Per una teoresi fenomenologica della morte
Cosa c’era prima di nascere? Niente, o almeno niente di minimamente percepibile da parte di un embrionale essere umano. E cosa c’è dopo la morte di un essere umano che sia nato, abbia vissuto potendo fare uso di ragione, e sia morto? A questa domanda non è logico rispondere nello stesso modo, cioè niente, ponendo sullo stesso piano lo stato di prenascita, in cui peraltro il nascituro è incosciente, e lo stato di post mortem, semplicemente perché se, da una parte, non è mai accaduto che alcun individuo riferisse alcunché su un’esperienza antecedente la nascita, la stessa cosa non può sostenersi per il dopo-morte, sia perché i morti non possono parlare né comunicare in alcun modo con i vivi, sia perché non è possibile immaginare cosa direbbero se ne avessero la possibilità. Se accada o non accada qualcosa, se si dia o non si dia una qualche esperienza di qualcosa dopo la morte, in sede logica non è possibile dirlo: può darsi che il morto giaccia per l’eternità nella sua condizione di inerziale e putrescente immobilità oppure che egli torni misteriosamente a vivere o riacquisti una qualche inimmaginabile forma di vita. Da un punto di vista strettamente logico-teoretico, non ancora informato e consapevole dell’evento cristiano, si danno solo queste due possibilità, senonché a correre in soccorso dell’ipotesi di immortalità è, lo si voglia o meno, appunto quella che è stata registrata e recepita storicamente come la più straordinaria esperienza della civiltà umana, ovvero la predicazione e l’opera, e soprattutto la risurrezione di Cristo non documentata nel suo compiersi ma, aposteriori, legittimamente deducibile dalle documentate e reali apparizioni di Gesù all’indomani della sua morte1.
Con l’affermarsi storico del cristianesimo, l’umana razionalità avrebbe dovuto fare necessariamente i conti con i suoi assunti più decisivi per il destino dell’umanità. L’uomo di ragione avrebbe potuto utilizzare e spendere un’argomentazione in più, particolarmente potente e suggestiva, a favore della supposizione immortalistica, pur senza trascurare le più ovvie, scontate e apparentemente “realistiche” motivazioni derivanti dalla diretta e intersoggettiva esperienza della mortalità. La morte, si dice, è un ritorno al nulla da cui la vita proviene, ma che la vita provenga dal nulla o almeno da qualcosa che non si conosce e che, solo per convenzione, si suole definire come nulla, cioè come nulla di conoscitivamente identificabile, non autorizza in vero ad inferire che, allo stesso modo, la vita finisca o si concluda nel nulla, dal momento che, mentre l’essere cosciente proviene da un nulla di cui non ha memoria, non ricorda nulla, in questo caso l’essere cosciente che viene risucchiato dalla morte non dispone ancora di alcun elemento personale e fattuale che gli consenta di asserire l’irreversibilità o l’intrasformabilità della morte dopo la vita. D’altra parte, come si può escludere deduttivamente che il nulla da cui sembra derivare la vita, in realtà possa corrispondere alla condizione o all’esito mortale di un precedente e più originario stato di vita? Sono misteri di vitale importanza, di cui si può e si deve certo parlare, ma al momento indagabili solo per via di supposizioni ragionate. Oggi, tuttavia, appare sempre più probabile, anche sul piano scientifico oltre che teologico, che persino il nulla, generalmente identificato con forme di non vita o di morte, possa essere qualcosa, qualcosa di indefinito ma qualcosa di essente2.
Il che, appunto, se una razionalità logico-discorsiva regolamentata da criteri rigidamente areligiosi e unilateralmente immanentistici, porta a dichiarare non più che insolubile la questione, quasi che la religiosità e l’intima esperienza di una dimensione trascendente della vita non fossero anch’esse momenti integranti di una umana, comune riflessione non solo emotiva ma razionale sui molteplici aspetti e significati del mondo-della-vita, nella prospettiva logico-teoretica di una razionalità più allargata o intesa in senso più ampio in quanto estesa all’uso critico di nozioni e concetti biblico-religiosi, e quindi in una prospettiva, si può dire, più possibilistica, il rapporto di forza tra mortalisti e immortalisti è destinato ad apparire meno standardizzabile e più coinvolgente. In fondo, per riprendere un’immagine usata da Francesco Bacone nei suoi “Saggi”, «gli uomini temono la morte, come i bambini temono di camminare al buio»3 e la temono perché il subentrare improvviso dell’oscurità in un familiare contesto di luminosità non è né qualcosa cui siano abituati, né qualcosa che abbiano facoltà di spiegare in modo rassicurante con adeguate conoscenze, là dove ad oggi non è dato sapere se, tanto gli adulti che i bambini, potrebbero affrontare, l’improvvisa oscurità con animo più tranquillo, sia pure in condizioni esistenziali diverse, se potessero disporre di dati empirici e conoscitivi tali da produrre effetti psicologici e mentali idonei a mitigarne lo stato d’ansia.
Si può pensare che il desiderio di immortalità sia una semplice e più o meno inconscia manifestazione di infantilismo oppure che corrisponda al prodotto di un’erronea costruzione mentale secondo cui tutto ciò che è esistito, esiste ed esisterà, non potrà andare completamente perduto con la sua dissoluzione fisica o materiale ma è destinato a conservarsi eternamente quantunque in forme diverse, oppure, infine, che esso non rappresenti altro che la naturale e indiziaria esplicitazione esistenziale di un’impronta di eternità forse impressa nelle creature umane prima che esse si rivoltassero contro il loro Creatore senza avvertire il bisogno di riconciliarsi sinceramente con lui. Ora, il cristianesimo insegna a credere che chi muore biologicamente essendo ben vivo spiritualmente, cioè in sostanza affidando tutte le sue sofferenze, privazioni, amarezze e sconfitte, le sue stesse colpe, a Dio onnipotente, in realtà resta vivo oltre la tomba, oltre il decesso e i concomitanti fenomeni cadaverici. Alle donne che cercano il corpo di Gesù nell’alba di Pasqua, l’angelo dice significativamente: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Lc 24, 5). Chi muore vivo, risorge, non resta morto, non muore in eterno, oppure, stando agli annunci evangelici di natura escatologica, non torna a vivere solo per vivere da dannato, solo per continuare a fare una vita d’inferno, per continuare a fare esperienza di una vita sommamente infelice. In realtà, nella visione cristiana, può risorgere solo chi abbia accumulato tanta energia spirituale da rompere, per disposizione divina, persino le barriere apparentemente insuperabili della morte in tutte le sue possibili forme, ivi compresa quella peggiore: quella di inerire come sensazione permanente in un vivere eternamente intollerabile.
