Tra la vita come morte e la morte come vita

Scritto da Francesco di Maria.

Si danno nella vita degli individui e nella storia dei popoli esperienze di vita cosí terribili, traumatiche, laceranti, disumane, da indurre molti degli individui e dei popoli che le subiscono o ne sono vittima a desiderare e a preferire una morte immediata o molto ravvicinata alla loro possibile o eventuale sopravvivenza. Quando il singolo essere umano o una determinata comunità etnica, popolare, nazionale o religiosa, sperimentano, in forme reiteratamente umilianti e dolorose, la violenza del tutto ingiustificata di propri simili o di altri popoli o comunità, senza mai avere la possibilità di reagire adeguatamente e difendere almeno in parte la propria dignità e i propri diritti a veder riconosciuta o rispettata la propria identità e la propria libertà di scelta,è certo comprensibile che essi, percependo la vita corrente come una realtà avvilente e insopportabile, siano portati a desiderare la morte non solo istintivamente ma anche esistenzialmente, ritenendola un male definitivo ma di sicuro inferiore a quello consistente in una vita priva di senso e di speranza1. A volte, ma più raramente, tale desiderio di morte trova la sua esecuzione in pratiche suicidarie personali, di gruppo o di massa, altre volte, nella maggior parte dei casi, si accompagna alla vita di chi lo coltiva mestamente fino all’ultimo dei suoi giorni oppure si converte, sublimandosi, in offerta sacrificale di vita al Dio biblico-evangelico della giustizia e della misericordia.

D’altra parte, l’opzione esistenziale per la morte, tanto sul piano individuale quanto su quello comunitario o collettivo, non può né comprendersi, né tanto meno giustificarsi, sulla base di criteri oggettivi, dal momento che in identiche condizioni di vita i vissuti sono pur sempre molteplici e diversificati per profondità ed intensità e non sarebbe quindi possibile cogliere oggettivamente il significato e la valenza specifici di ognuno di essi. L’opzione per la morte presuppone forme diverse di 18.sensibilità individuale o collettiva, forme diverse di sensibilità e capacità reattiva all’offesa, al dolore, all’ingiustizia, per cui ognuno, ogni individuo e gruppo, in relazione ad una stessa angosciosa o infausta esperienza di vita, tende a reagire in modi diversi o difformi. Si ha quindi a che fare con uno di quei casi le cui dinamiche, lungi dal risultare oggettivamente prevedibili, hanno natura prettamente soggettiva dipendendo in gran parte dal grado di adattamento o resistenza psicologica, morale, spirituale o religiosa, che ogni singolo individuo o gruppo è in grado di esprimere e opporre a determinate contrarietà o sventure2.  

Il problema è, tuttavia, quello di capire che il vivere è soggetto a limiti di sopportabilità soggettiva, oltre i quali la vita oggettiva comincia ad essere percepita in forme più o meno sgradevoli o ostili ingenerando nella psiche e nella coscienza degli esseri umani un senso più o meno accentuato e incontrollabile di rifiuto, di disgusto o di rigetto. In talune circostanze della vita personale o della storia dei popoli, la vita, per la quale alcuni sarebbero pure disposti a sacrificare potere, ricchezza, fama o rispettabilità, può tendere a convertirsi nel suo opposto sino a potersi configurare come una presenza talmente ostile da suscitare sentimenti di odio e di ripulsa esistenziale, benché in generale chi eserciti potere e disponga di molti beni o di una gratificante notorietà sociale o mediatica si senta molto più trattenuto nel coltivare avversione per la vita rispetto a chi non disponga neppure di beni primari, come la libertà, un lavoro, una dimora, che possano mitigarne lo sconforto in momenti di grave difficoltà. E tuttavia, persino l’uomo più libero da ordinarie e pressanti preoccupazioni terrene di natura psicologica, economica, affettiva o professionale, può non considerarsi felice in presenza di possibilità anche per lui sempre e comunque imminenti e ineluttabili quali la malattia, la solitudine, la morte, e può essere braccato dall’infelicità anche al di là di tutte le sue ipotetiche opere di bene3.

La vita può risultare soggettivamente, e non solo per ingiustificati motivi di incontentabilità personale, cosí amara, cosí frustrante e oppressiva, cosí inappagante e triste, da trasformare, a ragione o a torto, ogni naturale desiderio di vita in un desiderio innaturale ma quasi spontaneo e liberatorio di morte. Debitamente corretta e integrata, questa è anche la prospettiva in cui si trova a vivere e a pensare il cristiano, in quanto questi non ignora il valore redentivo del portare quotidianamente la croce di Cristo e sa che la qualità spirituale della sua esistenza resta strettamente connessa all’esercizio di uno spirito evangelico di rinuncia e di impegno contro ogni forma di menzogna e di iniquità mondane, ma, al tempo stesso, persino nelle prove più difficili e angosciose della sua vita, non è mai preda di tentazioni nichiliste o autodistruttive, sforzandosi piuttosto di mitigare il suo sconforto e di confidare nelle promesse salvifiche di Cristo. 

Su un piano antropologico, sono forse due gli stati d’animo che attraversano più insistentemente e in modo alterno la psiche, la coscienza, il cuore degli esseri umani, a fronte dell’originario e naturale desiderio di vita che in essi inerisce: il primo è quello in cui la vita viene percepita, a causa di condizioni o esperienze esistenziali particolarmente sfavorevoli, come una realtà talmente faticosa e dolorosa da non poter corrispondere, se non in modo parziale e discontinuo, all’innato desiderio individuale di felicità; il secondo consiste, invece, nella interiore predisposizione all’idea e alla realtà stessa della morte, sia pure non in modo esasperato o compulsivo ma composto e riflessivo, come ad una condizione definitiva di cessazione del dolore oppure, in quanti coltivino una fede nell’al di là, come al possibile inizio di una vita integralmente ed eternamente felice4. Ciò non toglie, tuttavia, che la morte, tranne che in casi di grave alterazione mentale o di totale immersione in vortici irreversibili di disperazione in cui essa sia semplicemente subìta, venga generalmente temuta e concepita come il possibile e definitivo epilogo di ogni concreta speranza di vita.

Tuttavia, il cristiano ha una certezza spirituale di cui altri non possono disporre, vale a dire quella per cui il Dio crocifisso e gloriosamente risorto per ascendere in cielo elargirà a poveri, oppressi, discriminati e perseguitati in qualunque forma e per qualunque motivo, che in lui avranno rispettosamente confidato, la vita in abbondanza per l’eternità. E questa certezza dovrebbe poter fungere da elemento di grande forza non solo nell’imminenza del fatale trapasso ma anche nel corso della precedente vita, durante la quale si sarà trattato di fare attenta opera di discernimento e di vivere, nei limiti delle proprie possibilità morali e spirituali, in conformità alle leggi di Dio.  Poi, certo, la morte, come la vita, ha pure la sua fenomenologia, nel senso che la morte non avviene nello stesso modo o nelle stesse forme per tutti e per tutte le epoche ma in forme anche profondamente diverse e connesse all’evoluzione civile e culturale della specie umana e dei suoi grandi raggruppamenti geografico-territoriali5.

