Riflessioni per una concezione non riduttiva della morte
Non è sufficiente rimuovere la morte dalla nostra quotidianità per espellerla dalla nostra esistenza: la morte può essere tenuta a distanza dalla nostra psiche solo entro certi limiti dal momento che gli eventi della vita sono così contraddittori, incalzanti e spesso drammatici da consentire ad essa di tornare ad insinuarsi continuamente nella propria interiorità e di generarvi frequenti momenti di turbamento e smarrimento che l’io tenta di placare con forme di falso o illusorio benessere. In realtà, per quanto ci si sforzi di neutralizzarne la presenza, la morte risulta umanamente ineludibile rendendo necessarie alcune strategie di difesa, non di pari valore spirituale ed efficacia pratica, dalla sua minacciosa incombenza1. Alcune di tali strategie muovono da domande quasi spontanee e sensate: perché l’essere umano, pur sapendo che la morte coincide con la graduale e poi definitiva decomposizione del corpo, fin dalla preistoria è portato a credere in una vita dopo la morte? E perché esso, pur temendo costantemente la morte e di restarne vittima da un momento all’altro, è tuttavia non di rado capace di affrontare la morte per il bene dei propri cari, per la fedeltà alla patria o al proprio Dio? Perché, pur cosciente di essere mortale per natura, l’individuo non riesce generalmente ad adattarsi, sul piano etico-culturale, sul piano di quella che Pascal chiamava la «seconda natura», alla verità mortale della sua specie? Perché è esistenzialmente cosí faticoso rinunciare alla propria individualità e alla volontà di sopravvivenza quanto più possibile prolungata nel tempo, benché essa talvolta venga violata da stati oltremodo ossessivi di angoscia e da atti suicidi?
Non sono domande banali anche se nei confronti di esse sono in atto processi consolidati e sempre più accentuati di rimozione individuale, e soprattutto, storico-sociale. A ricordare l’orrore della morte e ad alimentare la speranza di una vita oltre la morte resta certo, al di là delle consuete cerimonie laiche di commiato dal o dai defunti, la religione, ma l’effetto terapeutico e consolatorio della sua tradizionale funzione liturgico-sacramentale appare in via di graduale indebolimento a causa dello stesso indebolimento epocale cui è sottoposto non da oggi il modo stesso di pensare e vivere la fede nella società e nella stessa comunità ecclesiale. L’oggettivo e crescente deficit qualitativo della fede, la connessa desacralizzazione dei suoi originari e costitutivi contenuti dogmatici, la volgarizzazione accattivante dei suoi misteri impenetrabili ma vincolanti (l’amore di Dio, la giustizia di Dio, il giudizio di Dio ecc.), non possono che risultare funzionali allorché subentri la morte, non già ad un’istanza etica e spirituale di personale e collettiva meditazione e purificazione interiori, ma all’adempimento di un dovere familiare e sociale ineludibile, alla abitudinaria celebrazione di un evento terminale della vita che si deve pur celebrare con discorsi e pratiche sufficientemente rassicuranti e solenni.
Questo non comporta che nella vita dell’umanità contemporanea la fede sia completamente irrilevante ma non c’è dubbio che quel barlume di fede pur presente persino nelle coscienze più indolenti e distratte oggi sembri essere nettamente soverchiato dall’inclinazione di molti di noi ad abdicare alle proprie capacità e possibilità cognitive di fronte alla morte: «nello stesso momento in cui si sono profuse risorse colossali ed enormi capitali scientifici, culturali e finanziari allo scopo di allungare la vita, di migliorarne le possibilità e la durata, di rallentare i processi di senescenza, di lenire i dolori, di guarire o almeno contenere malattie in passato inesorabili, di fronte a quest’ultima barriera si è a lungo (e in molti ambiti tuttora) preferito il non sapere, il non indagare, il non conoscere. E di fronte all’immane progresso scientifico intorno alla vita, è certo imparagonabile la povertà dei nostri discorsi intorno alla morte: scientifici, ma anche filosofici e religiosi»2.
In fondo, come accade per le forme di pensiero, di educazione, di sensibilità estetica e musicale, di costume giuridico o di vita ecclesiale, anche gli attuali modi di vedere o di non voler vedere la morte nella sua complessa e non superficiale realtà, sono probabilmente soggetti ad una moda culturale del tempo, anche se questo dato abbastanza oggettivo non implica necessariamente che essi non possano mutare. Se è vero che è socialmente in atto una tendenza a recuperare una più naturale alimentazione, a proporre una nuova cultura del parto e della nascita o una concezione meno riduttiva e unilaterale e più globale e integrale della malattia, del corpo e della salute, per quale motivo non sarebbe possibile assistere nel corso del tempo ad una rivalutazione del significato più complessivo e profondo, al di là del suo pur non trascurabile aspetto fisico o materiale?