Solo che per i cristiani, a differenza dei greci, l’immortalità, in un senso o nell’altro, è possibile solo, per l’appunto, risorgendo nella carne e non per via genericamente metafisica e filosofico-teosofica, in quanto già costitutiva dell’anima; è possibile risorgendo sia nel corpo che nell’anima, in uno stato glorioso, che esprime il marchio della benevola onnipotenza divina, oppure in uno stato ignominioso, che esprime il marchio della omnisciente e indefettibile giustizia divina. L’immortalità, per i cristiani, non è un dato che appartenga sin dall’origine, ontologicamente, all’anima, ma è una grazia, un dono concessi da Dio, per quanto riguarda l’immortalità luminosa dei giusti e dei beati, mentre è un castigo o una pena inflitti da Dio agli empi e agli iniqui4. Quello dell’immortalità è un problema che nasce con l’uomo, con la percezione della sua finitezza, della sua precarietà e della sua mortalità. L’uomo, sin dalle origini della sua storia, si è sempre sentito inadeguato rispetto all’illimitata e minacciosa estensione dell’ambiente esterno, della natura, dell’universo, e ha sempre avuto coscienza del fatto che la sua esistenza potesse cessare in qualunque momento, in modo più o meno prevedibile. In altri termini, nel momento stesso in cui provava stupore per l’immensità degli spazi cosmici, per la complessità e la violenza dei fenomeni naturali, egli veniva sperimentando anche la trasformazione del suo stupore in orrore e terrore, in una sensazione di impotenza e di paura derivante dal vedere o dal sentire immersa la sua vita in un costante stato di pericolo.
La filosofia nasce come constatazione immediata prima e come sistematica meditazione poi dell’incontrastabilità, dell’ineluttabilità degli eventi fisico-naturali e, in particolare, di quelle malattie, di quell’invecchiamento, di quella morte che scandiscono i tempi del ciclo naturale di vita di tutti gli esseri viventi e coscienti. La morte sarebbe stata così il grande motivo ispiratore del pensiero filosofico e di tutte le domande esistenziali che da esso e in esso sarebbero state poste: nell’etica, nel politico, nel sociale, nell’economico, nell’arte o nello studio dei processi conoscitivi e storici. Quali che fossero i particolari campi di ricerca, la ricerca filosofica avrebbe sempre recato in se stessa un riflesso della speciale attenzione per la morte venendo mossa da un infrenabile bisogno umano di interrogarsi ogni volta sulle ragioni e sul senso dei vari oggetti di indagine. La convivenza civile, l’organizzazione sociale, il sistema economico, le relazioni interindividuali e interstatali, la vita nell’insieme delle sue manifestazioni e la vita nella percezione soggettiva degli individui: non si sarebbe data problematica in cui e per cui la riflessione filosofica, nelle sue pur numerose e vivaci articolazioni, non si incentrasse sul tentativo di individuare le cause, le dinamiche, i fini dati dei fenomeni o degli eventi studiati e i modi di correggerne o migliorarne il senso e il grado di resistenza alla legge universale che incombe su cose ed esseri viventi: della corruzione, del deperimento, della fine, della morte. Come fare per contrastare e contenere nel modo più efficace possibile gli inesorabili e costitutivi processi corruttivi, disgregativi, demolitivi della vita in generale? Come migliorare la vita individuale e collettiva, munendola di sempre più valide forme di organizzazione politica, sociale, economica e finanziaria, di mezzi sempre più confortevoli di assistenza sanitaria, culturale, spirituale, di spazi ricreativi sempre più gratificanti, di opportunità tecnologiche sempre più vantaggiose, di condizioni sempre più soddisfacenti di sicurezza da minacce interne o esterne alla propria comunità, e incentivandone e potenziandone le fonti e le forme di consapevolezza critica, di creatività, di sensibilità morale e religiosa? A ben pensarci, tutta la civiltà umana è mossa dal desiderio e dal bisogno di porre l’intelligenza, la razionalità, il sapere, al servizio di un universale progetto spirituale di tamponamento, se non di neutralizzazione e blocco delle forze centrifughe e dispersive della vita. Lo stesso interrogarsi sulla morte, sui suoi problemi e sulle sue implicazioni metafisiche o religiose, viene esercitandosi in ragione di una incontenibile, seppur forse inconscia, speranza di vita5.
In questo senso, la nostra vita, i valori, il senso, le finalità che le riconosciamo, dipendono in grandissima parte dall’importanza che diamo alla morte, alla morte come evento e come problema dotati di una duplice valenza: individuale e collettiva. Ma, per quanto grande possa essere, l’importanza attribuita a tale tema non ne riduce certo la natura fortemente problematica per cui da un rigoroso approccio interpretativo a quest’ultimo possono derivarne immagini diverse e dotate di diverso valore esistenziale. Un’immagine è quella della morte come conclusione definitiva di un processo unico e irripetibile di vita, una seconda immagine è quella della morte come conclusione di un ciclo di vita non unico e irripetibile ma possibile tra tanti altri e ulteriori cicli vitali, un’altra immagine è quella della morte come momento intermedio tra una vita vissuta in un involucro totalmente corporeo e una vita vissuta dallo stesso individuo in un involucro totalmente spirituale donde la completa disgiunzione dell’anima rispetto al corpo, e infine e particolarmente rilevante è l’immagine di matrice cristiana della morte come fine di vita mortale e inizio di vita immortale e di vita immortale nella duplice possibile e alternativa forma di vita “pneumatica”, ovvero rivestita di spirito divino e quindi capace di governarne le funzioni fisico-corporee con annessi e connessi appetiti sensibili e sensoriali, e vita “psichica” e “ilica” o “materiale” abbandonata a se stessa e alle sue inclinazioni irrazionali e quindi incapace di elevarsi all’unione-visione beatifica con Dio6.
Nell’ottica cristiana, contrariamente alle concezioni della morte provenienti da altre religioni, filosofie o movimenti culturali che non abbiano subìto influenze sia pure parziali dal cristianesimo, non è possibile una vita ultraterrena di eterna durata che non sia voluta da Dio e la cui qualità non sia determinata dal suo infallibile giudizio. Tuttavia, la fede in una morte che, mentre segna la cessazione di ogni sia pur impercettibile attività di vita, venga agendo misteriosamente in funzione di processi rigenerativi e non più disattivabili di vita, non è fondata né può fondarsi su alcuna esperienza diretta, bensí, e unicamente, su una esperienza indiretta ovvero sulla testimonianza evangelica relativa all’unica esperienza di morte e di risveglio dalla morte che sia mai stato possibile registrare, sia pure tra incredulità e commenti irridenti, peraltro non estranei al comportamento di quanti, ancora oggi, in modo malevolo e perverso usano dubitare delle testimonianze processuali di individui attendibilissimi, nella storia dell’umanità: quella gloriosamente patita e lasciata in eredità da Gesù alla memoria e all’autodeterminazione spirituale dei suoi posteri. Questa esperienza paradigmatica della morte e della vita che risorge dai resti cadaverici oppure oltre i resti cadaverici della morte dimostra, per quanti la ritengano attendibile, non solo che la morte, lungi dall’essere un semplice evento della vita, sia la sua negazione, ma anche che, sia pure per cause avvolte dal mistero e in virtù di processi sconosciuti alla scienza, dalla morte può scaturire ancora vita in abbondanza oppure, come corollario biblico-teologico, una vita cosí infelice da poter essere assimilata ad una permanente esperienza di morte spirituale.
