La morte per suicidio
Per i cristiani, la vita umana, qualunque tipo di vita umana, dalla più rigogliosa e fortunata alla più spenta e sfortunata, dalla più virtuosa e lungimirante alla più perversa e ottusa, dalla più geniale e creativa alla più stolta e distruttiva, dalla più integra e santa alla più corrotta ed empia, è sempre da rispettare anche se non sempre da assecondare ed emulare. Per forme di vita fisicamente o psichicamente imperfette o precarie, per i malati, i disabili, i folli, i moribondi, i fragili, i deboli, essi hanno o dovrebbero avere, poi, una particolare predilezione psicologica e spirituale, senza peraltro mancare di spirito di carità verso chiunque versi in condizioni di disagio, di malattia o di pericolo. Ma, al di là dei giusti e doverosi sentimenti di spiccata vicinanza umana e morale che non solo cristiani e soggetti credenti ma anche non credenti o atei potrebbero e dovrebbero essere in grado di coltivare ed esercitare rispetto ai simili più svantaggiati e bisognosi, non c’è dubbio che la caratteristica essenziale di una vita normale, di una vita dotata di tutte quelle facoltà psichico-intellettive che la rendano tale anche al di là di possibili o eventuali menomazioni, sia quella per cui la vita trovi la sua più specifica o distintiva peculiarità nel suo sussistere come vita razionale, come vita secondo ragione, anche in funzione della possibilità/necessità di porre rimedio nel miglior modo possibile ad errori ordinari di giudizio e comportamento o ad atti deliberatamente illeciti o immorali1.
Bisogna tuttavia precisare che per vita razionale non si intende qui, necessariamente o esclusivamente, quello dell’intellettuale, del filosofo, dell’uomo di studio o di cultura, che anzi non sempre appaiono in grado di utilizzare le proprie capacità intellettive e culturali in modi eticamente appropriati ed efficaci, ma chiunque, pur disponendo di mezzi intellettivi e di conoscenze modesti o non esaltanti, si sforzi di pensare, vivere e agire, in modo equilibrato, rispettoso dei diritti altrui e chiuso a qualunque tentazione di rinunciare alla imperatività della propria coscienza morale per motivi di pura convenienza personale. Un individuo è o resta saggio e la sua vita degna di essere vissuta finché egli sia sostenuto dalla volontà di non sottrarsi a princìpi di elementare razionalità e ragionevolezza, di civile socievolezza, di doveroso attaccamento alla difesa della propria e altrui dignità. Poiché l’esistenza umana è non solo piena di contrarietà talvolta completamente indipendenti dalla volontà soggettiva degli esseri umani, ma spesso dominata anche da potenti forze irrazionali, saggio sarà colui o colei che sarà capace di resistervi senza rinunciare alla propria ragione2. Ma, se si dovesse correre il rischio di perdere il controllo razionale o di impazzire, alcuni, tra i quali il filosofo Seneca, ritengono che rimarrebbe ancora una possibilità di salvare la propria qualità di essere razionale ricorrendo al suicidio. Ove, ad esempio, un individuo apprendesse di essere prossimo alla morte a causa di una malattia incurabile che potrebbe privarlo dell’autonomia psico-fisica o fosse costretto a subire ricatti moralmente inaccettabili, oppure fosse sollecitato a tradire mortalmente una persona cara, una comunità o la patria, egli potrebbe far ricorso al suicidio per salvare, attraverso la sua autosoppressione, la razionalità e la dignità della sua esistenza.
Tale soluzione, come è ben noto, non è tra le opzioni del cristiano, benché questi nei confronti del suicida non possa sentirsi autorizzato ad esprimere giudizi di condanna ma solo di dolore e di pietà. Peraltro, contrariamente a quanto riteneva Seneca, il suicidio, anche se indotto da un forte senso dell’onore personale, non può essere letto generalmente in termini di valore, per il semplice fatto che esso equivale ad un volersi sottrarre per debolezza morale alla responsabilità di affermare le ragioni del vero e del giusto al cospetto di situazioni minacciose o atteggiamenti ricattatori3. Non è né razionale, né ragionevole ricorrere al suicidio per sottrarsi al rischio di vivere male, essendo molto più comprensibile e significativo che la fedeltà alla ragione, persino nei casi più disperati, si traduca nella capacità di sopportare che siano altri eventualmente, cioè i nostri ricattatori o persecutori, ad infliggerci sofferenze o a toglierci la vita, per effetto della nostra risoluta opposizione alle loro inique richieste o ingiunzioni. Anzi, il ricorso al suicidio, se umanamente pone molti problemi di natura umana, psicologica ed etico-esistenziale che possono giungere a coinvolgere anche il rapporto tra il suicida e la comunità di appartenenza o l’intera società, costituisce solo la prova più drammatica della natura fallimentare di un’esistenza, dell’incapacità o dell’indotta impossibilità di chi ne resti vittima di vivere fino in fondo secondo ragione.