Ma su questa auspicabile inversione di tendenza molto potrebbero incidere quei cristiani e cattolici ancora capaci di andare alla ricerca di una migliore qualità della vita e di lavorare, per ciò stesso, anche all’innalzamento culturale, sociale e religioso della qualità della morte3, benché non manchi chi sostenga che ipotizzare un dopo, un al di là della morte, una vita immortale, significherebbe solo esercitarsi in un’attività mentale del tutto illusoria: «una vita immortale non sarebbe vita. Una vita immortale, forse, non è nemmeno desiderabile»4. Tra vita e morte non sussiste, si osserva, solo un rapporto di separazione ma anche un rapporto di reciproca implicazione: non si dà un’esperienza diretta, empirica della morte all’interno della sua realtà: la si può constatare dall’esterno, ma che cosa esattamente accada nella morte degli individui o negli individui ormai privi di vita biologica non si può dire, per il semplice fatto che non se ne può avere esperienza. Per questo motivo, se da un lato la morte si oppone alla vita perché l’individuo che la subisce è ormai immobile, inerte, e non può più essere soggetto consapevolmente attivo di vita, dall’altro, pur nella sua invisibilità, essa, sul piano simbolico, resta pur sempre un aspetto della vita, un aspetto ignoto, di cui non si sa nulla in senso razionale ma proprio per questo un aspetto enigmatico che, in quanto tale, non è necessariamente e logicamente identificabile con il nulla o il non essere.
Quindi, non è possibile affermare né che “dopo la mia morte io non sono più niente”, né che “dopo la mia morte io sono o continuo ad essere in qualche modo e ad avere vita”. Pertanto, risulterebbe indicibile sia una separazione, sia una congiunzione tra vita e morte: nec-nec. Ma perché il filosofo americano Bernard Williams ritiene che una vita immortale non sarebbe né propriamente vita, né desiderabile? Perché, è la risposta, quel che dà senso alla vita è proprio la morte e dove non ci sia più morte qualunque forma di vita non potrebbe avere alcun senso, così come non potrebbe avere senso e non potrebbe essere minimamente desiderabile una vita priva di sofferenza, di dolore, di contrasti irriducibili di pensiero e di volontà, di spirito di sacrificio e di lotta, di processi particolarmente originali di creatività perché tutti potrebbero esserne ormai capaci. Una vita così sarebbe semplicemente noiosa e del tutto priva di identità individuale5. Senonché, il filosofo americano riferisce l’immortalità alla vita umana cosí come la conosciamo sulla terra e non alla condizione gloriosa dei risorti che conservano la loro identità personale ma in un corpo appunto glorioso e fatto quindi, oltre che di spirito, anche di materia speciale, molto diversa da quella nota agli esseri terreni e resa eterna da Dio (una materia che consentirà, per esempio, di attraversare muri e porte di qualunque composizione chimica, oppure di mangiare con gusto a chi ne abbia desiderio): la vita immortale promessa da Cristo resta legata alla coscienza della propria identità personale ma ha luogo in condizioni ambientali ed esistenziali molto diverse da quelle spazio-temporali in cui i risorti erano vissuti prima della morte (“un cielo nuovo e una terra nuova”, scrive Giovanni nell’ “Apocalisse” 21, 1), per cui, avendo poco sopra spiegato come, in sede di razionalità convenzionale, sulla morte e sul dopo-morte non si può né affermare né negare alcunché, sembrerebbe plausibile ipotizzare per l’al di là non già una condizione umana e totalmente identica a quella terrena ma piuttosto una condizione post-umana che denota un rapporto tra vita eterna e vita mortale di discontinuità nella continuità o di continuità nella discontinuità.
Peraltro, non si deve dimenticare, per quanto tale precisazione urti sempre, persino nella Chiesa, la suscettibilità dei contemporanei, che la vita eterna, evangelicamente parlando, sarà gloriosa per i beati, mentre sarà infernale, cioè insopportabile per i dannati. Questa è la risposta che, benchè di fatto ignorata dal filosofo americano citato, è contenuta nella Rivelazione evangelica, ma tale circostanza non autorizza nessuno, tanto meno intellettuali di riconosciuta fama, a ritenerla inattendibile, quasi che tutto ciò che proviene da una storia religiosa come quella cristiana non rientrasse anche a pieno titolo nella storia e nella storia della cultura del mondo. La risposta cristiana alla morte può certo non essere considerata come razionalmente e scientificamente verificata, e in tal senso può alimentare e legittimare una posizione scettica, ma lo scetticismo di per sé non dimostra l’infondatezza di una idea o di una teoria formalmente difformi dai paradigmi ufficiali della scienza, o, come in questo caso, la non plausibilità di una profezia o di una previsione. La scienza ha le sue regole e i suoi limiti ma non è che tutto ciò che si sottragga ad entrambi si possa dichiarare come privo di senso, bensì, semplicemente, secondo la lezione wittgensteiniana, come privo di senso scientifico, il che non esclude che un giorno possa anche rivestirsi di pieno senso razionale e scientifico6.