Se per i credenti, la risurrezione da morte costituisce il fondamento più inoppugnabile della loro fede, per i non credenti di fatto essa sarebbe, in effetti, la prova più schiacciante e incontrovertibile dell’onnipotenza divina, ed è proprio tale onnipotenza che molti uomini e donne, preferendo essere dei di se stessi, tendono a rimuovere e a negare fino a quando sia loro possibile. La morte, di conseguenza, viene assumendo significati diversi a seconda che essa venga posta in relazione a Dio oppure ad una natura del tutto meccanica ed impersonale. E anche il valore della relazione della morte con la vita, con la vita morale e spirituale, con la vita relazionale e comunitaria o sociale, dipenderà dal significato che alla morte si vorrà conferire. Non c’è dubbio che, nei casi in cui non sussista alcun collegamento tra la morte e un giudizio divino, la tendenza intellettuale predominante non potrà essere che quella di non arrovellarsi troppo sulla natura e sulla qualità dei propri pensieri e delle proprie azioni e di rendere quanto più possibile funzionale il proprio modo di pensare e di agire principalmente ai propri interessi pratici e, più o meno, egoistici, mentre, nei casi in cui tale collegamento sussista, non risulterà possibile evitare, se non a prezzo di incoerenza personale, di sottoporre ad un severo e assiduo esame di coscienza la propria condotta pubblica e privata per misurarne o verificarne il grado di adesione alla Parola di Dio persino nelle situazioni in cui la difesa a spada tratta, e possibilmente incruenta, delle proprie ragioni e dei propri interessi dovesse sembrare, sul piano morale e religioso, non solo legittima ma doverosa.
Però, per cogliere il senso specifico dell’intenzionalità esistenziale e religiosa d’ispirazione cristiana, sottesa alla realtà e al concetto della morte, è necessario riflettere su alcune sue implicazioni forse non immediatamente evidenti. Infatti, poiché è legittimo pensare che l’attaccamento a questa vita e a questo mondo possa, tra credenti e non credenti, non essere avvertito da tutti nello stesso modo o con la stessa intensità per ragioni esistenziali non semplicemente legate al tenore di vita, al godimento di privilegi e onori terreni, di rapporti affettivi e relazionali oltremodo soddisfacenti e a quant’altro si possa aggiungere in chiave utilitaristica, ma anche connesse a fattori caratteriali, introspettivi, psicologici e spirituali di diversa e sconosciuta origine, va da sé che la percezione della vita, del significato e del valore della vita, e il relativo attaccamento ad essa, per quanto da tutti condivisi, non per tutti siano identici e vissuti con pari accanimento. Può darsi, di conseguenza, che per alcuni, anche ma non solo in relazione alle condizioni in cui avranno vissuto, questa vita non sia stata o non sia ancora propriamente vita, ma vita in senso molto restrittivo se non in senso persino punitivo o depauperativo, e non valga la pena di accomiatarsi tristemente o nostalgicamente da essa, mentre per altri, evidentemente appagati dal solo fatto di esistere, questa vita venga vissuta come l’unica vita possibile, come la vita e come una vita a cui non appare pertanto ragionevole rinunciare in cambio di altre vite opinabili o immaginarie.
Tutto ciò, in un’ottica fenomenologica, comporta che solo nel primo caso la coscienza, e una coscienza coinvolta in un continuo processo di conversione della verità apparente dei sensi e dell’opinione alla verità eidetica della ragione, tenderà a cogliere l’essenza della morte nel suo essere diversa da come appare, e quindi non già nel suo essere pura impossibilità di vita ma campo di ulteriori possibilità di vita e di vita diversa da quella precedente e diversa in senso migliorativo o peggiorativo rispetto a quella precedente7. Di vita diversa significa, per esempio, di vita infinita rispetto a quella finita della terrestrità, di vita eterna rispetto a quella contingente della storicità, di vita beata o felice o festosa rispetto a quella pur sempre ripetitiva, banale e scialba della mondana e ordinaria relatività. Non si tratta di mettere in discussione l’oggettività della morte, l’indipendenza della sua fatticità rispetto ai procedimenti del pensiero e della coscienza, ma i modi in cui l’oggettività e l’indipendenza della morte e della mortalità possono essere colti e determinati in senso conoscitivo. La morte può offrirsi all’io o al suo sguardo o può essere percepito dall’io o dal suo sguardo in modi diversi, allo stesso modo di come l’oggettività mondana può darsi alla ragione soggettiva secondo prospettive diverse o contrapposte8. Da un punto di vista critico-fenomenologico, il problema è quindi quello di stabilire se il significato della morte in quanto fenomeno che si dà nel suo apparire, nella sua sussistenza empirica, a una coscienza ingenua, irriflessiva, coincida o non coincida, ed eventualmente in che misura, con il significato eidetico della morte nel suo darsi come fatto o evento da intenzionare e intenzionato fenomenologicamente da una coscienza a sua volta depurata dai suoi condizionamenti empirico-fattuali e dunque non più operante in quanto coscienza empirica ma in quanto oggetto di conversione fenomenologico-trascendentale ovvero in quanto coscienza pura.
In virtù di un siffatto approccio fenomenologico, il problema del senso della morte, lungi dal risultare suscettibile di chiusure dogmatiche o di interpretazioni unilaterali, rimane selettivamente aperto ad una pluralità di soluzioni o di risposte possibili, consentendo alla coscienza, nella molteplicità e nella varietà delle sue forme soggettive, di optare per la soluzione o la risposta più consona al suo vissuto o ai suoi vissuti personali. L’esito derivante da una analisi di questo tipo è che nel mondo si continua oggettivamente a morire ma anche che i modi in cui in esso si continua a morire sono soggettivamente diversi pur se virtualmente dotati di un diverso grado di legittimità epistemica. Se il senso della morte consista nell’essere la morte l’epilogo di ogni possibilità di vita o nel porsi come orizzonte muto di inedite e pur enigmatiche possibilità di vita, se la morte sia solo una fine senza scopo oppure una sosta radicale di un infinito processo di vita, se essa sia frutto di pura e meccanica casualità cosmica oppure sia intrinsecamente collegata a qualche realtà trascendente, sono tutte questioni fenomenologicamente aperte ma non per questo tutte necessariamente legittime sotto il profilo etico e spirituale. Se la vera intelligenza non è solo quella della mente ma quella di una mente sempre ispirata ed orientata dal cuore, sede centrale di governo razionale nell’uomo, bisognerà ancora attendere che qualche imprevedibile avvenimento faccia irruzione nella storia degli uomini e ne sconvolga ancora una volta quadri mentali e categorie di giudizio per stabilire quale o quali di tali questioni siano state poste più correttamente o più erroneamente, il che nel frattempo non esime affatto gli individui e i popoli dalla responsabilità intellettuale e morale di esercitare rettamente la propria capacità di discernimento e scelta spirituale.