In nessun caso il suicidio può configurarsi come una forma, sia pure estrema, di saggezza e di rispetto di sé, anche se l’atto suicida denoti uno stato così profondo e straziante di solitudine o isolamento, di incomunicabilità col mondo e con gli altri, da non potersi ridurre al semplice atto insano di una mente malata o ad un gesto consapevole di disperazione interamente dovuto a cause strettamente personali. Non è la ragione, come sostiene Seneca, ma la mancanza di ragione o un accentuato offuscamento di razionalità che può sollecitarci a darci la morte, e, sempre in dissidio con Seneca, non è affatto vero che debba reputarsi colpevole di violare l’altrui libertà di scelta colui che cerchi di dissuadere il suicida dal togliersi la vita, dovendosi giudicare anzi un tentativo del genere addirittura più grave di quello di chi intenzionalmente voglia procurare la morte al proprio simile4: non è vero per il semplice motivo che assistere senza batter ciglio al gesto suicida di chicchessia pensando di rispettarne la libertà di scelta significa pensare e agire da stolti incapaci di porsi al riguardo domande non solo pertinenti ma assolutamente doverose: come si potrebbe omettere in quel caso di chiedersi se l’aspirante suicida, per quanto lucido possa essere nella volontà di sopprimere la propria vita, sia realmente libero razionalmente di controllare in modo adeguato i fattori emozionali, lo sconforto, la depressione, la solitudine, che potrebbero privarlo al contrario della sua facoltà razionale di scelta spingendolo a togliersi la vita? La vita, in quanto tale, pur senza forme disumane di censura morale o di accanimento terapeutico, va difesa sempre e comunque non per malintesi motivi di natura etica o per puro fanatismo religioso ma per trasmettere alla persona sofferente come sia importante, non solo per lui ma anche per noi o almeno per noi, che egli continui a vivere.
Ma se continuare a vivere comportasse per chi voglia morire l’impossibilità di non cedere a pressioni, a ricatti, a richieste illecite o criminose, o più semplicemente di non poter essere utile a niente o a nessuno, ovvero l’impossibilità di salvaguardare la propria onorabilità e la propria dignità personale, perché non dovrebbe consentirsi alla vittima di una siffatta situazione di sottrarsi all’eventualità di una vita ingloriosa? Perché gli sarebbe richiesto ancora lo sforzo razionale, questo sí eroico a differenza dell’atto suicidario di Seneca, di lasciare comunque alle circostanze o ai suoi nemici la responsabilità di chiudergli per sempre gli occhi. Restare in piedi fino alla fine, affrontare le avversità della vita sino in fondo senza mai perdersi completamente d’animo, non dare a soggetti cinici e immorali la soddisfazione della propria resa: questa sarebbe la dimostrazione più luminosa di una vita realmente vissuta secondo ragione e secondo giustizia. Come resistere moralmente al suicidio nelle condizioni più drammatiche della vita? Ecco, a questo interrogativo non viene dedicata tutta l’attenzione filosofica, culturale ed editoriale che esso richiederebbe. Si può certamente chiedere se queste argomentazioni non riflettano tuttavia le indicazioni di un’etica cristiana e la risposta non potrebbe essere che affermativa anche se questo non rende razionalmente meno attendibili le osservazioni e i rilievi fin qui espressi5.
Che la vita debba essere rispettata incondizionatamente dalle creature in quanto dono divino, che solo Dio può elargire e può togliere, o che la vita sia un prodotto di processi naturali che non rechino internamente alcuna traccia di natura trascendente e teleologica, per cui solo l’individuo sia tenuto a decidere cosa farne, sono tesi molto diverse e contrapposte ma ugualmente razionali, nel senso che esse possono riscuotere uno stesso grado di consenso razionale all’interno della comunità umana. Non è che per via razionale sia sempre possibile sostenere posizioni opposte, ma, come insegna in modo eclatante la storia della scienza moderna e contemporanea, non sono infrequenti i casi in cui un uso corretto della ragione possa condurre anche a soluzioni logicamente incompatibili e tuttavia dotate, almeno in apparenza, di uguale rilevanza razionale.
Peraltro, com’è noto, si danno casi in cui, tanto da un punto di vista laico quanto da un punto di vista religioso, la rinuncia alla vita o il sacrificio della vita assumono un identico valore morale, e si tratta di quei casi in cui si sia disposti, in conformità a norme perfettamente razionali di vita, ad immolare la propria vita per la difesa o la salvezza della vita altrui, della vita di un singolo o di un gruppo, di una comunità o della patria, oppure dell’intera umanità senza spargimento di sangue tranne che per chi si offra di morire al suo posto. Ma quest’ultimo caso è destinato a restare unico nella storia del genere umano, che sarà sempre beneficiario del non replicabile sacrificio salvifico di Cristo. Quel che invece non è né ammissibile in sede razionale e filosofica, né moralmente tollerabile, è la pretesa razionalistica o empirico-razionalistica di certo diffuso pensiero laico o laicista di escludere dal ventaglio delle legittime posizioni razionali quella cristiana a causa della sua nodale premessa delle origini divine del mondo e della vita6: inammissibile e intollerabile dal momento che il fare di Dio l’imprescindibile presupposto di qualsivoglia ragionamento conoscitivo, filosofico e scientifico, non corrisponde certo ad una supposizione logico-teorica meno ragionevole e gnoseologicamente meno funzionale della supposizione opposta per cui alle origini del mondo e della vita non sarebbe dato di cogliere alcunché di divino. Persino il filosofo o lo scienziato più lontano da suggestioni teologiche, nel corso della ricerca non può fare a meno di chiedersi talvolta, come ancora una volta può desumersi dalla storia del sapere filosofico e scientifico, se i fenomeni o i temi su cui sta indagando potrebbero essere letti o interpretati con margini più ridotti o più accentuati di esplicatività logico-teorica con o senza il ricorso all’ipotesi Dio.