Questo è vero da un punto di vista specificamente teoretico, ma non si può trascurare l’enorme influenza esercitata dal pensiero cristiano sulla storia della scienza e della cultura universale dell’umanità non meno che su quella dell’etica, dell’educazione, dell’arte, dell’economia o della politica, donde è del tutto arbitrario, tutte le volte che si tratti di questioni scientifiche, espungere aprioristicamente dal dibattito qualsiasi riferimento alla religione salvifica dell’eterno Logos, quasi si trattasse di una cianfrusaglia meritevole di essere scaricata nella pattumiera delle cose più insensate e inutili. Tale rilievo, naturalmente, non toglie che la morte resterà pur sempre, anche alla luce della risurrezione di Cristo dalla morte, un mistero o un fatto oggettivo avvolto dal mistero, e sono da ritenere di certo utili gli apporti critici, analitici, ermeneutici ma anche poetici ed immaginifici, che ad un tema obiettivamente cosí rilevante potranno venire da una pluralità quanto più ampia e qualificata possibile di settori disciplinari7. In particolare l’approccio filosofico alla domanda circa il senso della morte è nato, com’è noto, con la stessa filosofia, in quanto, se è vero che le origini del filosofare sono caratterizzate da un senso di profondo stupore avvertito dal ricercatore o dal saggio, specialmente ai primordi della storia umana, al cospetto degli enigmi dell’universo e, via via, della stessa vita umana, nessun fenomeno sarebbe apparso più sconosciuto, più misterioso, più stupefacente e, al tempo stesso, più spaventoso e inaccessibile della morte. All’idea della morte i grandi filosofi dell’antichità avrebbero dedicato le loro riflessioni e i loro faticosi tentativi di comprensione razionale quasi per esorcizzare la morte stessa e trasformarla in energia di senso.
Questo carattere originario, che si sarebbe rivelato nel tempo anche costitutivo, del sapere filosofico, viene mirabilmente descritto dal filosofo Franz Rosenzweig: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia. […]. A tutta questa miseria la filosofia rivolge il suo vacuo sorriso e alla creatura, che è squassata in tutte le membra dalla paura del suo aldiquà, mostra con l’indice teso un aldilà di cui essa nulla vuol sapere. Perché l’uomo non vuol affatto sottrarsi a chissà quali catene, vuol rimanere, vuole vivere»8. E il filosofo cattolico Michele Federico Sciacca, molto realisticamente avrebbe sottolineato sia l’ineluttabilità della morte quanto il suo essere condizione di non irragionevole speranza in una vita migliore al di là di essa: «è “dommaticamente” “vero” che l’uomo muore, e la vita sarebbe “falsa” se non morisse: infatti è contraddittorio che un mortale non muoia; d’altra parte solo morendo può sperare di compiersi nella sua pienezza […]. Permane però la verità del memento mori e la consapevolezza della miseria dell’uomo che non può non morire»9.
La teologia cristiana del XX secolo e dell’inizio del XXI secolo, nelle sue forme più serie e conformi alle più ispirate fonti della Tradizione, concepisce la morte come transizione ad una nuova condizione ed ovviamente diversa da quella immanente anche se a questa relativa. In tal senso, la morte, sia come morte della vita individuale che come morte della vita dell’universo e della specie umana, è la prima fondamentale realtà escatologica dell’annuncio evangelico e risulta prodromica alle altre tre realtà escatologiche rappresentate dal giudizio, dall’inferno e dal paradiso. Si tratta di realtà in se stesse compiute e definitive, a differenza del purgatorio che è solo una realtà provvisoria anche se nel Nuovo Testamento non se ne scorge traccia. Si tratta di capire che la vita eterna è il destino assegnato ab aeterno da Dio alle sue creature che, solo a causa della loro insubordinazione alla volontà divina, hanno visto tramutarsi il dono dell’immortalità nel castigo della mortalità, pur potendo successivamente beneficiare di un ulteriore atto di misericordia divina consistente nella missione salvifica affidata al Figlio unigenito per consentire all’umanità di riguadagnare il paradiso perduto e l’originaria condizione di immortalità.
Pertanto, come avrebbe spiegato Karl Rahner, la vita eterna, nel disegno divino, resta pur sempre condizione di pienezza della vita terrena: la «vita eterna non è altro, infatti, se non la definitività (salvata o smarrita) della nostra storia terrena e del soggetto che l’ha realizzata nella libertà»10. La vita eterna non è imposta ma è offerta alle creature come una opportunità che esse, attraverso il loro libero volere, hanno il compito di accogliere o di rifiutare, benché l’opposto della vita eterna non possa essere altro che la morte eterna. Sia pure nei loro limiti, nei loro errori, nei loro peccati, possono scegliere se affidarsi al Cristo redentore o voltargli le spalle, se seguirlo verso la vita o ignorarlo in una irrazionale volontà di morte. Quanto alle generazioni umane antecedenti la venuta temporale di Cristo, anch’esse avranno potuto aspirare all’immortalità a seconda dell’uso che avranno fatto della loro libertà in rapporto alla Parola di Dio conosciuta e tramandata attraverso i profeti e i giusti della lunga era precristiana oppure, ove la Parola di Dio non sia stata oggettivamente accessibile alla loro conoscenza, in base al modo in cui avranno cercato di ottemperare ai dettami naturali della loro coscienza morale.