Tuttavia, bisogna prendere atto che siano sempre meno le persone che si prendono cura della morte, riflettono sulla morte, vivono e agiscono pensando alla morte. La ragione è che, come osserva il filosofo americano Shelly Kagan, la gente tende ad esorcizzare la morte, rimuovendola costantemente, con occupazioni quotidiane di vario genere e con ragionamenti illusori e rassicuranti a sfondo religioso, dai suoi pensieri e dalla sua vita9. Ma, in realtà, per il filosofo americano, la paura irrazionale della morte non può essere arginata dalle rimozioni psichiche, che contribuiscono solo a spostare in avanti, a rinviare di continuo il problema senza padroneggiarne criticamente i contenuti ansiogeni di cui poi si sia costretti a subire indefinitamente l’influsso destabilizzante. A suo giudizio, il tema della morte, della natura della morte e delle credenze religiose ad esso relative, al fine di non essere più vissuto come qualcosa di esistenzialmente innaturale, necessita non già di approcci volti a proteggere artificiosamente, palliativamente, la psiche dal trauma dell’evento morte, in particolare per quanto riguarda la morte prima o poi inevitabile di se stessi, ma di una grande e coraggiosa operazione verità finalizzata a rendere coscienti gli individui non già della presunta innaturalità della morte quanto della reale innaturalità del loro atteggiamento mentale ed emozionale di fronte alla morte, che ora è più lontana ma che, un attimo dopo, potrebbe essere molto più vicina.
Il problema della morte, in tal senso, va considerato freddamente, da un punto di vista esclusivamente «secolare, laico», senza consentire a determinate tradizioni filosofiche e religiose, alla stessa religione rivelata del cristianesimo, di interferire nell’analisi e nella valutazione degli elementi oggettivi e costitutivi della questione in esame, là dove il principale di tali elementi, di tali dati di fatto, è costituito dall’assoluta naturalità del morire, dal non essere il morire meno naturale del nascere e del vivere. Se morire è qualcosa di perfettamente naturale, non appare ragionevole averne paura o terrore e non appare neppure ragionevole dubitare che la morte significhi nient’altro che la distruzione del mio corpo e della mia anima. Per Kagan, la morte è talmente naturale, come il mangiare, il bere, il dormire, che in talune particolari circostanze possa risultare persino lecito e conveniente procurarsela deliberatamente, ricorrendo al suicidio o all’eutanasia. In fin dei conti, la morte non è così problematica, così misteriosa, secondo quanto emergerebbe da centinaia e centinaia di studi, trattati, convegni: è un fatto molto più ovvio, banale, di quanto non si voglia ammettere, in quanto l’uomo è una semplice macchina che, per quanto complessa, meravigliosa e capace di assolvere funzioni molto speciali e sommamente gratificanti, prima o poi, si consuma, si guasta, si rompe e muore. Forse qualche teorico del postumanesimo o transumanesimo potrebbe osservare che, se una macchina viene usata e conservata con cura, se viene sottoposta ad attenta, costante e scrupolosa manutenzione, essa potrebbe durare anche in eterno o, almeno, per moltissimo tempo, ma la faccenda è più complicata di quel che pensa Kagan e, in un diverso contesto tematico, i post o transumanisti.
Perché? Semplicemente perché l’uomo non è una macchina: dare per scontato che lo sia significa ritenere ovvio ciò che ovvio non è o non è facilmente dimostrabile che lo sia. Una macchina funziona in modo meccanico, sulla base di automatismi tecnici e di un progetto tecnologico programmato per l’espletamento o l’esecuzione di un certo numero di funzioni e in modo rigorosamente ripetitivo. L’uomo, se si vuole, ha anche una sua intrinseca perfezione e funzionalità biomeccaniche, ma l’apparato motorio di cui consta non è opera dell’ingegno umano bensì, direttamente, della natura oppure di Dio, visto che anche qui, a differenza di quanto sostenuto da Kagan, non c’è proprio niente di scontato. Il filosofo americano, probabilmente affetto da veteromaterialismo-meccanicistico di origine lamettriana10, pensa di proporre forse una tesi originale e, nella sua estrema semplicità, sensazionalistica, quando afferma che la vita umana finisce ineluttabilmente e dopo non c’è più niente, non ci sono né misteri da svelare, né luci bianche da raggiungere. Libero di pensarlo, ma solo replicando dogmaticamente alla dogmatica cristiana e cattolica che in vero è ben più attrezzata e meno semplicistica, sullo stesso piano storico e critico-teoretico, di certo semplicistico dogmatismo di estrazione laicista.
In particolare, è ben strano che questo accademico americano, contentandosi di riconoscere l’importanza della morte solo in funzione di una proficua riflessione immanentistica sulla vita, non consideri degna di rientrare in un punto di vista laico la risposta offerta sulla morte dalla rivelazione evangelica, quasi che quest’ultima non abbia legami con la razionalità e il sentire morale e spirituale degli esseri umani, e quasi che la cultura cristiana non fosse, a pieno titolo, parte integrante e costitutiva della cultura occidentale e di tutto il genere umano. Kagan si richiama alla posizione espressa da Thomas Nagel che, da una parte, aveva considerato l’esperienza della vita come intrinsecamente positiva, dall’altra aveva identificato l’esperienza della morte con il momento più negativo della vita, con il momento di dissoluzione della vita stessa e quindi di cessazione di ogni possibilità-opportunità di fare esperienza di processi vitali come il pensare, il comunicare, il desiderare, l’amare, tutte manifestazioni di vita di cui l’individuo sarà privato con il sopraggiungere della morte, pur non giungendo ad una radicale negazione di una qualsiasi ipotetica possibilità di vita anche dopo la morte. Il male della morte consiste essenzialmente, per Nagel prima che per Kagan, in una mancanza (esistenziale) di futuro11. In realtà, anche in questo caso sembra insorgere una difficoltà di natura logica. Nagel muove dall’assunto primario dell’inesistenza di alcuna possibilità di vita con e dopo la morte, e, senza scomodare la Rivelazione, che è ciò che tanto Nagel quanto Kagan vogliono scongiurare, si spinge tuttavua a concedere che potrebbe anche ammettersi in modo molto astratto la possibilità post mortem di una qualche informe o atipica esperienza di vita, sebbene ritenga molto difficile immaginare che il defunto, pur non riducendosi la sua attività di coscienza alla sua attività cerebrale (questa è la tesi sostenuta da Nagel che avrebbe suscitato molto scalpore non solo nella comunità filosofica ma anche in quella medico-scientifica), potrebbe fare una qualche esperienza di vita riconoscendola come tale in condizioni biologiche e cerebrali completamente diverse da quelle in cui si trovava quando era ancora in vita.