Ora, per quanto un approccio non religioso o areligioso ai problemi del sapere e della vita morale, tra cui il suicidio è certamente da includere, possa sembrare più stimolante e più costruttivo rispetto ad un approccio più o meno marcatamente religioso o teologico, non può non rilevarsi che, ove pregiudizialmente si venga a privare l’indagine del punto di vista metafisico e trascendente, essa lungi dal poter assolvere in modo soddisfacente la sua funzione conoscitiva, sarebbe destinata inevitabilmente a risultare unilaterale e non abbastanza feconda. Di conseguenza, non può che apparire utile confrontarsi anche sul tema del suicidio tenendo sempre ben presenti le due più caratteristiche dimensioni di questo tema: quella laico-religiosa e più segnatamente laico-cristiana e quella laica del mondo agnostico o non credente. Ciò vengo asserendo ben sapendo che David Hume non solo non pensava che fosse utile ma che fosse persino espressione di una mentalità superstiziosa il voler cogliere nell’atto suicida una peccaminosa volontà di insubordinazione rispetto alla sovrana volontà del Creatore. Per il filosofo scozzese «le azioni di ciascun individuo sono dovute al creatore, come pure la catena di eventi con la quale l’individuo interferisce; e se un elemento prevale, dobbiamo trarne la conclusione che è prescelto da Dio». In definitiva, qualunque cosa succeda nell’universo come nella vita degli uomini, ivi compreso il suicidio, non c’è mai nulla che avvenga senza essere una semplice «conseguenza dei poteri e princìpi che l’Onnipotente ha posto nelle sue creature. La divina provvidenza resta inviolata, ben al di là dei misfatti umani». La provvidenza è sempre lì a presiedere a tutto ciò che accade nell’universo, nella vita e nella storia degli uomini; nulla le passa inosservato e incontrollato, «nulla accade nell’universo senza il suo consenso e la sua cooperazione»: anche la morte volontaria è contemplata dalla sua pur imperscrutabile legislazione7.
Quindi, Hume non contesta, almeno formalmente, la liceità della fede in Dio, che è pur sempre un Dio teisticamente inteso8, e nella sacralità dei vincoli morali da essa implicati, dandone però un’interpretazione difforme da quella ortodossa della tradizione cristiano-cattolica e sorvolando in particolare, con inescusabile creatività, sul fatto che in tale tradizione né la provvidenza né la grazia divine annullano ma potenziano l’umana libertà sia in funzione del bene gradito a Dio, sia anche come facoltà di esercitare la propria volontà per contrastare il male, di cui l’atto suicida rappresenta appunto una possibile manifestazione. Emblematica della condanna cristiana del suicidio, è la definizione del suicidio, data da Tommaso d’Aquino, come peccato mortale perché volto a togliere il potere di Dio sulla vita. Questo vale come principio generale preposto ad educare l’uomo al rispetto della vita come dono di Dio che non spetta all’uomo di rigettare e mortificare per nessun motivo e in nessuna circostanza dando la morte o dandosi la morte ma solo di preservare con gratitudine sino a quando la vita stessa non giunga al suo termine naturale. Ma questo principio non si estende al caso di chi, lungi dal togliersi la vita, sia disposto ad offrirla a favore dell’altrui vita, e d’altra parte la sapienza divina è talmente lungimirante da prevedere che nella vita degli esseri umani si diano circostanze così dolorose, angosciose e intollerabili, da indurli talvolta a desiderare e a preferire la morte ad una vita di stenti e di atroci sofferenze. Non a caso il Siracide recita: «Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica» (30, 17) e che Dio sia particolarmente vicino a chi sia tentato da pensieri di morte, è testimoniato dalla comprensione paterna che egli manifesta per il disperato desiderio di morte di tre giusti come Giobbe, Mosè, Giobbe ed Elia, che tuttavia chiedono a lui di togliere loro la vita. Tuttavia, pur riconoscendo che in tutta la Bibbia non si trova un’esplicita condanna morale e religiosa del suicidio, sarebbe arbitrario attribuire ciò ad una implicita ammissibilità morale di esso e non invece, come è corretto ritenere, alla consapevolezza del fatto che il suicidio sia uno dei casi oggettivamente più problematici e drammatici della vita su cui a nessuno, tranne che a Dio che conosce perfettamente il cuore di ogni sua creatura, è consentito di esprimere giudizi perentori o definitivi9.
In tal senso, può darsi avesse ragione Hume nel contestare che il suicidio costituisse un crimine contro Dio oltre che contro se stessi e contro la società. Il problema è che la sua contestazione viene configurandosi come certezza piuttosto che come dubbio e anzi finisce per risultare blasfema quando il filosofo sostiene che, se l’uomo ha la facoltà di togliersi la vita, questa facoltà gli è stata data dal creatore. Di conseguenza, nel non riconoscere e nel non affidarsi alla omniscienza di Dio, Hume pretende di chiudere una questione che invece resta sempre aperta non solo perché non tutti gli atti suicidi hanno lo stesso significato e possono essere assolti in modo indiscriminato, ma appunto perché l’ultima parola, e parola beninteso di misericordia non di semplice avallo o giustificazione, spetta per l’appunto unicamente a Dio. Che poi una certa morale religiosa di ispirazione cristiana, nelle sue versioni più rigide o fanatiche, possa venire avanzando o veicolando, secondo la denuncia humeana, pretese limitative della libertà individuale in conformità a paure e speranze connesse a determinate credenze nell’al di là e in una vita eterna di tenebre o di luce, è altrettanto vero, ma, come è sin troppo facile capire, eventuali travisamenti non possono essere attribuiti direttamente alla dottrina cristiana. D’altra parte, quanti, sulla falsariga dell’analisi humeana, propongono una concezione scettico-relativistica della verità, tenderanno pur sempre a leggere un’ipotetica verità divina in funzione di necessità o esigenze soggettive strettamente individualistiche, abbattendo implicitamente ogni possibile linea di confine tra lecito e illecito. Una concezione antropologicamente decentrata della vita e della morte è quella che deriva probabilmente da un’impostazione di tipo humeano, una concezione in cui la vita e soprattutto la morte non siano soggette a norme precostituite, a criteri di giudizio esterni, cioè eteronomi rispetto a concreti e differenziati processi di esperienza vissuta, e la loro amministrazione risulti appunto decentrata, cioè affidata esclusivamente al sentire e alla libera valutazione dei singoli individui10.