Ma, fondamentalmente, al di là delle sue diverse forme storico-fenomenologiche, i sentimenti che risiedono nell’animo umano al cospetto della morte imminente o, comunque, della inevitabilità biologica della morte, pur potendo essere vissuti in modi diversi e con spirito diverso, sono da una parte quello di una paralisi angosciante, e dall’altra quello di contenimento di essa attraverso un’autonomia più o meno accentuata del giudizio individuale, volta appunto a ridurre, ad attenuare il più possibile il potere indubbiamente destabilizzante che la morte esercita sul singolo. Tale dinamica vale per tutti gli esseri umani, ma indubbiamente la fede religiosa, a seconda del grado di autenticità e persuasione con cui venga coltivata e vissuta, può non solo contribuire a rendere più pacifico e meno conflittuale il rapporto tra conscio e inconscio ma agevolare, sia durante il vivere che nell’approssimarsi del morire, il passaggio psicologico-esistenziale dalla vita alla morte6. Al di qua o al di là di un atto di fede, resta solo la certezza della morte come fatto oggettivo ma, al tempo stesso, l’oggettiva incertezza circa l’essenza interna della morte, circa la sua realtà costitutiva, il suo intrinseco significato. Noi sappiamo che la morte inevitabilmente sopraggiunge per ogni individuo come arresto, cessazione o spegnimento di vita, ma che cosa realmente accada con la morte e nella morte, nessuno lo sa, né forse potrà mai saperlo. Da un punto di vista psicologico, si può solo immaginare che la morte sia il peggiore dei mali cui l’uomo sia destinato per motivi completamente naturali, ma da un punto di vista logico-razionale è possibile affermare solo che essa determina la fine della vita terrena, con tutte le sue ricchezze e con tutte le sue povertà, con tutti i suoi piaceri e tutti i suoi affanni, con tutte le sue forme di potere e tutte le sue forme di impotenza, con tutte le sue preghiere e tutti i suoi atti di empietà. Non è possibile dire altro: né se la morte venga implicando unicamente la disgregazione necrotico-cellulare dell’organismo biologico piuttosto che una rigenerazione fisicamente invisibile della struttura corporea ormai cadaverica in nuove e misteriose forme di vita, né se la morte costituisca in realtà il male supremo e conclusivo del vivere piuttosto che l’inizio di un sorprendente e inedito ciclo di vita in cui non vada perduta ma conservata l’identità personale di ogni singolo individuo in condizioni di esistenza completamente difformi da quelle spazio-temporali della vita terrena7.

D’altro canto, la fede nell’immortalità, dopo la morte, viene spesso ridotta razionalisticamente a nient’altro che a un desiderio irrazionale di sopravvivenza, ovvero al desiderio inconscio di continuare ad esercitare o di esercitare finalmente potere anche a dispetto della morte, in quanto la brama di sopravvivenza è strettamente connessa ad una brama di potere. Al di là degli aspetti provocatori di una siffatta interpretazione, bisogna riconoscere che essa non può essere semplicemente liquidata come presa di posizione polemica conseguente ad una visione ateistica della vita. Si crede nell’immortalità non solo e non tanto perché si vorrebbe continuare a vivere oltre questa vita terrena, che in molti casi può essere percepita o valutata come non degna di essere vissuta, ma anche e soprattutto, forse unicamente, per poter godere di una vita qualitativamente diversa da essa, per poter gustare la vita nella ricchezza e nella pienezza dei doni di cui in origine era stata dotata da Dio, che ad una vita abbondantissima e immortale aveva ab aeterno pensato come al vero destino della creazione all’unica condizione che le sue creature non intendessero recidere il rapporto di dipendenza e gratitudine con il loro creatore.

Si crede legittimamente alla vita eterna perché essa è il premio promesso da Dio agli uomini e alle donne desiderosi di appartenergli e di abitare, senza limiti di tempo e spazio, nell’unico regno di ogni universo possibile in cui viga la perfetta giustizia da cui solo possono discendere fraterni rapporti purissimi, e non più contaminabili dal peccato, di amore e di mutua e generosa cooperazione. E’ anche vero che quanti saranno ammessi al Regno di Dio, ormai totalmente dispiegato e realizzato oltre il tempo e la storia, sono coloro che alla vita divina avranno aspirato con totale sincerità di intenti e con faticose opere redentive di compartecipazione alle sofferenze espiatrici e umanizzatrici di Cristo salvatore, giacché il Paradiso, contrariamente a quanto spesso si sostiene in chiave meramente sentimentalistica, non aspetta tutti ma solo coloro che avranno accettato di capire quale sia l’intrinseco e profondo valore della vita e di comportarsi di conseguenza. Tutto ciò non toglie che, potendosi certamente dare anche sulla morte forme di fede scorrette o infedeli allo spirito della Parola di Dio, non possano verificarsi fenomeni psicologicamente o inconsciamente distorsivi del genuino dato rivelato di fede, e non possano di conseguenza aver luogo casi in cui il desiderio di sopravvivere nell’al di là non equivalga ad altro che ad un disperato desiderio di invulnerabilità8. L’uomo, invece, senza il correttivo spirituale della fede, si lascia travolgere dall’istinto naturale di sopravvivenza che lo porta ad immaginare che non sussista condizione più desolante di solitudine, di insocievolezza, di incomunicabilità, di quella in cui si viene a trovare l’individuo ormai totalmente privo di vita e destinato alla sua completa dissoluzione fisico-organica. In questo senso, tra gli individui che non intendano ricorrere a pratiche eutanasiche e indirettamente autosoppressive, quelli non credenti, non solo nel senso agnostico ma nel senso più radicalmente ateo della parola, non potendo affidarsi ad alcuna prospettiva teologico-metafisica o almeno a idee e convinzioni che, per quanto rozze, siano in grado di alimentare una speranza di ripristino della vita ante mortem, fanno di tutto per allontanare da se stessi l’idea della morte propria, non invece l’idea di quella altrui che risulta invece perversamente funzionale al loro bisogno di essere e sentirsi ancora in vita mentre altri soccombono, e da un certo momento in poi, specialmente se colpiti da qualche malattia, da qualche grave infortunio, da cedimenti corporei strutturali via via più irreversibili e letali, fanno di tutto anche per tentare di arginare, con terapie mediche o interventi chirurgici sempre più impegnativi e non di rado costosi, l’inesorabile sopraggiungere della stessa realtà materiale della morte e quindi del non poter più comunicare né con gli altri né con il mondo, del non poter relazionarsi più con altri esseri coscienti, pensanti e senzienti, del non poter avere più alcun contatto neppure con il proprio io, con la propria coscienza9.