Tutto questo caratterizza naturalmente la prospettiva trascendente e metastorica implicata dalla fede cristiana. Ma sarebbe un errore pensare di non poterne tenere conto all’interno di un dibattito puramente laico e razionale, dal momento che anche il pensiero religioso è parte integrante del processo universale di svolgimento della umana razionalità nella storia del mondo e del genere umano e gli epistemologi, del resto, sanno bene come sia complesso tracciare una netta linea di demarcazione tra conoscenze razionali o utilizzabili razionalmente e conoscenze irrazionali o prive di qualunque valenza razionale: anche nelle opzioni conoscitive apparentemente più razionali agisce un ineliminabile nucleo di emotività, con un annesso carico di intuizioni, premonizioni, valori e finalità più o meno inconsci e privi di fondamento logico ma virtualmente funzionali alla ricerca razionale, che condiziona la scelta di quelle stesse opzioni. In fondo, la ragione ha un valore strumentale e questo significa che le sue intrinseche capacità logico-conoscitive possono essere utilizzate in modi molto diversi e per scopi cognitivi anche profondamente difformi o antitetici11. L’identità storico-teorica della razionalità consiste in una struttura logico-concettuale e metodologico-epistemologica funzionale al raggiungimento del più alto grado possibile di universalità conoscitiva in tutti i campi dello scibile, ma tale struttura, suscettibile di evoluzione storica come tutto ciò che appartiene al mondo reale, non è statica e immutabile ma dinamica, per quanto relativamente invariabile nei suoi princìpi di fondo, e aperta a continue acquisizioni teorico-sperimentali che ne dilatano, anche vistosamente a distanza di secoli, la fisionomia e la portata epistemiche di cui si nutre ininterrottamente tanto la ricerca filosofica e critico-razionale in generale quanto la stessa logica della ricerca scientifica. L’identità complessiva della razionalità, che non avanza in modo lineare ma molto più spesso in modo fortemente contraddittorio e problematico, è di natura polisemica ed è data, perciò, dalla sua progressiva universalità unificante insieme alla sua pluralità di direzioni e sviluppi conoscitivi mai scontati e del tutto prevedibili ma, anzi, non di rado decisamente sorprendenti12.
In questo senso, pure, non può lecitamente asserirsi in modo aprioristico né una incompatibilità o incomunicabilità tra il sapere razionale e il sapere religioso, né la riducibilità di quest’ultimo a pura e semplice irrazionalità. D’altra parte, al cospetto della morte e dell’angoscia che essa genera, tutta la razionalità moderna, tutta la rassicurante razionalità della scienza e della tecnica moderne, che avrebbe dovuto assolvere il compito, secondo le ricostruzioni e le interpretazioni di molti storici e ideologi del pensiero scientifico, di mitigare ansie e paure collettive, si dimostra completamente inane di fronte all’imminenza della propria fine individuale, donde poi la scarsa familiarità della società occidentale con la morte, che essa si limita di conseguenza ad esorcizzare con considerazioni pseudoconsolatorie a sfondo scettico del tipo “la vita è questa” o “bisogna vivere bene questa vita perché è l’unica vita che abbiamo”, e a relegare ai margini della cultura e della vita sociale13. Questo stato di cose consegue indubbiamente alla secolarizzazione, all’affermarsi di una mentalità esasperatamente individualistica, ad una crescente anche se ingiustificata fede nel progresso scientifico. E l’effetto più significativo dello scenario storico-culturale in cui il terrore della morte viene continuamente razionalizzato e rimosso si manifesta nella tendenza ad interpretare quei casi, in vero non infrequenti, in cui ancora l’individuo vivente o ormai morente riponga la sua fede in un al di là e nell’immortalità, come indicativi di un’angoscia viscerale ed ancestrale che, impossessandosi di lui, lo porterebbe a tentare di salvare disperatamente se stesso, la propria individualità, oltre la morte.
In altri termini, l’essere umano, per sopperire alla perdita della propria individualità e placare l’angoscia che ne deriva, creerebbe l’idea di immortalità per riempire di vita la morte. Ma tale interpretazione non tiene minimamente in considerazione la possibilità, che non può essere esclusa da alcuna argomentazione razionale, che il concepire una vita oltremondana possa essere in realtà più plausibile del pensare che l’esistenza umana, caratterizzata principalmente dalla sua coessenziale attività di coscienza e di elaborazione critica, sia dovuta ad un impersonale e imperscrutabile caso e destinata di conseguenza a ritornare nel nulla da cui sarebbe sorta. Non mi pare, proprio alla luce dell’immenso patrimonio di razionalità e di sapere accumulato in migliaia di secoli, che l’ipotesi per cui all’origine della vita umana sarebbe il caso possa ritenersi probabilisticamente più attendibile di quella per cui all’origine e alla fine di essa sarebbe invece Dio. E, quando si volesse contestare anche questo assunto, la questione sarebbe da valutarsi quanto meno come “indecidibile”, il che, ancora una volta, conferirebbe legittimità alla fede in una vita eterna.
