo sviluppo unilateralmente materialistico e del tutto privo di un fondamento metafisico-religioso, donde un sostanziale regresso intellettuale e spirituale a dispetto del vertiginoso progresso del pensiero scientifico e tecnologico che caratterizza il tempo presente e a seguito del quale lo stesso cattolicesimo aveva finito per diventare anonimo: «si considera ora la religione un semplice fenomeno sociale; invece di ricollegare l’intero ordine sociale alla religione, quest’ultima, quando ancora si consenta a conservarle un posto, è considerata ormai soltanto come uno qualsiasi degli elementi che costituiscono l’ordine sociale; e quanti cattolici, ahimè, accettano questo modo di vedere senza la minima difficoltà! … Non è il caso di nascondersi che coloro stessi che credono di essere sinceramente religiosi non hanno per lo più, della religione, che un’idea assai indebolita; essa non ha nessuna influenza effettiva sul loro pensiero né sul loro modo d’agire; è come separata da tutto il resto della loro esistenza. Praticamente, credenti e non credenti si comportano pressappoco nella stessa maniera; per molti cattolici l’affermazione del soprannaturale ha un valore soltanto teorico, ed essi sarebbero assai imbarazzati se dovessero constatare un fatto miracoloso. Siamo in presenza di quel che si potrebbe chiamare un materialismo pratico, un materialismo di fatto; non è forse esso più pericoloso del materialismo riconosciuto come tale, proprio perché coloro che colpisce non ne hanno neppure coscienza? D’altra parte, per i più, la religione è soltanto una faccenda di sentimento senza nessuna portata intellettuale; si confonde la religione con una vaga religiosità, la si riduce a una morale; si riduce il più possibile lo spazio della dottrina, che invece è proprio l’essenziale, ciò di cui tutto il resto dev’essere soltanto una conseguenza logica»15. Era una diagnosi assolutamente veritiera, benché chi la formulava avesse non poco frainteso e disconosciuto il vero significato e la specificità storico-teologica del cristianesimo e dello stesso cattolicesimo.
Venendo meno il senso religioso della vita era inevitabile che ad eclissarsi fosse anche il senso religioso della morte. Il filosofo francese Jean Baudrillard ha ben evidenziato la mentalità dominante sulla morte in questi termini: «Al giorno d’oggi non è normale essere morti (…). Essere morti è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile»16. La morte è ormai oggetto di sistematica e scaramantica rimozione sociale, e appare quanto mai pertinente la denuncia di chi scrive che «se oggi, in Occidente, il cadavere, il morente e il vecchio sono inseriti nella categoria dello scarto è perché sono considerati solo macchine fuori servizio»17 e di chi sostiene che oggi ci si vergogna di parlare della morte come un tempo ci si vergognava di parlare di sesso e dei piaceri connessi alle esperienze erotico-sessuali18. La fuga dalla morte era stata preconizzata già da Blaise Pascal: «gli uomini non avendo potuto liberarsi dalla morte, dall’ignoranza e dalla miseria, hanno deciso per essere felici di non pensarci»19. Ma, venendo meno l’attenzione e il rispetto per la morte, potevano forse accrescersi l’attenzione e il rispetto per la vita e per tutti i significati e i valori che essa viene presupponendo e implicando ad un tempo anche in relazione ad un possibile destino ultraterreno?
NOTE
- G. Giacometti, La filosofia antica come via di realizzazione, relazione tenuta a Montelupo Fiorentino, in data 28 gennaio 1995.
- M. L. Gatti, Interpretare Platone. Saggi sul pensiero antico, Milano, Vita e Pensiero, 2020; S. Nadler, Spinoza sulla vita e sulla morte. Una guida filosofica, Torino, Einaudi, 2021.
- Indizi di un approccio pluridimensionale al problema della morte possono rinvenirsi in libri come: E. Severino-A. Scola, Il morire tra ragione e fede, Roma, Marcianum Press, 2014 e A cura di Markus Krienke, Comprendere la vita. Pensare morte e immortalità oggi, Pisa, ETS, 2016.
- Cfr. S. Natoli, La salvezza senza fede, Milano, Feltrinelli, 2007 e S. Givone, Conferenza su Il sacro limite, come vivere la morte, Modena, 2010.