Non si possono, peraltro, ignorare le speranze di tutti coloro che ripongono una qualche fiducia, pur senza mai esplicitarla in forme particolarmente vistose, nel più contemporaneo e popolare movimento culturale, noto come postumanesimo, secondo cui l’evoluzione della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche sarebbe destinata a raggiungere risultati pratico-conoscitivi talmente elevati da poter determinare, in un prossimo e non più lontanissimo futuro, ricadute prodigiose anche e soprattutto in relazione agli aspetti forse più sgradevoli o indesiderabili della condizione umana, vale a dire la malattia e l’invecchiamento, e alla relativa possibilità di allungare notevolmente la vita umana e cambiarne o trasformarne al tempo stesso la natura originaria, dando luogo alla creazione di individui ibridi, dotati di nuove e sensazionali capacità fisiche e cognitive, e tuttavia per l’appunto ibridi, compositi, non più omogenei come sono attualmente gli esseri umani di nostra conoscenza10. Individui proiettati verso una possibile immortalità, si giunge persino a sostenere. Ma, ammesso che un’ipotesi e un’aspettativa del genere siano o si rivelino attendibili, resterebbe una domanda, per quel che si è appena detto, semplicemente inquietante: l’immortalità transumana o postumana sarebbe ancora l’immortalità dell’essere umano, così come ad oggi è stato descritto e rappresentato nell’immaginario collettivo del genere umano, così come è stato acquisito attraverso i millenni nella storia della cultura e della civiltà planetarie? Sarebbe ancora l’immortalità dei discendenti di Adamo ed Eva, per capirci ancor meglio,  o piuttosto quella di esseri ormai profondamente diversi, biologicamente ed esistenzialmente diversi o difformi da quelli di origine tradizionalmente divina?   

Si potrebbe obiettare che anche i risorti, di cui parlano le Sacre Scritture e in particolare la tradizione di ispirazione evangelica e cristiana, sono destinati ad una dimensione gloriosa che ne muterebbe in parte i tratti e le caratteristiche che essi avevano posseduto nella vita terrena. Questo è vero, ma ciò a cui probabilmente non sarà mai possibile rispondere, se non sfidando temerariamente e pericolosamente l’ignoto, è se questa nuova, rivoluzionaria umanità, che dovrebbe nascere dai laboratori più avanzati di una medicina d’avanguardia e da sempre più rivoluzionari e sofisticati laboratori informatici, sarebbe eventualmente più vicina a quella che dovrebbe popolare i nuovi cieli e la nuova terra di estrazione biblica (Is 65, 17 e Gv, Apocalisse, 21, 1) oppure a quella destinata a sprofondare negli abissi infernali di un’eterna disperazione.

Non è affatto certo che l’essere umano, ove la scienza, in una determinata fase del suo incessante e rivoluzionario sviluppo, fosse in grado di garantire una qualche forma di immortalità non in un generico altrove postulato per fede ma su questa stessa terra e di garantire una informazione veritiera e dettagliata sulle modalità e sulle condizioni tecnico-operative di accesso a tale inedita, anche se ad oggi totalmente sconosciuta dimensione del vivere storico-biologico, sarebbe disposto ad abbracciare incondizionatamente questa opzione. Intanto, per l’incognita piena di ombre minacciose gravitante sulle nuove pratiche protocollari e sperimentali cui i volontari dovrebbero sottoporsi, ma poi soprattutto ci si dovrebbe chiedere quanti di questi ultimi, pur ammettendo in modo del tutto teorico che l’esito degli innesti o delle applicazioni scientifico-tecnologiche potessero rivelarsi tecnicamente efficaci, sarebbero intrepidamente pronti ad accettare l’idea di un prolungamento della vita all’interno delle stesse condizioni storico-sociali, culturali, morali e giuridiche, economiche e ambientali, in cui sarebbe venuta svolgendosi fino a quel momento di svolta radicale della storia umana la vita di ogni individuo, dell’intero genere umano11.

La scienza ha o avrebbe davvero il potere di depotenziare, molto più di quanto riesca a fare la fede religiosa e segnatamente la fede cristiana, la paura esistenziale della morte? Non potrebbe accadere che un rivoluzionamento scientifico-tecnologico, oggi ancora inimmaginabile, di questa vita terrena, possa introdurre nella fase più mostruosa e autodistruttiva dell’intera storia dell’umanità? La morte è un fatto reale e ineluttabile, anche se l’essere vivente la percepisce solo in senso virtuale fino a quando non sopraggiunga anche per esso. Non sempre e non tutti, sia pure sulla base di motivazioni diverse e quantunque condizionati emotivamente dal senso della loro fine imminente, uomini e donne si mostrano tuttavia terrorizzati dall’evento morte o esasperatamente avvinti all’immagine della vita, di questa vita che li abbandona. In molti casi, alla morte l’essere umano pensa anzi come ad un sollievo che giunge a liberarlo da una vita particolarmente sofferta e dolorosa oppure anche, e non disgiuntamente da questa motivazione, come all’inizio di una sorta di transito verso qualche altra forma sconosciuta di vita ma molto più gratificante di quella precedentemente vissuta. Dopotutto, l’uomo è nato senza volerlo, senza scegliere tale evento, e, poiché è nato con una coscienza e una relativa capacità di scegliere il suo destino, è anche ragionevole ritenere che, a differenza del modo in cui è entrato nella vita, possa uscirne in modo consapevole e totalmente libero di odiare la morte e opporvi ogni possibile resistenza, in quanto sia percepita come definitivo annientamento personale, oppure di attenderla o affrontarla quanto più serenamente possibile, se non addirittura di amarla misticamente, in quanto sia percepita come possibile, ulteriore, impercettibile immersione esistenziale in una oscura o misteriosa corrente di energia capace di convogliare una corporeità ormai cadaverica e dis-organica verso altrettanto misteriose e potenti fonti o sorgenti rigenerative di vita umana diversa, integrata, potenziata in modi diversi e con gradi diversi di intensità, nonché non più soggetta a processi di natura distruttiva e mortale12.

Il problema della morte umana non è solo biologico e psicologico ma antropologico dal momento che il pensiero degli esseri umani trascende il tempo e non può non interrogarsi generalmente, a volte con inquietudine, altre volte con una fiduciosa ma non presuntuosa aspettativa di pace, sulla enigmatica, presunta realtà di un al di là. Ora, proprio per questo, proprio perché l’individuo tende a porsi il problema non già di una qualunque forma di immortalità in cui egli potrebbe continuare a vivere ma della possibilità di conservare per l’eternità, anche dopo la morte, la sua identità personale, è evidente che la possibilità di una immortalità informatica, meccanizzata, postumana, non possa soddisfare questo suo specifico interesse, giacché intanto una tale immortalità verrebbe realizzandosi all’interno e in continuità della vita mortale e poi un’immortalità di questa natura non corrisponde ad una vera immortalità biologica, che è parte integrante e imprescindibile di un’identità personale, ma piuttosto ad un’immortalità biologica appunto meccanizzata, in qualche modo alterata e sostitutiva di quella, per così dire naturale o non artificiale, e dunque anche etica e spirituale, cui aspirerebbe pur sempre il morituro nel quadro di una possibile e indefinita, benché inimmaginabile, dilatazione della vita oltre il limite, a quel punto puramente funzionale, della morte terrena. Ma, come è stato ben osservato, un’immortalità tecnologica, che in realtà non supererebbe mai la morte ma ne sposterebbe indefinitamente in avanti l’avvento, non «comporta necessariamente una qualità etica della vita. È compatibile con il male e l’ingiustizia. Non risolve i grandi problemi antropologici. È un’immortalità puramente temporale: un prolungamento all’infinito dei compiti temporali che facciamo in modo abituale. Quale sarebbe il senso di avere una vita temporale mortale infinita? Naturalmente nessuno desidera morire (tranne eccezioni) e tutti vedono la vecchiaia come un male. Non è quindi questione di opporsi ai progetti di allungare la vita il più possibile e di superare i mali della senescenza. Solo che dobbiamo tener presente nel suo insieme il senso della vita. Non penso che dobbiamo scoraggiare la ricerca biologica rivolta al superamento del processo di senescenza. Probabilmente è opportuno un atteggiamento di attesa prudenziale dinanzi ai risultati futuri in questo campo, risultati che ancora non si conoscono e non si vedono»13.