Si tende ad attribuire alla fede una semplice funzione di difesa psicologico-esistenziale dal potere paralizzante della morte, senza chiedersi se per caso essa non rifletta l’oggettiva sussistenza di una realtà ultima, di una realtà metarazionale, vale a dire di una realtà cui si può gradualmente accedere solo in virtù di un ordine conoscitivo dotato di un suo statuto metodologico e di una sua intrinseca coerenza ma diverso da quello relativo a modelli conoscitivi di pura razionalità e rigorosamente formalizzati, che sono venuti assumendo un ruolo egemonico nella moderna cultura occidentale, benché in epoca postmoderna se ne vengano sempre più spesso contestando i fondamenti logici in continuità con le contestazioni teoretiche della prima metà del novecento, che avevano dato appunto luogo alla cosiddetta “crisi dei fondamenti”14. Questo anche per dire che non tutti gli atti religiosi di fede coincidono necessariamente con gratuite aperture di credito a credenze, visioni o scelte irrazionali, dandosi al contrario la ragionevole e, in linea di principio, non confutabile possibilità che, talvolta, essi possano coincidere con atti perfettamente razionali di fede. Se sono occorsi circa 1900 anni perché la fede primordiale nell’eliocentrismo di un certo Aristarco di Samo e soprattutto di Seleuco di Seleucia, di poco posteriore al primo, venisse confermata scientificamente, non può peraltro apparire sconsiderato l’invito a riservarsi di esprimere giudizi tassativi su questioni verosimilmente ben più enigmatiche e suscettibili di essere forse risolte, in senso affermativo o negativo, in un arco temporale molto più ampio. Se la fede nell’immortalità sia una semplice fantasia, un giorno lo si potrà forse stabilire con certezza, ma sino a quando non saranno disponibili prove astronomicamente e sperimentalmente pregnanti e incontrovertibili anche la critica filosofica dovrà astenersi dall’invocare maldestramente la ragione per sostenere l’irrazionalità fideistica di quanti credono fiduciosamente nelle realtà escatologiche preannunciate da Cristo, e postulano che, oltre la morte, oltre la fine di questa vita, ci sia ancora vita, altra vita, molta più vita e molto miglior vita di quella vissuta, stoltamente o saggiamente, sulla terra.
E’ solo nella prospettiva cristiana della risurrezione dei morti e dalla morte che quest’ultima può trovare la sua ragion d’essere, il suo senso, giacché in essa la morte, lungi dal rappresentare il vero destino dell’uomo, viene tuttavia a denotare, da un lato, la reale, concreta, inequivocabile finitezza della creatura e di una creatura portata a considerarsi autosufficiente fino a voler spezzare ogni legame di dipendenza dal Creatore, e a costituire, dall’altro, un momento decisivo del destino di ogni singola creatura, il momento in cui comincerà a prefigurarsi per ogni mortale un destino di vita immortale o un destino di “seconda morte” o di morte definitiva, là dove la morte definitiva sia teologicamente intesa non già come assenza di esistenza ma come una sorta di permanente e infelice sopravvivenza. In qualunque altro modo venga concepita, la morte non potrà che apparire incomprensibile, irrazionale e totalmente priva di senso. Il valore escatologico e soteriologico della morte vissuta e affrontata in Cristo, può essere colto solo ove se ne comprenda la funzione espiativa: c’è la morte perché essa serve a segnare incontrovertibilmente la differenza ontologica tra l’Essere increato e l’essere creato, tra un Dio di giustizia e di misericordia e una umanità anelante a partecipare della sua immortalità e di una beatitudine che solo da Dio può ottenere per l’eternità. Qui è il senso, per niente giuridicistico ma semplicemente e correttamente biblico, della morte e qui è anche il senso di tutte quelle sofferenze, angosce, malattie e privazioni esistenziali che preludono significativamente alla morte15.
La morte esiste come fatto biologico, come problema esistenziale e religioso, come stato di postvita in cui a nessuno è dato sapere cosa realmente accada. La morte esiste nella sua reale oggettività e drammaticità e non sarà la riproposizione contemporanea di alcune massime filosofiche apparentemente sagge ma sostanzialmente stravaganti e banali a poterne dimostrare l’inesistenza16. Gli uomini non sono eterni né quando vivono, né quando muoiono, e quando muoiono, contrariamente all’alata ma anche contorta teoresi di qualche maestro di ontologia filosofica, essi non tornano a far parte del grande Essere cui da sempre sono appartenuti, per il semplice motivo che, pur essendo anche da morti, sono appunto morti, inesistenti in quanto esseri viventi, coscienti, senzienti e agenti. L’unica possibilità teorico-pratica che la morte possa risolversi non già in arresto definitivo ma in provvisoria sospensione di vita e in possibile processo di trasformazione della vita stessa, è data religiosamente dalla fede in Cristo e nella risurrezione dei morti che egli ha reso possibile, e filosoficamente e culturalmente da un pensiero cristiano su essa storicamente incentrato e da essa unitariamente ma non uniformemente alimentato. Per san Francesco di Assisi, sorella morte corporale è la massima espressione della giustizia divina, che viene ad interrompere un processo di sviluppo della vita, qual è quello che ha luogo dalla nascita alla morte appunto, attraverso una serie di stadi intermedi e tra essi diversi (infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia), non già per negare alle creature la gioia dell’immortalità ma per stabilire a quale forma di immortalità meritino di essere destinate in base all’uso che avranno inteso fare, nel tempo loro assegnato, della loro libertà: se ad una immortalità di vita piena, festante, beata oppure ad una immortalità di vita vuota, mesta, dannata.