Il sociologo Émile Durkheim pensava di aver individuato, per mezzo di definizioni in vero più problematiche di quanto egli pensasse, quattro tipologie di suicidio: egoistico, altruistico, anomico, fatalistico11. Ma, al di là delle definizioni specialistiche che pure assolvono l’utile funzione di raggruppare per caratteristiche omogenee le diverse forme di uno stesso fenomeno, il suicidio, pur essendo spesso espressione di una mancata o carente integrazione individuale all’interno di forme di vita comunitaria, è un fenomeno irriducibile a fattori univocamente psicologici, ambientali, sociologici, genetici, perché comprensivo di motivazioni esistenziali specificamente individuali e non facilmente decifrabili, che non si prestano ad essere astrattamente generalizzate sia pure secondo determinate categorie tipologiche. Bisogna al tempo stesso osservare che, se tali motivazioni vengono prendendo corpo e agendo nella mente degli individui al di fuori di più complessive concezioni positive di vita, di un determinato ordine di valori morali o religiosi coerentemente finalizzato al perseguimento di obiettivi pacifici, di attività associative fortemente caratterizzate in senso volontaristico o missionario, è molto più probabile che esse trovino il loro inevitabile sbocco in atti suicidari, appunto perché totalmente prive di argini spirituali capaci almeno di frenare o rallentare la dinamica suicida dell’individuo, sebbene, come già rilevato, anche questi argini non sempre siano idonei a scongiurare esiti nefasti.
D’altra parte, non si insisterà mai abbastanza nel sottolineare che altro è il suicidio come togliersi la vita per disperazione, altro è il suicidio come togliersi la vita per togliere la vita ad altri per vendetta o nel nome della libertà del proprio popolo: nel primo caso, si tratta infatti solo di suicidio, nel secondo di suicidio-omicidio, cioè di suicidio funzionale all’uccisione di altri esseri umani, là dove tuttavia, anche in questo secondo caso si dovrà distinguere tra un suicidio-omicidio concepito come legittima difesa nel corso di un conflitto tra popoli o stati o tra comunità perseguitate e gruppi di potere oppressivi e violenti, e un suicidio-omicidio finalizzato in modo del tutto arbitrario e irrazionale allo sterminio di determinati popoli o gruppi etnici, razziali o religiosi. Matrice comune di tutte le possibili forme suicidarie-omicidarie sarà certo l’efferatezza, ma ancora una volta sarebbe superficiale generalizzare ed equiparare tra loro tutte le possibili forme di efferatezza e rinunciare a distinguere tra i diversi gradi di disvalore esistenti nel mondo dell’agire efferato. Il dare la vita o l’andare incontro alla morte in sacrificio per il bene di alcuni o di molti, è invece concetto radicalmente differente dal darsi la morte procurando l’altrui morte, per quanto entrambe possano essere concepite in difesa o al servizio della vita o della libertà altrui.
Ma il senso filosofico del suicidio, lungi dal potersi identificare con il senso pure reale di disperazione che ne è alla base e indipendentemente dalla decisione soggettiva di rivolgerlo solo contro se stessi o di usarlo per infliggere danni letali ad altri, può essere cercato anche oltre le sue modalità autodistruttive e distruttive, nel senso che, utilizzando una motivazione schopenhaueriana, «il suicida vuole la vita, perché il suo eliminare il fenomeno che rappresenta la propria individualità, è motivato da una sofferenza, da una scontentezza, da un profondo attaccamento alla vita: egli vorrebbe vivere una vita felice ma non si trova nelle condizioni di poterlo fare, è per questo motivo che si toglie la vita. … Il suicida non vuole smettere di vivere, vorrebbe semplicemente vivere diversamente ma non può. Suicidandosi non nega la volontà, ma la esalta»12. Quando Schopenhauer parla di volontà, allude alla voluntas metafisica, noumenica, come principio o legge universale di irrazionalità, come forza desiderante incontrollabile che agisce su tutti e su tutte le cose dell’universo, e che opera persino come movente ultimo dell’azione suicidaria. Il suicida, in altri termini, rinuncia alla vita, e sia pure ad una vita impregnata di dolore, non alla volontà di vivere, non alla volontà irrazionale di vivere che penetra e devasta ogni singola forma di esistenza, ed è solo per questo motivo, non per ragioni etiche, sociali o religiose, che il filosofo tedesco non legittima il suicidio, ad eccezione di quella forma di suicidio che consiste nella «morte per fame scelta volontariamente nel grado più alto dell’ascesi, intesa quest’ultima come la via più alta di negazione della Volontà e volta al raggiungimento del Nirvana»13.