Certo, nel frattempo ci si può e ci si deve domandare se l’intento di superamento della morte, al di qua di essa, sia compatibile con «con ciò che insegnano le religioni. Ci sarebbe incompatibilità se l’immortalità biologica su cui s’indaga fosse vista come un sostituto della vita eterna, includendo la risurrezione dei morti della fede cristiana, morti che nei progetti considerati ovviamente non risusciteranno. L’immortalità biologica delle attuali ricerche non cambia la natura temporale della vita umana. D’altra parte, il problema esistenziale dell’essere umano considerato dalla salvezza ultraterrena non è il semplice fatto di morire, bensì il senso della vita umana, il problema della sofferenza, dell’ingiustizia, la mancanza di amore, il peccato, l’unione a Dio. L’immortalità biotecnologica lascia intatti i problemi antropologici affrontati dalle religioni. Di fronte alle difficoltà presentate in queste considerazioni, la mia conclusione non è negativa riguardo alla ricerca sull’immortalità biologica. Ogni ricerca scientifica, se non è contraria all’etica, è benvenuta. Malgrado le suddette difficoltà, la sola possibilità di una vita biologica immortale dimostra che in un certo senso la morte non è il destino necessario della vita. Il desiderio umano d’immortalità e l’impegno scientifico di vincere l’invecchiamento sono una manifestazione della trascendenza spirituale dell’uomo sulla materia. Questo dimostra che la persona umana non si rassegna alla morte, ma cerca l’eternità»14.

La persona umana non si rassegna alla morte, o almeno questo è ciò che accade nella generalità dei casi, e tuttavia quella di confidare in un potere scientifico in grado di esaudire il desiderio umano di immortalità è  una credenza non solo umanamente illusoria ma anche religiosamente idolatrica, per la semplice ragione che un essere ontologicamente finito non potrà mai produrre o creare beni infiniti e dunque non soggetti a forme di logoramento e di estinzione, a cominciare da quella che si riferisce alla mortalità delle cose e degli esseri viventi. Perciò, per quanto la comunità scientifica possa e, in linea di principio, debba in modo del tutto lecito profondere ogni impegno contro l’invecchiamento e la morte preservando il più a lungo possibile la corporeità umana del singolo e la sua stessa identità soggettiva dalla naturale degradazione biologica e dalle malattie che generalmente ne derivano o ad essa si accompagnano, non sarà mai possibile scongiurare, né in sede teorica né in sede pratica, la previsione del verificarsi di eventi esiziali di qualsiasi genere che risultino refrattari a qualunque tipo di programmazione e risoluzione scientifiche. Se la scienza avrà sempre dinanzi a sé un ignoto che non potrà mai sufficientemente penetrare dal punto di vista conoscitivo, come e perché dovrebbe essere capace di sconfiggere il più assillante e drammatico problema del genere umano, ovvero la morte?

Il desiderio istintivo di ogni singolo vorrebbe che la scienza ne fosse capace, salvo poi a doverci rendere conto che l’uomo razionale, pur avendo nella sua istintualità la sede della sua stessa vitalità esistenziale, non potrà né farne un uso incontrollato, né confondere il serbatoio energetico del suo vivere con lo scopo o la destinazione ultima della sua esistenza. La razionalità umana, nella sua duplice valenza teorica e pratica, si nutre di istintualità come di desiderio, che riguardano però il sensibile, il molteplice, la temporalità, ma non si riduce ad essi né può naturalmente identificarsi riduttivamente con essi, dal momento che la razionalità agisce al di fuori o al di là della temporalità e si apre alla dimensione dell’eterno, di ciò che non muta, di ciò che è e rimane sempre quel che è15. Non si tratta, tuttavia, di contrapporre l’eternità alla temporalità, in quanto la temporalità è già nell’eternità, momento integrante dell’eterno, ma solo di distinguere tra desiderio, che è legato alla mutevole corporeità, e spirito, teso a qualcosa che non muta ma permane come assoluta identità. E’ forse utile chiarire tale concetto con un brano di Vannini: «il desiderio dell’eterno è indice di un legame al corpo, ai sensi, alla egoità determinata della psiche, e perciò impedisce l’esperienza dello spirito, per la quale il corpo è come un vestito che si indossa, e la psiche, ad esso legata, pure come qualcosa che, in fondo, non ci costituisce, anche se ci appartiene in qualche modo. La vera essenza nostra, sommamente personale nella sua impersonalità, è lo spirito (νος), per il quale l’eterno è qui ed ora, sempre presente. Dall’Uno siamo usciti, ma non mai del tutto separati. Libero dal desiderio, completamente distaccato, l’uomo spirituale vive con gioia la vita presente, ogni presente, e, insieme, guarda con serenità alla morte come alla liberazione dal corpo e dallo psichismo. Perciò, secondo il bellissimo paragone nietzscheiano, si congeda dalla vita come Ulisse si congeda da Nausicaa: benedicendola, ma non innamorato di lei»16.

Bisogna evitare, ammoniva Nietzsche, per il quale l’oltreuomo non coincideva né con i risorti dell’annuncio cristiano, né con forme di transumanità scientifico-tecnologica, che l’uomo, abdicando al suo senso di responsabilità, finisca per acconsentire alla trasformazione del proprio biós, cioè dei modi complessivi in cui egli vive (quindi anche quelli che rendono possibile la vita contemplativa, etica o politica, spirituale) in zoé (vale a dire la vita puramente istintuale che inerisce l’individuo umano consentendogli di poter vivere secondo la ricca varietà di forme esistenziali che il vivere contiene). Bisogna evitare di credere nelle roboanti promesse della scienza applicata piuttosto che nelle verità più equilibrate e articolate anche se non aprioristicamente rassicuranti della fede. Bisogna evitare di credere che la vita eterna potrà darsi un giorno, qui e ora17, senza dover più valicare il confine di quella tradizionale condizione di totale immobilità in cui viene a trovarsi l’individuo quando cessano le sue funzioni vitali, anche perché, se pure per assurdo la scienza fosse capace di costruire un mondo di esseri immortali, quel mondo sarebbe pur sempre parte integrante di un mondo cosmico-planetario posto al di fuori di ogni possibilità scientifico-tecnologica di intervento strutturale, di un mondo a sua volta appartenente ad un universo di altri mondi reali e possibili, nel quale, come insegnano fisica e astronomia, nessuna formazione stellare e galattica risulta immune da continue e radicali trasformazioni fisiche che ne determinano ogni volta la morte e l’evoluzione in forme sempre nuove e diverse di vita cosmica.