Ma, questo è il punto, la morte terrena può, a sua volta, morire, in quanto preparatoria al giudizio divino che ne decreterà la radicale conversione in nuova e abbondante vita oppure il prolungamento in una vita così triste da non poter essere umanamente preferita alla morte. D’altra parte, da un punto di vista strettamente scientifico, comincia a ritenersi molto dubbio che la coscienza individuale possa ridursi esclusivamente alla sua attività cerebrale e che, pertanto, in qualche modo non sopravviva anche alla cessazione di quest’ultima sia pure nel contesto di una realtà molto diversa da quella terrena17. Ma se la scienza è ancora balbettante sugli scenari che potrebbero dispiegarsi al di là della morte per gli esseri umani, la fede che, va ribadito, non è altro dalla ragione e dalla razionalità ma solo una delle loro possibili forme, se si vuole una forma mistico-intuitiva di razionalità (peraltro non del tutto estranea alla stessa razionalità scientifica)18, assolve la funzione profetica o predittiva di indicare gli orizzonti ultimi della vita personale di ogni individuo e della storia temporale e spirituale del genere umano, lasciando che la scienza, con i suoi tempi e i suoi ordinari strumenti di ricerca, ne venga poi verificando progressivamente la fondatezza o la plausibilità. Data l’estrema importanza esistenziale della conoscenza immediata di tali orizzonti per la vita del genere umano, Colui che le Sacre Scritture raffigurano come il Signore della vita e della morte avrebbe inteso rivelare per tempo, e sia pure sommariamente, ai suoi figli adottivi i misteri che incombono sul loro destino storico-esistenziale e storico-escatologico, confermandosi anche in questo un Dio di perfetta giustizia e infinita misericordia: di perfetta giustizia, avendo sapientemente e rettamente provveduto, prima con le parziali rivelazioni biblico-profetiche del Primo Testamento e poi con la definitiva rivelazione biblico-evangelica di Cristo, a comunicare preventivamente al suo popolo i disegni e le dinamiche salvifico-sovrannaturali che avrebbero accompagnato e attraversato la storia del mondo fino alla fine dei tempi trascendendone altresì i confini spazio-temporali al fine di introdurre i beati nella gloriosa ed eterna vita del mondo che sarebbe venuto; e di infinita misericordia, essendo giunto persino al punto di permettere che il figlio divino morisse sulla croce in espiazione dei peccati dell’umanità sia per onorare la giustizia divina da essa infranta, sia per consentire ad essa, nel rispetto degli insegnamenti del Cristo e attraverso la morte, di fare ritorno alla patria celeste.
Se nell’omniscienza divina la morte era concepita come necessaria, a maggior ragione teologicamente necessaria essa doveva risultare per l’umanità, anche perché se l’immersione nelle acque battesimali di questo mondo significa rinascere a nuova vita in Cristo, l’immersione nell’umida terra battesimale della morte significa rinascere virtualmente a nuova e gloriosa vita nel Dio trinitario per l’eternità. Bisogna dunque imparare, almeno nell’ottica della fede, a morire e a morire bene, giorno per giorno e sino all’ultimo respiro. Il che non è scontato, né facile da attuare. Bisogna imparare a morire per disimparare a servire, scriveva Montaigne, ma non esattamente nel senso da questi indicato. Il filosofo francese, che era un cattolico in odore di eresia e che mal sopportava certo greve e intollerante autoritarismo dottrinale delle gerarchie ecclesiastiche, sosteneva che la meditazione della morte «è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire», perché chi è capace di educarsi all’accettazione della morte come un fatto naturale della vita non può che emanciparsi «da qualunque soggezione e costrizione»19, ivi comprese da quelle richieste da una fede religiosa conformista e abitudinaria. Imparare a morire, secondo un’ortodossia cattolica non ipocrita e non convenzionale, deve poter consentire all’individuo sia di disimparare a servire in modo servile e codardo affinché egli si liberi dalla soggezione a forme autoritarie e coercitive di potere e di sapere di qualunque genere, sia anche di disimparare a servire alle logiche ciniche e strumentali del mondo per poter essere liberi di ottemperare solo a Dio e al suo eterno e inalterabile Logos.
Va, tuttavia, notato che lo spirito critico e libertario di cui è pervaso il cattolicesimo di Montaigne non viene esercitandosi nel solco di una contestazione globale della religione cattolica sul piano dottrinario e filosofico-teologico, quantunque appaia evidente la carica ereticale della sua fede, se così si può definire20, in quanto egli, pur mosso da uno scetticismo metodico finalizzato ad evitare posizioni troppo unilaterali o eccessi di fanatismo e a far emergere la complessità e la problematicità irriducibili del reale e del sapere, non avrebbe esitato a precisare e sottolineare, contro l’orientamento talvolta accentuatamente clerical-misericordista del suo tempo e soprattutto contro l’ipermisericordismo dilagante dell’odierna teologia cattolica, come la Bibbia metta bene in evidenza il fatto che Dio, pur essendo misericordioso, è innanzitutto giusto, costituendo la giustizia divina il principio stesso della sua assoluta santità e la condizione stessa dell’infinita misericordia con la quale viene relazionandosi con tutti gli esseri creati21. Per questo principio di giustizia, il Dio riconosciuto da Montaigne, che crede nella Rivelazione pur contestandone in parte talune interpretazioni di tipo paternalistico e miracolistico, è anche colui che un giorno giudicherà il peccato e i peccatori recidivi del mondo. Quello di Montaigne è, pertanto, un cattolicesimo fortemente laicizzato e ambiguo ma non privo di utili provocazioni ai fini di una riflessione non riduttiva, seria e impegnativa sulla vita e sulla morte.