Ma non mancano filosofi e studiosi che giungono a sostenere invece la natura razionale del suicidio, come avviene nel caso di David Benatar, secondo cui il discrimine tra natura razionale e natura irrazionale dell’atto suicidario è dato dalla capacità soggettiva di valutare correttamente la qualità della propria vita, per cui si troverebbe a compiere un gesto irrazionale tanto chi si uccidesse per aver sottovalutato erroneamente la qualità della propria esistenza, quanto chi, al contrario, decidesse di restare in vita per averla sopravvalutata. In tal senso, l’effetto paradossale che ne seguirebbe, al di là delle intenzioni argomentative di questo studioso, dovrebbe essere quello di una catena interminabile di suicidi, visto che coloro che sopravvalutano la qualità della propria vita sono di gran lunga più numerosi di quelli che la giudicano con una certa severità. Il punto, tuttavia, più qualificante dell’argomentazione qui in esame è che, non avendo potuto nessuno di noi acconsentire al suo venire al mondo, sarebbe conforme a razionalità la possibilità di decidere di cessare di esistere se le difficoltà della vita dovessero essere percepite come assolutamente intollerabili14.
Ma per quale ragione, nel corso di un’esistenza, si vengono a creare momenti di particolare vulnerabilità psicologica suscettibili di convertirsi prima o poi in punti non più gestibili o sempre meno gestibili di criticità spirituale e tali da sfociare in più o meno intense pulsioni di autoannientamento personale? Il problema è essenzialmente di natura affettiva e relazionale. Quanto più povera di affetti e di significativi o gratificanti scambi relazionali viene percepita soggettivamente una vita individuale, tanto più essa risulterà vulnerabile ed esposta al rischio suicidario. Non è importante, in relazione a tale rischio, che un individuo sia oggettivamente apprezzato, amato, rispettato, lodato o interpellato da un punto di vista affettivo o sentimentale, sociale, professionale o culturale. E’ importante, invece, che il suo modo soggettivo di percepirsi accettato e valorizzato dagli altri o da un certo numero di persone intellettualmente e moralmente “qualificate” o stimabili non si discosti troppo da quel mondo di apertura e consenso apparenti nei suoi confronti. Può anche accadere, peraltro, che un soggetto più debole rispetto ad altri, sotto il profilo genetico-neurologico, ma più di altri sensibile umanamente e moralmente o più profondo intellettualmente, nel momento in cui si senta avversato o evitato o emarginato all’interno di una comunità più o meno ampia di persone per quello che dice o per il modo in cui vive e agisce, venga convincendosi di rappresentare ai loro occhi un modus vivendi e operandi così esigente e rigoroso, così limpido ma anche così moralmente irritante e destabilizzante, da farlo recepire in senso antagonistico e conflittuale.
In questo caso, il forte senso di conseguente solitudine viene ad interagire con le convinzioni e i valori personali e con il grado di autostima di tale individuo nel quadro di un confronto talvolta persino drammatico e tuttavia non necessariamente suscettibile di trasformarsi in una resa di natura suicidaria. D’altra parte una relazione finalizzata semplicemente a neutralizzare l’angoscia della solitudine, è certamente più deleteria e meno motivante di una tendenziale e pur sofferta relazione conflittuale. C’è poi anche un suicidio dovuto a imprevedibili cause economiche, ma, in generale, è innegabile che «l’isolamento affettivo e il misconoscimento dei livelli emotivi e corporei costituiscono fattori di rischio assai superiori rispetto alle tanto paventate cause economiche. Probabilmente più delle terapie e delle farmacoterapie, la vera prevenzione nasce dall’inclusione del singolo in gruppi e alla rieducazione dell’individuo dei valori relazionali»15.
Da un punto di vista evangelico e cristiano, il suicidio, il suicidio per così dire non “patologico”, per quanto oggetto di particolare pietas umana, non può essere incluso tra le manifestazioni più edificanti e sante di rinuncia spirituale, perché esso, nel porsi come rinuncia alla vita, esprime una almeno relativa incapacità, indipendentemente dal fatto che sia più o meno scusabile in sede etica e teologica, di percorrere integralmente quella via crucis di memoria evangelica che è la più alta modalità di acquisizione della salvezza eterna. Infatti, la rinuncia suicidaria alla vita è anche una rinuncia alle pur lancinanti sofferenze del corpo e della psiche che sono quelle attraverso cui può venire esercitandosi e fortificandosi redentivamente, fino a livelli di santità, la spiritualità della persona. Questo non fa certo del suicida una persona indegna della misericordia divina, ma, nella sua indisponibilità ad accettare la mortificazione estrema del corpo, il suo esempio non può d’altra parte assurgere a modello né paradigmatico, né tipico di comportamento cristiano16, diversamente da quel che accadeva nella cultura e nel diritto di Roma antica che consentivano a chiunque, pur oberato di obblighi o doveri verso lo Stato e la società, di fare libero uso del suicidio come di qualunque altro bene privato o individuale, mentre nell’antica Grecia il suicidio era ritenuto riprovevole per i comuni cittadini, ritenuti rei di disertare dagli impegni a ciascuno di essi richiesti dalla vita comunitaria, mentre veniva ammesso solo in particolari circostanze a beneficio di eccezionali personalità, tra cui in primis i sapienti come Socrate, che avessero dato lustro alla polis17.