Peraltro, il vivere per l’uomo ha senso non certo come semplice esercizio di generica attività neurovegetativa, perché esso, nell’ambito della dinamica antropologica della specie umana, viene di fatto declinandosi non solo e non tanto come un vivere di qualcosa ma soprattutto come un vivere per o in funzione di qualcosa. Il vivere umano non è un vivere inerziale, privo di una qualunque volontà di progresso morale e spirituale oltre che economico e sociale, ma, al di fuori di forme puramente parassitarie, inoperose e poco più che vegetative di vita, e quindi molto più prossime alla morte che alla vita, è un vivere finalistico e finalizzato al raggiungimento di uno stato di benessere o felicità che non conosce mai punti definitivi di arrivo. Pertanto, se alla vita si intendesse conferire il significato di vita come facoltà del muoversi, del respirare, del mangiare, del dormire e dell’espletare tutte le funzioni fisiologiche nel quadro di un’attività cerebrale alquanto passiva, ripetitiva e prevedibile, nonché contrassegnata da motivazioni affettive pressoché inesistenti, è molto dubbio che la maggior parte del genere umano si sentirebbe indotto a desiderare una immortalità di vita così intesa.

Il problema è che la vita concepita nel più proprio e costitutivo dei suoi significati è solo la vita in pienezza, la vita senza malattie disabilitanti, non solo senza lutti e senza distacchi definitivi ma anche senza incomprensioni, senza dissapori, liti, conflitti più o meno esasperati, guerre, e quindi violenza, prepotenza, sopraffazione, odio. Una vita siffatta potrà mai essere il portato di una epocale rivoluzione scientifico-tecnologica, trainata da modelli sempre più sofisticati ed evoluti di ingegneria informatica e robotica applicata alla medicina, alla chirurgia, alla genetica? Una qualche forma di vita, forse, fino a quando non venga consentito da minacce esterne non sempre prevedibili e sempre in agguato, ma non questo tipo di vita, non la vita delle cui caratteristiche basilari reca una fedele memoria la storia plurimillenaria della civiltà umana. Non potrà, semmai, accadere che proprio nel corpo della scienza vengano producendosi i germi di una volontà di potenza talmente dilatata e incontrollabile da generare, insieme a forme meccaniche di immortalità,  infernali mostruosità umane non più rimovibili dalla storia dell’umanità18.

A tutto questo bisogna anche aggiungere, come implicitamente accennato poco sopra, che il presunto potere scientifico di creare una vita immortale al di qua della morte19, verrebbe ovviamente implicando anche l’immortalità di un mondo violento e iniquo, e anzi ancor più violento e iniquo di quanto ancora ad oggi non sia, in quanto la tendenza umana ad un’affermazione priva di remore morali e spregiudicata del proprio io, dei propri interessi egoistici, verrebbe accentuata e accelerata in modo esponenziale dalla consapevolezza di una inviolabile invulnerabilità personale resa ormai possibile dal raggiunto stato di immortalità. L’uomo di fede certamente e l’uomo di ragione probabilmente sanno che questi non potranno essere i destini del mondo, che la vita umana del singolo e quella della specie umana, in tempi diversi, avranno una fine e che resterà storicamente e culturalmente insuperato il dilemma dei dilemmi: se la morte rappresenti il non senso più eclatante di un’esistenza cui gli uomini avranno inutilmente tentato di dare un senso sforzandosi di governarla con la ragione e la coscienza morale, oppure costituisca il principale presupposto esistenziale di una interrogazione ineludibile e radicale sulla possibile o probabile coabitazione ontologica, nel corpo stesso della vita individuale e storico-mondana, del limite creaturale e della radice divina della creatura che aspira conseguentemente all’infinito e al divino, da un lato, e dell’impotenza umana di fronte alla morte e della divina onnipotenza che può distruggere anche la morte, dall’altro.

Ho detto interrogazione, perché, anche se laicisticamente non si volesse attribuire alcuna attendibilità ad annunciate ma generiche attese di natura escatologica e più esattamente  alla speranza religiosa e cristiana di un’altra vita e di una vita non più minacciata da affanni e privazioni disumanizzanti, una ragione non già confessionale ma semplicemente e rigorosamente laica non potrebbe esimersi dal chiedersi in chiave critica da chi o da che cosa la vita umana potrebbe essere salvata dalla morte non prima che la morte sia giunta ma una volta che nella morte sia stata inesorabilmente inghiottita, da che cosa cioè potrebbe essere resa possibile una reversibilità dalla morte alla vita: dalla scienza, dalle macchine informatiche, dalla tecnologia computerizzata, oppure da cambiamenti geologici e climatici tali da influire, come già in passato, sull’evoluzione genetica della specie umana fino a condurla questa volta sino alle soglie di un’immortalità biologica naturale, oppure da una civiltà aliena dotata della prerogativa dell’immortalità che un giorno potrebbe estendersi agli umani se da essa colonizzati, o infine da quel Dio in cui, benché rivelato dalla persona storica di Cristo, molti non credono o non credono realmente come nel caso di molti cristiani, ma che non la fede quanto la ragione non può non legittimare almeno come fondata supposizione? Il compito di questo scritto non è di dare risposte articolate e specifiche a tale quesito, benché siano già note le convinzioni dello scrivente al riguardo e benché, soprattutto, appaia realistico ritenere che la morte, in linea teorica, non possa essere debellata da forze direttamente o indirettamente riconducibili ad una matrice umana: il compito di questo scritto è solo di mostrare come tale quesito rivesta un’importanza filosofica decisiva ai fini di una identificazione quanto più corretta e onesta possibile dell’essenza o del significato ultimo della morte20.

Ma, se per amore della vita, ogni essere vivente si oppone istintivamente alla morte, e cerca di ritardarne in tutti i modi il sopravvento, è sempre, e sia pure paradossalmente, per amore della vita, che esso, e in particolare l’uomo che ha coscienza di cosa significhi vivere e morire, è altresì disposto a rischiare la propria incolumità, la propria vita, tutte le volte che si sente minacciato arbitrariamente e ingiustamente da un suo simile, oppure anche nel caso, completamente diverso, in cui ritenga che l’opportunità di migliorare sensibilmente le proprie condizioni di vita con mezzi cinici e immorali, giustifichi l’esaltazione e l’esercizio della forza e della retrostante volontà di potenza: si pensi ad una guerra di difesa o di liberazione rispetto a nemici animati da una sconsiderata volontà di conquista e di oppressione, oppure ad azioni criminali o terroristiche concepite e compiute per motivi di arricchimento o di supremazia politica e militare21. Ecco: quando la morte, anche solo virtuale, è percepita non come un naturale evento biologico ma come un evento moralmente innaturale, come evento imposto non dalla natura, bensí da esseri umani ai danni di altri esseri umani, l’uomo trova, o meglio, se lo voglia, può trovare la forza di ribellarsi, anche impugnando le armi, sino al punto di esporsi ad una sorta di morte sacrificale per la difesa o la salvezza dei suoi congiunti, della sua comunità, della sua patria o di se stesso. Va da sé, invece, che quanti esibiscano un potere muscolare o omicida, di vario grado e di diversa natura, per ragioni manifestamente illecite o eticamente abnormi, debbano essere classificati come soggetti meritevoli di essere banditi dalla vita associata sia pure nel rispetto dei loro più basilari diritti umani.