Francesco di Maria
NOTE
1 E. Morin, L’homme et la mort, Paris, Seuil, 1951; trad. it. L’uomo e la morte, Trento, Il Margine, 2021.
2 S. Allievi, La morte declinata al plurale, in Rivista “Studia Patavina”, 2014, n. 2, pp. 293-313; ma anche E. Kübler-Ross, La morte e il morire, Assisi, Cittadella, 1979 e V. Jankélévitch, La morte, Torino, Einaudi, 2009.
3 S. Allievi, La morte declinata al plurale, cit.
4 F. Sciacca, L’ordine straordinario. La morte e il vuoto filosofico, in Rivista internazionale di filosofia on line “Metabasis.it”, 2021, n. 32, p. 94.
5 Si allude al celebre articolo di B. Williams, The Makropulos case: reflections on the tedium of immortality, in Problems of the Self, Cambridge, University Press, 1973.
6 Su questo e altri aspetti del pensiero di L. Wittgenstein mi permetto di richiamare un mio recente scritto intitolato Wittgenstein, una teoresi per la fede, in F. di Maria, Una teoresi per l’esistenza. Leopardi, Husserl, Wittgenstein, Padova, Primiceri, 2023, pp. 95-123.
7 In tal senso, devono ritenersi interessanti, a titolo esemplificativo, studi come quelli di J. Assmann, La morte come tema culturale, Torino, Einaudi, 2002; M. Sozzi, Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia, Roma-Bari, Laterza, 2009; I. Testoni, Il grande libro della morte. Miti e riti dalla preistoria ai cyborg, Milano, Il Saggiatore, 2021; G. Musetti, Un buon uso della vita, Fanna (PN), Samuele Editore, 2021; F. Serra, La morte ci fa belle, Torino, Boringhieri, 2013.
8 F. Rosenzweig, La stella della redenzione (1921), Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 3-4.
9 M. Federico Sciacca, Morte e immortalità, Milano, Marzorati, 1959, poi ristampato dall’editore L’Epos di Palermo nel 1990, pp. 24-27. Non molto lontana dalla realistica ma non disperante immagine sciacchiana della morte è quella recente della morte come “zattera verso l’eterno” reperibile nel libro di uno studioso non accademico: D. Coviello, Intorno alla filosofia della morte, Roma, Aracne, 2018.
10 K. Rahner, Il morire cristiano (1976), Brescia, Queriniana, 2009, p. 45.
11 Tra gli studi pertinenti a tale tema, sia pure con orientamenti interpretativi non uniformi ma diversificati, si possono citare qui: Steven Pinker, Razionalità. Una bussola per orientarsi nel mondo, Milano, Mondadori, 2021; Robert Audi, Epistemologia. Un’introduzione alla teoria della conoscenza, Macerata Quodlibet Studio, 2016; Françoise Bonardel, L’irrazionale, Sesto San Giovanni (Milano), 2006; Lisa Bortolotti, The Epistemic Innocence of Irrational Belief, Oxford University Press, 2020, in cui si sostiene con esemplare chiarezza che possano ritenersi “innocenti” ovvero legittime o plausibili quelle “credenze” che, pur risultando irrazionali rispetto ai canoni epistemici previsti per la razionalità, appaiono tuttavia capaci di contribuire in modo costruttivo alla funzionalità epistemica dell’individuo.
12 Cfr. G. Gembillo, Le polilogiche della complessità. Metamorfosi della Ragione da Aristotele a Morin, Firenze, Le Lettere, 2008; AA.VV., Universalità della ragione. Pluralità delle filosofie nel Medioevo, 12° Congresso internazionale di filosofia medievale (Palermo, 2007), Palermo, Officina di studi medievali, 2012; G. Bottiroli, La ragione flessibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Torino, Boringhieri, 2013.
13 Ma che il significato della morte sia in realtà molto più profondo di quanto non appaia sulla base del comune modo di percepirla oggi, è quel che hanno cercato di argomentare, in modi diversi, studiosi come L. V. Thomas, Antropologia della morte, Milano, Garzanti, 1976 e Morte e potere, Torino, Lindau, 2006; J. Ziegler, I vivi e la morte. Saggio sulla morte nei paesi capitalisti, Milano, Mondadori, 1978; E. Kübler-Ross, La morte e la vita dopo la morte «morire è come nascere», Roma, Edizioni Mediterranee, 2007.