Scrive Nagel nella sua “introduzione alla filosofia”: «la vita mentale dopo la morte richiederebbe la restaurazione della vita fisica, biologica: richiederebbe che il corpo ritorni in vita. Questo potrebbe un giorno diventare tecnicamente possibile: potrebbe diventare possibile congelare il corpo delle persone quando muoiono, e più tardi riparare tutto ciò che non va in loro tramite procedure mediche avanzate per riportarli in vita. Anche se questo diventasse possibile, vi sarebbe ancora la questione se la persona riportata alla vita parecchi secoli dopo saresti tu o qualcun altro. Forse, se fossi congelato dopo la morte e il tuo corpo fosse resuscitato più tardi, non saresti tu a svegliarti, ma solo qualcuno molto simile a te, con memorie della tua vita passata. Ma, anche se diventasse possibile la resurrezione dopo la morte dello stesso te nello stesso corpo, non è questo che si intende di solito con vita dopo la morte. La vita dopo la morte di solito significa vita senza il tuo vecchio corpo»12. In questo senso, il filosofo di origine serba, con queste obiezioni e con queste considerazioni confutatorie, tende dunque ad escludere che possa darsi vita in pienezza, vita come coscienza di vita identica a quella che il defunto aveva sperimentato prima di morire, ma il suo ragionamento va ugualmente incontro ad una difficoltà insuperabile, quella per cui una vita risorta e integralmente risorta non è logicamente possibile in un laboratorio di ingegneria medica computerizzata mentre sarebbe logicamente possibile per effetto di un’attività sovrannaturale pur sconosciuta ma che Nagel si ostina, contraddittoriamente, a non voler prendere in considerazione, mentre, piaccia o non piaccia, di tutto ciò di cui, non avendone alcuna esperienza empirica, non si può parlare, si deve wittgensteinianamente tacere. Non è possibile in pari tempo affermare che, sulla base della comune esperienza empirico-fattuale, l’esperienza della morte è l’esperienza del nulla o della non vita, e negare, in totale assenza di condizioni di esperibilità, che a quella stessa esperienza del nulla o della non vita possa subentrare un’esperienza di vita mentale immersa in un corpo contemporaneamente identico e diverso rispetto a quello “vecchio” della vita antecedente la morte, in un corpo denominato glorioso dall’apologetica cristiana. Non si può affermare ma non si può negare: questo esige la logica e questa è la difficoltà logica in cui pare incagliarsi l’impegnativa riflessione nageliana.
D’altra parte, c’è chi, come Robert Nozick, assume sul tema una posizione più circoscritta di quella testè illustrata, limitandosi a qualificare la morte come male non sempre e comunque ma solo nel caso in cui essa subentri quando un individuo deceda senza aver potuto soddisfare bisogni esistenziali primari di vita e senza aver potuto espletare in modo adeguato il proprio impegno intellettuale, morale ed etico-civile. Quanto più completa, cioè realizzata secondo determinate aspettative individuali e attraverso un pieno e libero esercizio della propria razionalità, tanto meno è possibile sostenere che la morte sia un male: Robert Nozick dice che la morte non è un male se nel corso di una vita siano state realizzate «le cose importanti» della vita stessa13. Ma quali possano essere oggettivamente le cose importanti della vita è molto difficile stabilire, non perché non esistano cose più importanti e cose meno importanti o per niente importanti, ma perché su questo tema ognuno avrà idee differenti e dipendenti da diversificate e specifiche esperienze educative e formative, da eterogenee scelte culturali e spirituali o religiose, da particolari e imprevedibili contingenze di vita, salvo facendo tuttavia, come detto, il valore più universale ovvero l’opportunità per tutti e ciascuno di finalizzare il proprio vivere all’equilibrato soddisfacimento delle proprie aspettative esistenziali attraverso un uso saggio e proficuo della propria capacità di discernimento.
Al di là di questa opinabile ma umanamente comprensibile specificazione della morte come male non in generale ma in quanto arresto prematuro di una vita ancora ricca di inespresse possibilità creative sul piano intellettuale e operative sul piano etico-relazionale, non si può tuttavia non evidenziare come la morte, su un più generale piano metafisico-esistenziale, conservi pur sempre il suo essenziale e intrinseco significato deprivatorio, evidenziato da Nagel, quantunque non semplicemente nel senso da questi inteso di privazione di qualunque possibilità di vita, ma soprattutto nel senso di autoprivazione costitutiva della stessa condizione creaturale di finitezza dell’essere vivente. Donde possono scaturire due contrapposte vie interpretative: quella che porta a concepire la morte come tratto ontologico e costitutivo della vita naturale che viene svolgendosi e consumandosi nel mondo storico ma in tal caso non se ne potrebbe parlare come di un male, oppure quella che colloca la vita creaturale in un contesto più ampio di vita possibile e dunque di natura divina rendendo così coerente il giudizio per cui la morte sia un male rispetto alla vita normalmente e non traumaticamente vissuta di individui creaturalmente condannati a scontare il prezzo non già della propria finitezza ma di una finitezza colpevolmente volta ad ignorare e a sfidare l’infinita grandezza di Dio, suprema e unica sorgente di ogni vita possibile e reale. Ora, se la morte è solo quella che si può constatare empiricamente, senza nessun collegamento con realtà e ragioni trascendenti, francamente non vedo come, a dispetto di tanta letteratura filosofica esistente sull’argomento, essa possa incidere significativamente sulla riflessione individuale e collettiva relativa alla vita, ai modi di concepirla, di affrontarla, di valutarla, ai modi di impostare i rapporti con gli altri e con gli eventi quotidiani, alle scelte valoriali e spirituali che si pongono alla base dell’agire nella società, alle idee circa il senso della vita stessa e circa il destino degli individui, a cominciare dal proprio io, e della specie umana. Tutto questo è possibile fare, tutte queste domande introspettive, di natura tanto privata che pubblica, è possibile o doveroso porre su un piano culturale e spirituale, a prescindere da una riflessione sulla morte se per morte si intenda la fine di tutto e un evento che non rivesta altro che un significato biologico.
Al contrario, se la morte venga relazionata ad un discorso di carattere religioso e, più segnatamente, cristiano, un rapporto tra la riflessione sulla morte e la riflessione, verosimilmente correttiva o integrativa dal punto di vista intellettuale ed etico-comportamentale, sul proprio modo di pensare, di essere, di agire e di amare e, soprattutto, di rappresentarsi Dio e di dialogare con Dio, può apparire indubbiamente molto più stringente. Mi sembra abbastanza vero quello che ha scritto un filosofo cattolico sul rapporto di estraneità che la cultura laica contemporanea di indirizzo agnostico o marcatamente ateo è venuta instaurando rispetto alla morte: «La morte in verità costituisce un’anomalia, un’insopportabile incongruenza per la cultura contemporanea. Non rientra tra i problemi che ritiene importanti, non fa parte delle categorie che caratterizzano il suo apparato concettuale, non è tenuta in alcun conto dalle concezioni ideologiche dominanti, è incomprensibile tanto per le scienze della natura quanto per le scienze umane, sfugge al controllo della tecnica. È il solo evento umano che, pur essendo per tutti certo ed insormontabile, non è per nessuno prevedibile. E perciò si sottrae non soltanto a qualsiasi tentativo di ipotizzare quando e dove si verificherà, ma anche a qualsiasi progetto di pianificazione, di programmazione. La morte inoltre contravviene al rigido ordine razionale che, alla luce degli straordinari successi raggiunti dalle scienze che si occupano dei fenomeni naturali, si presumerebbe di poter rinvenire anche tra le cose umane, tra gli accadimenti che scandiscono l’esistenza sia a livello individuale che sociale.