Cosa significa tutto questo se non che l’uomo non teme la morte sempre e comunque nello stesso modo, mentre tende a rassegnarsi al cospetto della morte in quanto oggettivo dato di natura e non dovuta ad altrui atti o disegni di ingiustificata sopraffazione? Cosa significa se non che l’ambivalente atteggiamento dell’uomo verso la morte dipende dalla particolare forma che la morte viene assumendo nella percezione soggettiva dei singoli, per cui più tollerabile possa apparire la morte sopraggiunta per motivi naturali o per scelte etiche cariche di motivazioni affettive, comunitarie o religiose, molto meno tollerabile e anzi odiosamente ingiusta possa apparire la morte indotta in modo deliberato, direttamente o indirettamente, e a scopo unicamente e ingiustificatamente offensivo? L’uomo è un animale razionale e anche il suo modo di morire risente del modo in cui verrà usando la propria razionalità, oltre che eventualmente la propria fede22. Non è detto che la disperazione, da non confondere con un’atroce sofferenza, sia la cifra universale o unica degli individui ormai moribondi, e anche ove capitasse di avere a che fare con morti intrise di disperazione, bisognerebbe ancora chiedersi se quella disperazione non scaturisca da motivazioni diverse e non legate necessariamente ad un sentimento di ripulsa verso la morte in quanto tale, se in altri termini anche o persino la disperazione non appartenga a tipologie diverse e se non si possa ad esempio distinguere tra una disperazione paralizzante e una disperazione ancora aperta alla speranza.

La stessa disperazione di Cristo crocifisso e ormai moribondo, per quanto reale, deve essere tuttavia compresa correttamente, nel senso che lo stato di estremo abbandono in cui il Padre divino aveva permesso che egli concludesse la sua esistenza terrena non viene contestato afflittivamente e polemicamente da Gesù in quanto momento terminale della sua vita terrena ma in quanto forma innaturale e sommamente ingiusta per chi, di natura divina come lui ma misconosciuto come Figlio di Dio, aveva dovuto subire, pur avendo sempre insegnato e testimoniato il significato e il valore dell’amore tra gli uomini,  la sorte dei peggiori malfattori, l’umiliazione più cocente che possa essere inflitta a un uomo, l’affronto più blasfemo che possa essere arrecato ad un Dio. Ora, Gesù chiede al Padre, nel momento in cui più acuta diventa la sua sofferenza fisica, psichica, morale e spirituale, perché Egli, proprio in quel frangente di estrema solitudine esistenziale, non faccia più sentire la sua voce e non gli faccia comprendere il senso, la ratio ultima del suo supremo volere, e, come correttamente spiega Ravasi, «Quella di Gesù in croce non è una disperazione, non è l’attestazione di una perdita di speranza; egli grida sperando; urla sì, ma con la fiducia che Dio porrà fine al silenzio, all’alienazione della distanza»23.

Ma alcuni intellettuali pensano che, in realtà, i cristiani non sappiano morire, che lo stesso Gesù non abbia saputo morire e non abbia saputo insegnare a morire, temendo egli stesso la morte, avendo anzi orrore della morte. In un articolo di sedici anni or sono, di cui non ricordo più il titolo esatto, scriveva per esempio Umberto Galimberti24: «A differenza di Socrate, Gesù ha paura, non degli uomini che lo uccideranno, né dei dolori che precederanno la morte, Gesù ha paura della morte in sé, e perciò trema davvero dinanzi alla “grande nemica di Dio” e non ha nulla della serenità di Socrate che con calma va incontro alla “grande amica”. “Abba! Padre, tutto ti è possibile, allontana da me questo calice” (Mc 14, 36). È il calice della morte con cui non è possibile “fare libagioni”. E perciò l’urlo dalla croce: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? (Eloì, Eloì, lamà sabactani?)” (Mc 15, 34). Incapace di sostenere questa solitudine, nel Getsemani Gesù non cerca solo la presenza di Dio, ma anche quella dei discepoli. Continuamente interrompe la sua preghiera per raggiungerli e vederli nel sonno: “Non potete vegliare un’ora con me?” (Mc 14, 37). E poi sconsolato: “Dormite pure e riposatevi. L’ora è venuta, ecco, il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo. Colui che mi tradisce è vicino” (Mc, 14, 42). Poi la scena della morte. … Con calma sovrana Socrate beve la cicuta, mentre Gesù emette un grido inarticolato (Mc 15, 37), una lacerazione. Non è più la morte amica dell’anima, è la morte in tutto il suo orrore. Qui si apre l’abisso tra il pensiero greco da un lato e la concezione cristiana dall’altro. Noi viviamo nell’ambito della tradizione giudaico-cristiana e non sappiamo affrontare la morte se non affidandoci a speranze ultraterrene. Abbiamo un concetto molto alto di noi, meritevoli di immortalità. Ma questa credenza è rivelatrice di una verità o di uno spropositato amore di sé? Perché, nel secondo caso, forse varrebbe la pena di consegnarci con largo anticipo al nostro limite, seguendo la saggezza greca là dove insegna: “Chi conosce il suo limite non teme il destino”».   

Solo uno sciocco retore è capace di non apprezzare il fatto che Cristo sia stato capace di affrontare la morte senza ingerire sostanze oppiacee e senza bere la cicuta come il povero Socrate, solo un intellettuale vanitoso e arrogante può leggere e interpretare in questi termini la storia di un Dio in croce, la storia dell’unico Dio in croce che, per caritatevole e salvifica solidarietà persino nei confronti della più disperata umanità morente, accetta una morte non solo ingiusta ma ingloriosa e abominevole. D’altra parte, Galimberti poteva ottenere una cattedra universitaria solo in questo mondo di apparenze e di banalità, né egli stesso sembra minimamente interessato ad occupare una cattedra in un mondo più serio, interessante e coinvolgente di quello in cui oggi vive.