14 G. Bergamaschi, Nostalgie metafisiche: la crisi delle scienze nell’era postmoderna, in Rivista filosofica “Consecutio Rerum”, Anno VI, n. 12, pp. 215-232. Si deve tuttavia rilevare che la grande opera di decostruzione postmoderna non resta immune da rischi considerevoli, tra cui quello di aprire le porte del pensiero critico a ondate terribilmente minacciose di irrazionalismo oscurantista. Si è osservato che «cinquant’anni dopo la postmodernità, ci troviamo di fronte a un altro decisivo passaggio che rompe con la tradizione illuminista e ci consegna a un’epoca a rischio di oscurantismo, dove la scienza è negata e disconosciuta, mentre si innalza un nuovo dio, anche se un dio minore, la tecnologia», C. Bordoni, La distruzione della ragione, in “MicroMega”, 30 novembre 2021. Sulla “crisi dei fondamenti” della prima metà del 900, si può vedere, tra i molti contributi, quello di E. Castelli Gattinara, Strane alleanze. Storici, filosofi e scienziati a confronto nel Novecento, Sesto San Giovanni (Milano), Mimesis, 2003.
15 G. Pulcinelli, La morte di Gesù come espiazione. La concezione paolina, Alba, San Paolo, 2007. Sono in totale dissenso rispetto ad autori che interpretano in modi palesemente arbitrari il termine biblico espiazione e tutti improntati al buonismo e al “religiosamente corretto” del tempo presente. Si veda, per esempio, C. Molari, Espiazione. L’azione misericordiosa e gratuita di un Dio che nulla chiede per offrire perdono, San Pietro in Cariano (Verona), Gabrielli Editori, 2021; A. Maggi, L’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, Milano, Garzanti, 2017. Non mancano, però, risposte documentate e appropriate a queste e altre esegesi infedeli della Parola di Dio, alla quale non possono che essere ricondotti i temi della morte come decreto divino, come salario del peccato, come transito verso la risurrezione. Tra queste risposte va inclusa di certo quella di D. Marguerat, Vivere con la morte, Torino, Claudiana, 2024, in cui viene dimostrato come «il potere di persuasione della predicazione cristiana» sia oggi «un potere arrugginito».
16 Ad esempio, E. Severino, Dispute sulla verità e la morte, Milano, Rizzoli, 2018, in cui, dopo aver fatto sfoggio della sua consueta e alata teoresi, non manca di evocare la massima epicurea che quando c’è la morte noi non ci siamo, quando noi ci siamo la morte non c’è. Vedi anche su quest’opera la recensione di G. Fava, Farla finita con la morte: “Dispute sulla verità e la morte” di Emanuele Severino, in sito on line “frammentirivista.it”, 14 febbraio 2018.
17 Cfr. V. Grecchi, Il campo cervello-mente. Le sfide della psicologia quantistica e della coscienza elettromagnetica, Assago (Milano), Libraccio Editore, 2020; M. Cessati Cassin, La Formula di Dio. L’esistenza della vita dopo la vita, Milano, Sperling & Kupfer, 2022; F. Faggin, Oltre l’invisibile. Dove scienza e spiritualità si uniscono, Milano, Mondadori, 2024; Pim Van Lommel, Coscienza oltre la vita. La scienza delle esperienze di premorte, Bellaria-Igea Marina, Amrita Edizioni, 2017; S. Allix, La morte non esiste. Un’inchiesta scientifica. Un viaggio spirituale. Le prove della vita oltre la vita, Milano, HarperCollins Italia, 2024.
18 Può essere utile al riguardo consultare il libro di A. Einstein, Come io vedo il mondo-La Teoria della relatività, Roma, Newton Compton, 2016, ma, in una certa misura, anche quello di J. Horgan, Rational Mysticism. Spirituality meets science in the search for enlightenment, Boston/New York, First Mariner Books edition, 2004.
19 M. de Montaigne, Essais (1580-1588), in Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, 1962; tr. it. Di F. Garavini e A. Tournon, Saggi, Milano, Bompiani, 2012, p. 149.
20 Anzi, talvolta, a dispetto del suo scetticismo metodico, rivendica persino una fedeltà ai più antichi e originari princìpi cristiani: «per grazia di Dio, mi sono conservato fermo, senza agitazione e turbamento di coscienza, nella antiche credenze della nostra religione, attraverso tante sette e divisioni che il nostro secolo ha prodotto». Preferisco, in questo caso, la traduzione dei Saggi proposta da Adelphi, Milano, 2005, libro II, cap. XII, p. 801. E’ vero, però, che nel suo cattolicesimo non si trova alcuna riflessione sull’incarnazione, sulla passione e sulla morte di Cristo, e, nel trattare della necessaria preparazione alla morte, non ne parla certo come ne parlerebbe un seguace di Cristo, ma come ne parlerebbe un discepolo di Socrate o Seneca. Né, infine, egli mostra interesse per temi centrali del cristianesimo, quali quelli del sacrificio, del pentimento e della redenzione, o ancora particolare rispetto verso atteggiamenti spirituali assolutamente radicati nella migliore tradizione evangelico-cristiana quali quelli relativi al timore dell’inferno o al desiderio del paradiso.
21 Tuttavia, anche per quel che si è precisato nella precedente nota, è indubbio che quello montaignano sia un cattolicesimo alquanto contraddittorio e non adeguatamente meditato, se non addirittura aleatorio, come viene insinuando, non senza buoni argomenti, A. Sofri, L’eresia di Montaigne, in “Il Foglio” del 30 ottobre 2021.