Per la cultura contemporanea la morte inoltre è un avvenimento del tutto assurdo. Non sa rispondere infatti all’interrogativo che concerne il senso, la ragione del morire. E, come è noto, non si tratta di un interrogativo qualsiasi o di uno di quelli nei confronti dei quali si può applicare il criterio neopositivistico secondo cui delle domande a cui non si è in grado di rispondere si deve dire o che sono mal poste oppure che riguardano problemi non veri, non autentici. La morte infatti esiste: è dianzi agli occhi di tutti, ogni giorno, ogni istante. Ma appunto perché non riesce a dominarla, a ricondurla entro la logica di un pensiero che tutto vuole chiarire e di tutto pretende di rendere conto, la cultura contemporanea preferisce ignorarla, rimuoverla dalla sua attenzione, dai suoi interessi, relegandola tra gli eventi imprevedibili, misteriosi della vita»14.
La morte naturalistica, areligiosa, priva di possibili sviluppi oltremondani, si pone essenzialmente come negazione della universalità razionale di qualsivoglia verità e valore sostenuti dalla cultura laica di segno storicistico-immanentistico, in quanto, se la morte decreta non solo la fine della vita terrena ma l’assoluta insussistenza di ulteriori possibilità di vita, e quindi di verità, libertà, uguaglianza, solidarietà oltre essa, resta solo il relativismo nichilistico del pensiero moderno e postmoderno che però, in rapporto ad una morte non spiegata al di là delle sue apparenze fenomeniche e non in-tesa con uno sguardo eidetico-fenomenologico nelle sue pur nascoste ed enigmatiche possibilità di senso, e anzi spiegata solo contraddittoriamente sulla base di un’asserzione tanto perentoria quanto logicamente ed empiricamente incontrollata, non ne esce certo rafforzato ma razionalmente ed eticamente ingiustificato e radicalmente inadatto ad interrogarsi sul senso ultimo di questa vita e di questa storia. Se, come sostiene, gran parte della intellettualità laica contemporanea, l’assoluto non esiste, perché dovrebbero esistere le certezze e gli assoluti da essa contraddittoriamente enunciati nel segno di una estrema relatività conoscitiva? Come potrebbe pretendere la tesi di tale relatività di valere più di altre, diverse o opposte, tesi?
Beninteso, non si tratta di voler forzare il senso polemico dell’obiezione sino a voler pretendere la pacifica asseribilità logica dell’assoluto, ma semplicemente di evidenziare quanto meno la plausibilità logico-congetturale della posizione di chi ritenga possibile, se non apoditticamente esistente, l’assoluto e l’assoluto dotato di specifiche e non generiche determinazioni ontoteleologiche. Peraltro, della morte, della morte soggettiva, dei modi in cui il malato o il moribondo possano essere aiutati ad affrontare una morte ormai imminente parla, delle tecniche che possano facilitare la transizione da una vita psico-corporea gravemente compromessa ad una morte quanto più possibile non traumatica, non certamente degli aspetti etici, spirituali, religiosi implicati dalla morte, si scrive moltissimo: basti pensare alle ricerche torrentizie ad essa dedicate da specialisti e studiosi delle diverse branche delle scienze umane e medico-sperimentali. Ma questo fervore di studi, di iniziative editoriali, di pubbliche discussioni, è solo indicativo del fatto che oggi la morte è trattata come una moda. Lo scriveva con chiarezza, diversi decenni or sono, Jean-Marie Domenach, un vecchio amico di Emmanuel Mounier: «la mort est à la mode»15. Naturalmente, la comunità umana può anche decidere di vivere alla giornata, di navigare senza una rotta precisa, omettendo di riflettere seriamente su una questione particolarmente impegnativa che la ragione, a differenza di tante altre questioni attinenti la realtà certa dell’al di qua ma non la realtà meramente ipotetica dell’al di là, percepisce come sfuggente e impenetrabile, nel constatarne non solo la complessità, che è propria di tanti altri oggetti di indagine, ma la totale inafferabilità logico-concettuale come inafferrabile è tutto ciò che, pur esistendo in modo oggettivo, non è né visibile né avvistabile persino con i più potenti e sensibili strumenti scientifici di rilevamento o intercettazione. Tuttavia, in tal modo, non si può forse sostenere che vengano utilizzate al meglio tutte le potenzialità, ivi comprese quelle più segrete e inattese, della ragione umana.
La civiltà umana, proprio in virtù di sfide lanciate con profonda fede razionale e spirituale contro un ignoto apparentemente inaccessibile per via intellettuale e scientifica, è venuta spesso arricchendosi di vantaggi inimmaginabili come quelli scaturiti da semplici esperimenti mentali, da esplorazioni intuitive di apparente natura immaginaria, da viaggi ostinati e persino temerari verso mete totalmente sconosciute ma poi rivelatesi non solo conoscibili e reali ma immensamente preziose per il benessere dell’umanità. Ciò che manca in quella che sarebbe certamente l’impresa conoscitiva più difficile e tormentata di sempre è appunto la fede, una profondità di fede in facoltà conoscitive forse impercettibili ma non necessariamente inesistenti dello spirito umano. Che questa fede sia di origine anche religiosa non è da considerare come qualcosa di pregiudizievole ai fini di una legittima ricerca razionale, essendo innegabile che i contenuti della fede religiosa di matrice evangelica, certo depurati da elementi mitici e da credenze palesemente fantasiose o superstiziose, attraversino in lungo e in largo aspetti e piani centrali e vitali della vita razionale e pratica degli esseri umani. Infatti, non c’è niente di irrazionale nel pensare che l’unica possibilità di vivere possa individuarsi in una ragionevole seppur audace postulazione di un Ente, di una Causa, di una Struttura originaria e infinitamente generatrice di vita, dotati del potere di trasformare, se non di allungare, indefinitamente una vita ormai consunta per il naturale esaurimento della carica espansiva impressa nell’organizzazione genetica del suo essere, senza intaccarne le caratteristiche identitarie ma semmai sviluppandole ulteriormente nel quadro di un’esistenza senza fine. Chi confidi in una simile prospettiva, naturalmente, deve poi potersi impegnare con tutte le sue forze di mente e cuore per poter affrontare la più temibile delle navigazioni possibili, quella attraverso la morte, nella speranza di approdare, nonostante la fragilità dei propri mezzi e al di là di prevedibili contrarietà legate a scenari completamente sconosciuti, ad una meta, ad una realtà, ad una nuova terra e a un nuovo cielo, della cui oggettiva esistenza il coraggioso navigatore, semplicemente armato di fede nei suggerimenti più spontanei e basilari della sua intelligenza e della sua coscienza spirituale, non abbia mai inteso dubitare.