La cultura cristiana, sempre secondo il suddetto filosofo, avrebbe la responsabilità storica di non aver educato abbastanza l’uomo alla mortalità, al saper morire, al saper accettare la morte e le malattie come preludio della morte, per via della promessa in essa centrale di una vita ultraterrena, promessa il cui affievolirsi, però, «per effetto della secolarizzazione del cristianesimo, ha fatto del prolungamento della vita a opera della scienza medica il supremo valore a cui tutti tendono, per cui la morte non appare più come un destino, ma come un fallimento del sapere e della pratica medica»25. Ma, a parte il fatto che prolungare la vita terrena è ben altra cosa dal poter fare eternamente esperienza di una vita ultraterrena, non si comprende perché mai il cristianesimo avrebbe in qualche modo indotto gli esseri umani a rimuovere dalla propria vita il pensiero della morte terrena per effetto della fede in un’altra vita e anzi in una vita immortale, quando in realtà il messaggio evangelico fa principalmente leva sul concetto per cui è necessario morire al peccato per convertirsi a Dio ed è necessario morire corporalmente in questo mondo e ritornare alla polvere della propria pochezza creaturale per espiare sia il peccato originale dei progenitori edenici del genere umano, sia i peccati attuali di ogni suo singolo membro. Bisogna morire, secondo l’insegnamento cristiano, anche perché, lungi dal consentire o garantire la morte un trasferimento automatico delle sue vittime ad altra ed eterna vita secondo quanto lascia intendere la molto carente e talvolta grossolana interpretazione galimbertiana sotto il profilo biblico e teologico, solo dal modo in cui si sarà vissuta questa vita terrena dipende la duplice possibilità di una vita eterna o di una morte eterna (la “seconda e definitiva morte”)26.

 

NOTE

1. Significativo è il lamento di Giobbe (terzo capitolo del relativo libro biblico), fedele e zelante servo di Dio, contro la vita, contro una vita sventurata che gli tocca di subire, nonostante lo spirito di giustizia con cui ha sempre operato nei confronti di Dio e degli uomini, là dove tuttavia si tratta di capire se quello  «di Giobbe sia un reale desiderio di morire o non piuttosto un attaccamento alla vita che si sente sfuggire, una reazione di chi non vede nessuna ragione perché debba subire la condanna della morte», M. Chiolerio, Giobbe invoca la morte: paura o desiderio?, in Rivista “Teresianum”, 1992/1, n. 43, p. 30.

2. Un’interpretazione non banale, non riduttiva, seppur in prevalenza gravitante intorno al tema sessuale e non ancora esaustiva, né priva di tendenziosità femminista, dell’ultimo Freud e, in particolare, della dicotomia freudiana tra desiderio o pulsione di vita e desiderio o pulsione di morte, è quella di C. Cimino, Tra la vita e la morte, Roma, Manifesto Libri, 2020.

3.Un libro emblematico delle ragioni per cui si possa voler morire e non continuare a vivere, non necessariamente nel senso suicidario in esso descritto, è indubbiamente quello di J. Améry, Levar la mano su di sé. Discorso sulla libera morte, Torino, Bollati Boringhieri, 2012.

4. A testimonianza di questo incontro-scontro tra una percezione della vita come dolore invalidante e una percezione della morte come superamento di una condizione umana di infelicità, è l’opuscoletto di R. Migliarini, Preferivo fare la fila. I miei conti in pubblico sulla vita, la morte, il destino, la malattia, Cagliari, Scepsi & Mattana, 2023.

5. E. Fancelli, Esistenza e morte. Contributo fenomenologico, Todi (PG), Tau, 2020, F. P. De Ceglia, Storia della definizione di morte, Milano, Franco Angeli, 2014.

6. Interessanti spunti su come affrontare la dinamica generalmente conflittuale, soprattutto sul tema della morte, che intercorre tra la coscienza e le paure sepolte ma mai dormienti dell’inconscio, possono essere rinvenuti in testi come L. Berra, La regola della vita. Il morire e l’angoscia di morte, Torino, Isfipp Edizioni, 2022; I. Yalom, Fissando il sole, Milano, Neri Pozza, 2017; Y. Tsunetomo, All’ombra delle foglie. Precetti per un samurai, Roma, Edizioni Mediterranee, 2010.

7. Cfr. E. Kübler-Ross, La morte e la vita dopo la morte. “Morire è come nascere”, Roma, Edizioni Mediterranee, 2007; W. Hasker, “Materialism and the Resurrection: Are the Prospects Improving?”, in European Journal for the Philosophy of Religion, 2011, n. 3, pp. 83–103; S. Scheffler, Death and the Afterlife, Oxford University Press, 2016; D. Zimmerman, Bodily Resurrection: The Falling Elevator Model Revisited, in G. Gasser (ed.), Personal Identity and Resurrection: How Do We Survive Our Death?, Farnham (England), Ashgate Publishing, 2010, pp. 51–66. Da un punto di vista storico-teologico ed escatologico, una buona sintesi d’intonazione cristiana è quella di S. Antoniazzi, Ti ho messo davanti la vita e la morte (De 30, 19). Una riflessione sulla morte, in sito on line “Demos Milano”, 25 settembre 2023.

8. Sulla varietà di forme psicopatologiche in relazione alla percezione della morte, si può vedere D. Sisto, “Se solo avesse saputo …”. La paura della morte, in Rivista “Filosofia”, 2016, (LXI), pp. 85-97.

9. J. Haroutunian, Life and Death Among Fellowmen,  in  The  Modern  Vision  of  Death,  a  cura  di  Nathan  A.  Scott, Richmond, John Knox Press, 1967, pp. 79-96; Z. Bauman, Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Bologna, Il Mulino, 2012.

10. Sono ormai innumerevoli gli studi o le pubblicazioni sul transumanesimo. Tra i più recenti: R. Kurzweil, La singolarità è più vicina. Quando l’umanità si unisce con l’AI, (2005), Milano, Apogeo Edizioni, 2024; R. Campa, Mutare o perire. La sfida del transumanesimo, Ranica (Bergamo), Sestante, 2010; G. Vatinno, Il transumanesimo: una nuova filosofia per l’uomo del XXI secolo, Roma, Armando, 2010; M. Martucci, Tecno-uomo 2030. Teorie e tecnologie transumaniste per la mutazione della specie, Vicenza, Edizioni Il Punto d’Incontro, 2024.

11. L’immortalità o la quasi immortalità per via tecnologico-scientifica, sostiene uno scienziato decisamente ateo come Eduardo Boncinelli, è possibile, ma al tempo stesso egli si domanda problematicamente se sia anche desiderabile: Lettera a un bambino che vivrà fino a 100 anni: Come la scienza ci renderà (quasi) immortali, Milano, Rizzoli, Milano, Rizzoli, 2011, che approfondisce la tematica già affrontata nel libro scritto anni prima insieme a G. Sciarretta, Verso l’immortalità? La scienza e il sogno di vincere il tempo, Milano, Raffaello Cortina, 2005. Circolano poi libri più divulgativi ma ancor più fortemente propagandistici, anche se concepiti con intenzioni apparentemente “etiche”, come per esempio: J. L. Cordeiro Mateo-D. Wood, La mort de la mort: les avancées scientifiques vers l’immortalité, Bruxelles, Editions Luc Pire, 2021.