- AA.VV, Mors. Finis an transitus?, a cura del Centro Studi “La permanenza del Classico”, Città di Castello (PG), 2006.
- Wittgenstein, nel Trattato logico-filosofico che la morte si subisce ma non si vive e che, pertanto, non costituisce in senso proprio un evento della vita, mentre Sartre sottolineava l’insignificanza della morte, definendola come «un puro fatto, come la nascita; essa viene a noi dall’esterno e ci trasforma in esteriorità. In fondo, essa non si distingue in alcun modo dalla nascita ed è l’identità della nascita e della morte che noi chiamiamo fatticità» (J. P. Sartre, L’être et le Néant, Paris, Gallimard, 1955, p. 630).
- La soluzione terrenista e la soluzione oltremondana al problema della morte si intrecciano e si confrontano in modo talvolta serrato nel quadro del dibattito filosofico contemporaneo: si veda, ad esempio, C. Scilironi, Note intorno al problema della morte, Padova, Cleup, 2018, pp. 119-172, ma anche AA.VV., Che cosa vuol dire morire. Sei grandi filosofi di fronte all'ultima domanda, a cura di D. Monti, Torino, Einaudi, 2010.
- A. Schopenhauer, Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione», Milano, Mondadori, 1989, 2 voll., § 17, p. 939.
- Plutarco, Fragmenta 168 Sandbach = Stobeo 4, 52, 49; G. Colli, La sapienza greca: Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma, Milano, Adelphi, 1977, I, p. 113.
- C. Boni, Dove va l’anima dopo la morte, Bellaria-Igea Marina, Amrita Edizioni, 2009; S. Rose, L’anima dopo la morte. Esperienze contemporanee alla luce dell’insegnamento ortodosso, Milano, Servitium Editrice, 1999.
- Cfr. O. Casel, Fede, gnosi e mistero. Saggio di teologia del culto cristiano, Padova, EMP Edizioni, 2001; C. Markschies, La gnosi, Torino, Claudiana, 2019; H. C. Puech, Sulle tracce della gnosi. La gnosi e il tempo-Sul Vangelo secondo Tommaso, Milano, Adelphi, 1985; F. Fiorini (Apis), I figli della conoscenza. Storia critica dello gnosticismo e del neo-gnosticismo, Sesto San Giovanni (Milano), Mimesis, 2018.
- Erano teologicamente interessanti, già nel 1995, le considerazioni di G. Scherer, Il problema della morte nella filosofia, Brescia, Queriniana, 1995, sulle difficoltà via via più accentuate nel conservare il valore spirituale della morte in una società letteralmente dominata dalla scienza e dalla tecnica.
- Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente, Milano, Rizzoli, BUR, 1988, p. 60 e sgg.
- Si è qui alluso al libro di V. Messori, Scommessa sulla morte. La proposta cristiana: illusione o speranza?, Milano, Ares, 2021. Sulla morte come speranza di ragione fondata sulla fede in Dio attraverso l’esperienza di Cristo e il fare esperienza di Cristo, molto utili sono le riflessioni del cardinale C. Ruini, C’è un dopo? La morte e la speranza, Milano, Mondadori, 2016. Ma una riflessione incisiva, fortemente problematica sulla morte e laicamente rispettosa della plausibilità della speranza cristiana di una vita immortale al di là della morte, è soprattutto quella di R. Bodei contenuta in un articolo intitolato “Quando la vita finisce”, pubblicato sul sito on line di Feltrinelli in data 27 settembre 2004.
- René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1975, p. 16.
- J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 89.
- Jean-Didier Urbain, Morte, in Enciclopedia Einaudi, Torino, vol. 9, 1980, p. 519 e segg.
- G. Gorer, The Pornography of Death, in “Encounter”, ottobre 1955, poi ripreso in Death, Grief and Mourning in “Contemporary Britain”, New York, Doubleday, 1963; Ariès, Storia della morte in Occidente, citato.
- B. Pascal, Pensieri, in Pensieri Opuscoli Lettere, a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano, 1978, p. 482, fr. 213 [121].