E’ ben comprensibile, per contro, che se la qualità della vita terrena, in un’epoca postcristiana in cui essa è tutto, non solo non mi soddisfa ma mi procura costanti e fastidiose sofferenze, possa o debba essere rigettata o negata. Ma il punto è proprio questo: quali sono i criteri razionali secondo cui una vita possa definirsi come qualitativamente accettabile o soddisfacente, al di là di quelli che riguardano le possibilità di cura, di assistenza sanitaria farmacologica e psicoterapeutica? Sono quelli della visibilità sociale o mediatica, del successo o della ricchezza, della facoltà di incidere sul destino occupazionale o professionale di alcuni, del poter sfruttare a proprio piacimento una fama immeritata e godere di beni non lecitamente guadagnati, del poter trascorrere tranquillamente una vita non inficiata da gravi contrattempi o particolari disgrazie, dal poter andare incontro alla morte dolcemente senza dover patire traumi troppo dolorosi? Oppure quelli per cui si resti sempre coscienti che meriti e demeriti della propria vita non possono mai essere giudicati al di fuori delle complessive e concrete condizioni genetiche, familiari e ambientali, economiche e sociali, educative morali e culturali, in cui essa sia venuta svolgendosi e con cui sia venuta interagendo, e si sia sempre disposti a reagire ad avversità e ingiustizie con dignitosa determinazione senza contentarsi di sfruttare qualunquisticamente facili opportunità di successo o arricchimento? La qualità della nostra vita avrà o non avrà a che fare, al di là delle umiliazioni, dei traumi, dei lutti subìti, anche con il riconoscimento di errori e colpe, con le domande, le richieste, le speranze che avremo posto su un piano non estrinsecamente ma intimamente religioso e non disgiunto dagli avvenimenti della nostra esistenza?18.
Si potrebbe essere tentati di pensare che al suicidio contemporaneo, sempre più frequente sul piano sociologico-statistico, manchi in particolare una convincente benché non risolutiva deterrenza religiosa che possa inibirne almeno parzialmente le inconsce motivazioni e relative pulsioni di morte, visto che nella ancora consistente ma sempre più ridotta comunità cattolica mondiale si parla sempre meno di giustizia divina, di inferno o di morte eterna, e ci si limita a dispensare, nel nome del vangelo, carezzevoli e rassicuranti parole di misericordia da cui possa evincersi che il paradiso è garantito per tutti. Il che, invece, dovrebbe risultare quanto meno dubbio. Ma poi capita di pensare che il terrorismo suicida è molto incentivato da forme alquanto distorte e violente di religiosità, come nel caso della fede islamica19, e allora ci si astiene dall’ipotizzare che una religiosità più rigida anche se finalizzata unicamente alla vita e non alla morte potrebbe rivelarsi in qualche modo salutare al fine di poter sbarrare più efficacemente la strada a masse di potenziali o aspiranti suicidi20. Ma, beninteso, qualunque tentativo, per quanto articolato e penetrante, di gettare luce in modo esaustivo sulla dinamica forse più enigmatica e inafferabile della vita umana, è votato al fallimento, ivi compreso quello di coloro che tentano di conferire un significato logico, razionale, alla teoria e alla pratica suicidarie. Tuttavia, sul concetto di “suicidio razionale” ovvero deciso sulla base di una qualche plausibilità argomentativa, e sulle implicazioni dello stesso, è in atto un dibattito internazionale alquanto vivace e interessante. Alla domanda se esista il suicidio razionale, qualcuno ha risposto tra l’altro: «Ogni minima implicazione del “suicidio razionale”, inclusa l’espressione, è fortemente controversa tra gli esperti e sulla questione ci sono posizioni completamente opposte. La concezione del suicidio è cambiata molto con il tempo. Nella Grecia classica il suicidio del “saggio” era in genere considerato come pienamente razionale, rifiuto e conclusione del processo di liberazione dalle cose-della-vita in cui gli stoici vedevano per esempio la massima espressione di libertà. Il cristianesimo lo condannò come un peccato da perseguire, gli illuministi tornarono ad affermare il diritto di disporre della propria vita e anche i romantici e gli idealisti ne parlarono in termini di libera scelta. Con la psichiatria il suicidio cominciò a essere legato a dei disturbi, diventando dunque, nella maggior parte dei casi ma non in tutti, il sintomo di un quadro psichiatrico più generale.
Nel dibattito intorno al “suicidio razionale” in atto negli Stati Uniti si sottolinea il fatto che lo stato suicidario non sia qualche cosa di fisso, ma di oscillante: c’è una volontà di vivere e c’è una volontà di morire, e vanno avanti e indietro. La definizione di “razionale” per descrivere questo tipo di scelte, dicono dunque alcuni, non è adatta. Di conseguenza, la presenza dell’elemento impulsivo che nell’oscillazione interviene a un certo punto dovrebbe portare a un impegno nel prevenire il suicidio, più che a un impegno per renderlo sicuro e accessibile»21. E, francamente, che si possa considerare razionale, persino da parte di esperti clinici e studiosi di etica, un suicidio a causa di un’età avanzata, di una mancanza totale o parziale di autonomia o di autocontrollo, di un subentrato senso di inferiorità rispetto a individui più giovani e sani, di uno stato oltremodo accentuato di solitudine, sembra non solo frutto di occasionale irragionevolezza ma anche e soprattutto l’esito di un’abnormità intellettuale ormai potentemente veicolata da un pensiero critico talmente cinico e spregiudicato da non porsi più un problema di limiti etici e deontologici da rispettare quanto meno in relazione a questioni come la morte e la vita, un tempo investite di sacralità dal comune sentire. Un celebre artista indiano scriveva diversi anni or sono sul New York Times, prima di morire: «Siamo preoccupati dal fatto di poter passare dal diritto alla morte al dovere di morire se facciamo apparire il suicidio in qualche modo desiderabile o giustificabile».