12. K. Korotkov, L’energia della vita. Storia e futuro di una ricerca rivoluzionaria, Bellaria-Igea Marina, Amrita, 2017; G. Brian, La realtà nascosta. Universi paralleli e leggi profonde del cosmo, Torino, Einaudi, 2017; ma interessanti e utilizzabili sia pure in modo indiretto appaiono le informazioni contenute in annotazioni scientifiche come quella di Guy J. Consolmagno e Christopher M. Graney (scienziati della Specola Vaticana), Alla ricerca della prima materia oscura. L’esperimento LZ, in “La Civiltà Cattolica” del 3 agosto 2023.

13. J. José Sanguineti, Immortalità biologica. È possibile e desiderabile?, in M. Pérez de Laborda, F. J. Soler Gil y C. Vanney, ¿Quiénes somos?: Cuestiones en torno al ser humano, Pamplona, Eunsa, 2018, pp. 292-297.

14. Ivi. Fino a che punto un cervello artificiale possa riprodurre fedelmente un cervello umano e tutte le funzioni da esso implicate e rese possibili, è uno dei temi più problematici su cui non solo il pensiero transumanista ma il pensiero critico in generale non può che interrogarsi sempre più freneticamente: ci si limita qui a rinviare ad un’importante pubblicazione collettanea italiana: AA.VV., Natura umana, natura artificiale, Milano, FrancoAngeli, 2010, a cura di M. C. Amoretti, autrice della parte introduttiva “Sul confine tra umano e artificiale”, pp. 7-41.

15. M. Vannini, Sull’eternità e il tempo, postfazione a G. Scolari, Verso l’eternità. Ricerca sull’immortalità, PDF, Firenze, febbraio 2017, in particolare pp. 124-128, e dello stesso autore La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Firenze, Le Lettere, 2004.

16. Ivi, p. 129. Quel che tuttavia al cristiano non può apparire che inaccettabile è la conclusione che ne trae Vannini: «la grande luce che si vede – o non si vede – è interiore e già presente. L’idea e la speranza di un paradiso dopo la morte sono perciò alienanti, testimonianza di una vita non dello spirito, ma della carne, nella esteriorità, nel molteplice», p. 130, semplicemente perché a Vannini non è abbastanza chiaro che lo spirito non è altro dalla carne, ma la capacità ad essa inerente di presiedere sapientemente alle sue funzioni, di governare razionalmente l’esplicarsi della sensibilità corporea che, se abbandonata a se stessa, avrebbe un andamento disordinato, dispersivo e distruttivo e si ridurrebbe a pura, meccanica irrazionalità.

17. D. Sisto, La rivolta contro la morte. E’ possibile un’identità senza mortalità, in Rivista “Thaumazein”, 2016/2017, n. 4-5, in particolare pp. 302-305; ma anche, in parte per contrasto, R. Kurzweil, La singolarità è vicina, Milano, Apogeo, 2008.

18. Indizi significativi della plausibilità di tale congettura, di cui potrebbe non essere consapevole anche chi li faccia emergere dai suoi studi, sono contenuti in N. Oreskes, Perché fidarsi della scienza?, Torino, Boringhieri, ed è comunque significativo che qualcuno continui a porre una domanda, talvolta percepita negli ambienti scientifici come gratuita provocazione, quale quella formulata e argomentata, in realtà senza eccessivi rischi per il futuro della scienza più che per il futuro dell’umanità. Si veda, per esempio, P. Savona, Il progresso della scienza migliora le sorti dell’umanità?, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2022.

19. In fondo, anche a prescindere dagli sviluppi ultimi di una ricerca scientifica orientata, con strumenti più realisticamente efficaci di quelli di cui poteva disporre nel passato, verso l’abbattimento del più feroce nemico dell’umanità, appare sensata l’osservazione di chi scrive: Che cosa sono infatti le attività umane, la scienza e la tecnica, l’arte e la politica, se non artifici creati dall’uomo per addomesticare, per rendere inoffensiva la natura – cioè, in definitiva, la morte, che di essa è lo strumento? L’uomo ha creato un mondo artificiale, tutto suo, una specie di ridotto fortificato dove la natura-morte non possa irrompere. Una illusione in cui ha finito per credere», G. Uboldi, L’uomo e la morte, relazione tenuta nel corso di lezioni relativo all’anno accademico 2016/2017 presso l’università degli Studi di Saronno, p. 2.

20. Tra i contributi più rilevanti su questo tema sono da includere quelli di: D. Coviello, Intorno alla filosofia della morte, Roma, Aracne, 2018; W. Jäger, L’essenza della vita. Il risveglio della consapevolezza nel cammino spirituale, Roma, La Parola, 2007, in particolare pp. 301-307; Salvino Leone, Salvatore Privitera, Il significato della morte, Roma, Armando, 1995; P. Bourget, Il senso della morte, Milano, Rizzoli, 2005.

21. La guerra, da un punto di vista storico-fenomenologico, non è solo sinonimo di odio e malvagità ma anche di amore e spirito di giustizia, non evoca solo uno spirito di morte ma anche uno spirito di vita: si veda, emblematicamente, AA.VV., Le ragioni della guerra e della pace, in Rivista “Hermeneutica”, Morcelliana, 2023.

22. AA.VV., Vedere oltre. La spiritualità dinanzi al morire nelle diverse religioni, a cura di I. Testoni-G. Bormolini-E. Pace, Torino, Lindau, 2015; I. Testoni, L’ultima nascita. Psicologia del morire e «Death Education», Torino, Bollati Boringhieri, 2015; L. Pavan, Perché la paura di morire?, Milano, Apogeo Editore, 2019; L. Fantinel, L’arte di morire (e di vivere), Milano, Skira, 2021; F. Ostaseski, Saper accompagnare. Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte, Milano, Mondadori, 2023.

23. G. Ravasi, Le sette parole di Gesù in croce, Brescia, Queriniana, 2019, pp. 187-220.

24. L’articolo-intervista firmato o rilasciata da Galimberti veniva pubblicata in “La Repubblica” del 16 febbraio 2008. Una sferzante critica all’irridente interpretazione di Galimberti, veniva espressa da P. G. Liverani, Morire da cristiani, in “Avvenire” del 2 marzo 2008.

25. U. Galimberti, La morte, il destino, la scienza, in “Almanacco dei libri di Repubblica”, 2 febbraio 2008.

26. Nel nome di una presunta originalità esegetica, non sono infrequenti i fraintendimenti, le osservazioni tendenziose e le inesattezze nella galimbertiana traduzione filosofica della sapienza storico-evangelica, come si evince anche da un’intervista forse non molto nota: Intervista di P. Campostrini a U. Galimberti, in Quotidiano indipendente del Trentino- Alto Adige “L’Adige” del 17 luglio del 2023. Si veda anche il graffiante articolo di R. Canaletti, Umberto Galimberti ha stufato: lamentoso e incapace di stupirsi, per quanto ci farà ancora la morale?, in sito on line “Mowmag.com, 27 marzo 2023). Ciò non toglie che alcune delle critiche rivolte da Galimberti alla discontinuità esistente tra l’ortodossia e i comportamenti pratici della comunità cristiana e cattolica siano totalmente fondate.