Secondo questo approccio interpretativo, la morte, ancor più che in tanti altri ambiti di ricerca e scoperta razionali e scientifiche, può diventare campo tematico privilegiato di convergenza tra fede razionale nella conoscibilità del reale e fede spirituale nella razionalità di un logos divino acquisito massimamente per via di rivelazione. E’ difficile considerare una semplice divagazione intellettuale la pur impegnativa affermazione di Walter Benjamin secondo la quale: «o si pensa teologicamente, o non si pensa abbastanza»16. Naturalmente, le lezioni del logos divino non sono così autoritarie e ingiuntive, così bisognose di assenso e consenso umani come lo sono invece tante lezioni accademiche di scienza, filosofia o teologia, in quanto, come è stato giustamente osservato, la più grande lezione divina consiste nel fatto che «Dio non impone mai la sua rivelazione all’uomo, ma gliela consegna, rispettando i tempi dell’apprendimento, a costo di vederla poi rifiutata, come un dono proporzionale alle sue capacità, alla sua carne, al suo sangue, alla sua mente, cioè, in modo globale, alla sua vita»17. E, proprio per questo, a nessun individuo potrà mai essere negata l’opportunità di adeguarsi alle relativistiche verità dei più avanzati saperi mondani o, in alternativa, di fidarsi di un Logos divino che, al di là di tutte le verità proclamate tali dagli uomini, ne sancisca, direttamente o indirettamente, la legittimità o la più irredimibile arbitrarietà. Ma resta il fatto che la morte, solo nel quadro di una concezione non meramente immanentistica del suo ineluttabile e letale incombere sulla vita, può garantirci una difficile e tuttavia ragionevole speranza di vita, non più semplicemente di vita precaria e soggetta a mortalità ma di vita finalmente sicura, stabile e immortale18.
Nella fine potrebbe essere l’inizio: di una nuova vita, di una nuova umanità, di un nuovo e definitivo modo di pensare e di vivere, proprio per effetto non già di una democratica ma difettosa o impura sapienza umana ma di una monocratica e santa scienza divina. Ma poiché il vivere implica intrinsecamente e ambiguamente tanto la possibilità di sentire, sperimentare, farsi partecipi di processi di continuo approfondimento conoscitivo e di comunicare in senso amorevolmente cooperativo con un’ampia e diversificata comunità spirituale, quanto anche la possibilità di una volontà di non vita, di rinuncia alla vita o ad un insieme di attività personali regolamentate da princìpi che, ad esse inerenti, le rendano possibili appunto come espressioni di vita rigogliosa o in pienezza, anche in quel caso, ovvero nel caso di una radicale ed eternizzante ricostituzione delle vite individuali provvisoriamente esauritesi nei loro cicli terreni, la vita postmondana o extrastorica potrebbe corrispondere per gli individui, in conformità al noto modello evangelico-escatologico di vita, alla loro precedente e ambivalente scelta: di vita razionale, virtuosa e santa oppure di vita insensata, perversa ed empia. Con la prima opzione ci si potrebbe trovare dotati della facoltà di accedere a quella che le narrazioni neotestamentarie qualificano come vita celeste, vita beata, vita eterna, con la seconda opzione ci si potrebbe trovare immersi in una vita talmente triste, desolata, infelice, infernale, e risultante da pregresse forme irrazionali, nocive e improduttive di vita, da poter far rimpiangere di aver voluto infrangerne in modo ostinato, nel corso del ciclo terreno, leggi e princìpi costitutivi. Si è qui tentato, in modo sicuramente imperfetto ma intenzionalmente volto a non trascurare l’esigenza che anche i contenuti apparentemente più fantasiosi della fede siano oggetto di dignitosi approcci ermeneutici, di tradurre in termini di razionalità teoretica la razionalità espressa ateoreticamente, con linguaggio immaginifico e simbolico, nel contesto biblico-escatologico. Le forme di vita ultraterrena elaborate dal cristianesimo vengono spesso equiparate a costruzioni fiabesche, irreali e, in ogni caso, a tematiche profondamente anacronistiche e inattuali, in quanto largamente superate, in apparenza, dai tumultuosi progressi scientifici e tecnologici del nostro tempo, ma, come spesso accade, anche in questo caso bisognerà attendere ancora un po’ per stabilire definitivamente se esse siano o non siano realtà solo mistificatoriamente centrali del destino individuale e collettivo dell’umanità19.
L’esperienza della morte, a differenza del morire che è ancora un momento della vita e di cui ogni singolo è condannato a fare esperienza mentre sta per esalare l’ultimo respiro, può essere solo vissuta, non descritta, in quanto fino a quando l’individuo ne parla, non ne ha avuto ancora diretta esperienza, mentre, una volta che egli muoia, non può più parlarne. Perciò la morte come radicale distacco dalla vita vissuta non può essere descritta, non può essere definita né determinata linguisticamente e concettualmente20. Essa trascende ogni possibilità umana di appropriazione razionale concedendosi nella sua enigmatica realtà solo come oggetto di fede, spirituale e razionale ad un tempo. La morte rientra nello spazio del sacro, dell’innominabile, dell’invisibile, dell’inesperibile, almeno nelle attuali condizioni spazio-temporali oltre le quali ad alcun umano è concesso di teorizzare autonomamente forme alternative e tuttavia ancora identitarie di vita ma solo eteronomamente, utilizzando, come possibili elementi indiziari della sua interiore ricerca, i dati, anch’essi espressione di trame o percorsi se si vuole atipici di razionalità, di qualche autorevole “rivelazione sacrale” o, più specificamente, della meno impersonale delle “rivelazioni divine”, ovvero della rivelazione cristiana21.
Tuttavia, ciò che non si vede con i sensi e non è afferrabile con il pensiero critico-discorsivo se non, come detto, come oggetto di congettura logico-razionale e di fede razionale e spirituale o religiosa, non può considerarsi o definirsi necessariamente come inesistente, anche in considerazione del fatto che la possibilità stessa di intravedere e captare qualcosa di non immediatamente o non direttamente percepibile è oggi più che mai ostacolata e spesso vanificata da una società che pensa di avere in se stessa e nel proprio sapere tecnologico tutto quel che necessita alla sua sussistenza umana e alla sua consistenza valoriale, da una società anonima e costituita da individui senza identità, senza radici, senza nome e senza anima, semplicemente vaganti in uno spazio umano privo di rotte stabili e sicure, di scopi per cui valga davvero la pena di vivere e morire: in una società siffatta, abbagliata dalle luci di una cultura ricca solo di conoscenze effimere e di falsi valori, come potrebbe l’invisibile essere avvistato, come l’innominabile potrebbe manifestare il suo nome?22 Come potrebbe diventare intellegibile, in particolare, la verità ormai più innominata e dissacrata della civiltà occidentale: quella per cui il Cristo di Dio abbia potuto realmente inseminare di eternità la vita mortale degli uomini: eternità di comunione con il Padre o di divisione dal Padre?23.
NOTE
1 Contro la fantasiosa utopia transumanista che vorrebbe accrescere indefinitamente l’essere umano riducendone o eliminandone tecnologicamente i limiti psichici e corporei, resiste ancora saldamente il concetto cristiano di risurrezione e di immortalità dell’anima e del corpo nella loro forma originaria e naturale, nella loro matrice identitaria, seppur gloriosamente trasfigurate: A. Paul, Immortalità o risurrezione? Affacciarsi oggi sull’oltrevita, fra utopia e fede, Brescia, Queriniana, 2019.