Nel momento in cui su larga scala non si riuscisse più a distinguere tra razionale e demoniaco, non qualcuno in particolare, non questo o quello in una determinata condizione di vita, ma l’umanità stessa si sarebbe suicidata, perché cos’altro sarebbe un’umanità incapace di discernere o di giudicare rettamente, e appunto razionalmente, se non un’umanità suicida?22 E chi si può arrogare il diritto se o quando, a quali condizioni, una vita sia realmente degna di essere almeno interiormente vissuta? O si può forse ragionevolmente pretendere che la vita interiore, intima, comunicativa anche se non sempre comunicabile, sia ben poca cosa rispetto ad una vita integralmente vissuta nella rigogliosa o ancora soddisfacente pienezza delle sue funzioni, e quindi risulti anche non più funzionale ad un mondo di vita ma solo di morte? E se proprio quella fase o quel momento così sofferto, doloroso, angoscioso e infelice di immobilità esistenziale, di paralisi creativa ed espressiva o di dipendenza psicomotoria, se proprio quell’apparente ma innaturale dormiveglia tra uno stato di vita e uno stato di morte, costituissero l’indicatore più sensibile e decisivo dell’intrinseca qualità umana, morale, culturale o religiosa di quel vivere in via di spegnimento, il sapere, la vita spirituale, la vita tout court sarebbero più ricchi o più poveri: chi può dirlo?
La fine definitiva, l’inesorabile morte, è «l’epilogo dell’esistenza umana. E non solo. Si può morire anche essendo vivi. Ci si può sentire condannati a morte per la vita, nella vita. E decidere di darsela, la morte»23. Ma quale sarà realmente la giusta prospettiva, dopo aver consultato medici, biologi, filosofi, giuristi, teologi: la prospettiva pietistica ed efficientistica della “dolce vita” o la prospettiva dell’accoglienza e del rispettoso, radicale ascolto della vita che si congeda dal mondo? Benché la vita consista nel suo incontro con un mondo troppo spesso, insensato, irrazionale, assurdo, il suicidio costituisce realmente la soluzione più logica per colui che sa di non poter più evitare di morire e non crede d’altra parte che, dopo la morte, possa trovare altra vita, o non è in fondo meno traumatizzante il compiersi naturale di un destino di vita?24. Resta, in ogni caso, il sospetto che il suicidio, nella stragrande maggioranza dei casi, sia espressione di una morte né utile, né necessaria, né ineluttabile, e che in realtà solo uno sconfinato e sapiente amore per la vita da parte di qualcuno che abbia a che fare quotidianamente con chi per diverse ragioni sia a rischio di suicidio possa forse fungere, al di là di ogni bolsa retorica, da argine o strumento terapeutico a spinte autosoppressive.
Ciò detto, si commetterebbe un errore molto grave nel ritenere che il rischio di suicidio sia più probabile in o per persone non credenti e per di più malate o pazze che in o per persone credenti e, ancor più specificamente, per persone che si professino di fede cristiana o cattolica e portate quindi ad esprimere un sentimento di assoluto rispetto per la vita, soprattutto se non siano ancora direttamente devastate dalla disperazione o da esperienze particolarmente angosciose e strazianti oppure siano ancora lontane dal dover condividere per lungo tempo esperienze dolorose che abbiano colpito i propri familiari, i propri affetti, o i propri amici più prossimi. Un intellettuale tedesco ha scritto un libro in cui testimonia di aver assistito personalmente, nella sua parrocchia, al lento ma inesorabile sgretolamento della fede nella risurrezione proprio in soggetti non solo di professata fede cattolica ma anche molto attivi nelle diverse attività parrocchiali25. Ed è evidente che se la risurrezione e la vita eterna cominciano a non essere percepite come desiderabili, ma in realtà questa tendenza ha origini lontane quantunque nello stesso mondo cattolico ormai sembri diffondersi a macchia d’olio, la resistenza al pensiero della morte per suicidio sia destinata ad affievolirsi in modo irreversibile anche nella mente e nella coscienza dei cattolici o dei sedicenti cattolici.
Ma, in quanto cattolico, non posso concludere questa riflessione sulla morte per suicidio senza citare un pensiero bellissimo e carico di irraggiungibile spiritualità: «Suicidio e preghiera: il momento supremo del suicidio, del veramente disperare coincide con il momento della preghiera, cioè col momento della speranza. Il momento della più perfetta chiaroveggenza sulla disperata avventura umana è il momento del grido a Dio. L’uomo è l’unico essere della creazione che dispera del finito, e nell’atto che dispera spera in Dio (...) La preghiera è il trepido desiderio, la trepida quasi non formulata domanda, che Dio abbia pietà degli uomini, di questa umanità senza pietà (…) La preghiera è la vera disperazione e la vera speranza»26. E, d’altra parte, non si può minimamente dubitare che «di fronte a una scelta drammatica come il suicidio», si debba «innanzitutto offrire la nostra preghiera nella certezza che non spetta a noi il giudizio: Dio solo conosce il cuore dell’uomo fino in fondo, la sofferenza o l’angoscia che hanno portato a togliersi la vita. Il dono della nostra preghiera, il ricordo nell’Eucarestia sono la forma più bella della vicinanza della Chiesa» ad un fratello suicida «affinché la misericordia del Padre lo avvolga, gli doni quella pace che forse non ha mai potuto avere nella sua esistenza, lo conduca per le sue vie di salvezza»27.
NOTE
1 Naturalmente resta il problema, ancora irrisolto, di stabilire cosa sia la razionalità o debba intendersi esattamente per razionalità: utili riflessioni sulla complessità e sulle ambivalenze teoriche e valoriali di questo tema possono venire anche dal recente studio di S. Pinker, Razionalità. Una bussola per orientarsi nel mondo, Milano, Mondadori, 2021, ma, al riguardo, forse ancor più problematici sono i libri filosofici di F. Jullien, La vera vita, Roma-Bari, Laterza, 2021 e L. Mérö, I limiti della razionalità. Intuizione, logica e trance-logica, Bari, Dedalo, 2005.