2 J. O. Weatherall, La fisica del nulla. La strana storia dello spazio vuoto, Torino, Bollati Boringhieri, 2017; G. Lohfink, Alla fine il nulla? Sulla risurrezione e sulla vita eterna, Brescia, Queriniana, 2020.
3 “Men fear death as children fear to go in the dark”, in F. Bacon, Essayes or Counsels, Civill and Morall Newly enlarged, London, Printed by Iohn Haviland for Hanna Barret, and Richard Whitaker, 1625, Of Death, p. 6.
4 R. Penna, Quale immortalità, Tipologie di sopravvivenza e origini cristiane, Roma, San Paolo Edizioni, 2017; O. Cullmann, Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti? La testimonianza del Nuovo Testamento, Sesto San Giovanni (Milano), Editoriale Jouvence, 2022.
5 N. O. Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Milano, Adelphi, 1964.
6 Ch.-A. Bernard, Teologia spirituale, Roma, San Paolo Edizioni, 2002; J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique. Essai sur la doctrine spirituelle de saint Grégoire de Nysse, Paris, Aubier, 1944; J. Mouroux, L’esperienza cristiana. Introduzione a una teologia, Morcelliana, Brescia, 2022; M. Olphe-Gaillard, Les sens spirituels dans l’histoire de la spiritualité, in AA.VV., Nos sens et Dieu. Etudes Carmélitaines, Bruges-Paris, Desclée de Brouwer, 1954, n. 43, 179-193; K. Rahner, Le début d’une doctrine des cinq sens spirituels chez Origène, in “Revue d’Ascétique et de Mystique”, 1932, n. 13, pp. 113-145 e La dottrina dei “sensi spirituali” nel Medioevo, in Teologia dall’esperienza dello Spirito. Nuovi saggi. Dio e rivelazione, Roma, San Paolo Edizioni, 1978, pp. 165-208; A. Stolz, Teologia della mistica, Brescia, Morcelliana, 1940.
7 E. Fancelli, Esistenza e morte. Contributo fenomenologico, Todi, Tau, 2020; P. L. Landsberg, L’esperienza della morte, Trento, Il Margine, 2011; A. A. Bello-A. M. Sciacca, Ti racconto l’aldilà. Fenomenologia della vita umana «ante mortem e post mortem», Roma, Castelvecchi, 2023.
8 Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino, Einaudi, 1965, pp. 72-74, p. 78 e tutto il primo capitolo, pp. 57-67.
9 S. Kagan, Sul morire. Lezioni di filosofia sulla vita e la sua fine, Milano, Mondadori, 2019. Una buona sintesi del libro di Kagan è quella di D. Banfi, Sul morire (secondo Shelly Kagan). Lezioni di filosofia sulla vita e la sua fine, pubblicata nel suo stesso sito on line, 11 ottobre 2021.
10 Si ricordi l’opera L’homme machine composta nel 1747dal filosofo La Mettrie. Rispetto all’epoca in cui La Mettrie scriveva sull’uomo macchina la medicina, la fisiologia, la neurologia, la scienza in generale, hanno conosciuto progressi straordinari che evidenziano, tra l’altro, a monito di talune pretese creazionali transumanistiche, come l’uomo sia una macchina talmente complessa, speciale e non replicabile in modo integrale, da non poter essere propriamente definita macchina o annoverata tra le macchine inventate e costruite dall’uomo.
11 Insistenti riflessioni ha esercitato T. Nagel sul rapporto-confronto tematico vita-morte in opere come: Questioni mortali. Le risposte della filosofia ai problemi della vita, Milano, Il Saggiatore (1979), 2015; Lo sguardo da nessun luogo, Sesto San Giovanni (Milano), Il Saggiatore, (1986) 2018; Una brevissima introduzione alla filosofia, Milano, Il Saggiatore (1997), 2014.
12 Th. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Milano, Il Saggiatore (1997), 2014, pp. 51-52.
13 R. Nozick, La vita pensata. Meditazioni filosofiche, Milano, Rizzoli, 2004, p. 19 e sgg.
14 A. Pieretti, La morte e il senso della vita nella cultura contemporanea, in AA.VV., Amore, morte e risurrezione, Edizioni “L’amore misericordioso”, Collevalenza (PG), 1985, Atti del IV° Convegno Internazionale organizzato a Collevalenza dal 27 al 30 agosto 1984.
15 J. M. Domenach, L’energie du deuil, in “Esprit”, 1976, n. 3, p. 415.
16 A. Livi, Razionalità della fede nella rivelazione. Un’analisi filosofica alla luce della logica aletica, Roma, Editrice Leonardo da Vinci, 2005; Maksym A. Kopiec, Il Logos della fede: tra ragione, rivelazione e linguaggio, Roma, Antonianum, 2014 U. Casale, L’intelligenza della fede. Introduzione alla teologia, Torino, Lindau, 2018; A cura di Associazione Teologica Italiana, Ripensare l’umano? Neuroscienze, new-media, economia: sfide per la teologia, Milano, Glossa, 2021.
17 E. Bianchi, Vivere la morte, Bologna, EDB, 2023, p. 19.
18 A. Bloom, Alla sera della vita, Bose, Qiqajon, 2000, pp. 30-35.
19 Cfr. G. Cavalcoli, L’inferno esiste. La verità negata, Verona, Fede & Cultura, 2020; G. Plescan, Inferno-Purgatorio-Paradiso, Torino, Claudiana, 2000; H. U. Von Balthasar, Breve discorso sull’inferno, Brescia, Queriniana, 1988; R. Maccioni, Inferno o Paradiso. Cosa ci attende, in “Avvenire” del 25 ottobre 2016. Per una ricostruzione storica delle diverse rappresentazioni dell’al di là, si può vedere B. D. Ehrman, Inferno e paradiso. Storia dell’aldilà, Roma, Carocci, 2024. C’è anche chi si è tolto la vita per coerenza a quanto pensato, e cioè che la filosofia cristiana della redenzione sia in realtà una filosofia del viaggio esistenziale dell’uomo verso il nulla: F. Ciracì, Verso l’assoluto nulla. Filosofia della redenzione di Philipp Mainländer, Lecce, Pensamultimedia Editrice, 2006.
20 E’ un tema presente nell’opera di C. Bradatan, Morire per le idee. Le vite pericolose dei filosofi, Milano, Carbonio Editore, 2017.
21 A. Caputo, La questione del Sacro. Riflessioni a partire da un recente ciclo di seminari interdisciplinari: «Hieros. Sulla rivelazione», in Rivista “Teoria”, 2002, n. 1, (Nuova Serie), pp. 93-107.
22 R. Calasso, L’innominabile attuale, Milano, Adelphi, 2017.
23 H. U. Von Balthasar, Vita dalla morte, Brescia, Queriniana, 2021.