2 Justin E. H. Smith, Irrazionalità. Storia del lato oscuro della ragione, Milano, Ponte alle Grazie, 2020. Un classico punto di riferimento per il rapporto tra facoltà razionale di scelta e una realtà sempre più contraddittoria e indecifrabile, resta E. Fromm, Fuga dalla libertà (1941), Milano, Mondadori, 2022.
3 Ma la nettezza di questo giudizio non è incompatibile con quel possibilismo etico ristretto, riservato da Kant proprio al caso specifico del suicidio, nel quadro del suo celebre rigorismo etico: Sull’etica del suicidio. Dalle Riflessioni e Lezioni di Immauel Kant con i Preparativi di un infelice alla morte volontaria di un Anonimo del Settecento, Firenze, Editrice Le Lettere, 2003.
4 Seneca, Phoenissae, vv. 98-102 (Monologo di Edipo), testo latino di Otto Zwierlein, Oxford, 1986, p. 1. Il brano recita testualmente: «Chi costringe qualcuno a morire si pone allo stesso livello di chi impedisce a qualcuno di avviarsi alla morte. Impedir di morire a qualcuno che lo desidera è come ucciderlo; anzi, colui che tenta di farlo non è allo stesso livello, ma è più colpevole ancora. Preferisco che mi sia ordinato di morire piuttosto che mi sia impedito di morire».
5 Cfr. J. S. Black, Il suicidio. Capire e intervenire, Milano, Alfa & Omega, 2005.
6 Non mancano reazioni a tale impostazione chiusa, dogmatica e discriminatoria, come quella di J. Maclure – Ch. Taylor, La scommessa del laico, Roma-Bari, Laterza, 2013. Una esposizione sintetica ma pacata e ordinata, in sede filosofico-teologica, del punto di vista cattolico sul suicidio, è quella di Andrea Di Maio, Sull’atteggiamento cristiano riguardo al suicidio. Osservazioni filosofiche a margine dell’inchiesta su “suicidio e cultura religiosa”, in “Studi su aggressività e suicidio - Studies on Aggressiveness and Suicide” 2004 (2), n. 4, p. 21-32.
7 D. Hume, Sul suicidio e altri saggi morali, Roma-Bari, Giuseppe Laterza & Figli, 2008. Lo scritto humeano sul suicidio, da cui si è citato, è il primo della raccolta di scritti pubblicata nel testo.
8 Cfr. D. Hume, Storia naturale della religione, Laterza, Bari, 1994, pagg. 45-46, 147-149.
9 P. M. Cattorini, Suicidio? Un dibattito teologico, Torino, Claudiana, 2021.
10 S. Critchley, Note sul suicidio, Milano, Carbonio Editore, 2022, in cui, in linea con l’interpretazione di Hume, viene rilevato il fondamento “antropodecentrico” del suicidio.
11 É. Durkheim, Il suicidio. Studio di sociologia, Milano, Rizzoli, 2007; Il suicidio – L’educazione morale, Torino, UTET, 1977. Cito da quest’ultima edizione la definizione di suicidio data dal sociologo francese: «dicesi suicidio ogni caso di morte direttamente o indirettamente risultante da un atto positivo o negativo compiuto dalla stessa vittima pienamente consapevole di produrre questo risultato», p. 63. Tale definizione sarebbe stata contestata per genericità e ambiguità. Più precisa ed efficace sarebbe apparsa la definizione proposta da Giuseppe Masi, alla voce “suicidio”, nella Enciclopedia Filosofica la cui prima edizione, curata dal Centro di Studi Filosofici di Gallarate e patrocinata dall’Istituto per la collaborazione culturale di Roma, avrebbe visto la luce in quattro volumi negli anni 1957-1958: «In senso stretto, è l’atto con cui un individuo procura a sé volontariamente la morte».
12 M. Cappiello, Arthur Schopenhauer e David Hume sul suicidio, in Rivista di Tanatologia “Zeta Magazine”, 2023, II.
13 Ivi. Sulle possibili cause del suicidio, sulla sua ammissibilità o inammissibilità etica, sulla natura razionale o irrazionale del comportamento suicida, si può vedere la voce “Suicide” pubblicata nella “Stanford Encyclopedia of Philosophy”, in data 18 maggio 2004, poi oggetto di sostanziale revisione in data 9 novembre 2021. Qui viene ben rilevato come il suicidio sia un’area tematica in cui gli approcci filosofici non possono non intersecarsi con quelli delle scienze empiriche e medico-sperimentali, a dimostrazione di come il comportamento suicida sia uno dei comportamenti umani più enigmatici. Si veda anche R. Garaventa, Il suicidio secondo Arthur Schopenhauer, in Rivista “Studi su aggressività e suicidio”, gennaio 2009, pp. 63-73.
14 D. Benatar, Suicide: A Qualified Defense, in AA.VV., The Metaphysics and Ethics of Death: New Essays, New York, Oxford University Press, 2013, 56, pp. 222-244.
15 R. Minotti, Suicidio e Tempo, tra la vita e la morte: una riflessione filosofica, in Rivista on line “State of Mind”, 22 marzo 2017.
16 Può essere utile, al riguardo, la lettura di R. Garaventa, Sofferenza e suicidio. Per una critica del tradizionale approccio cristiano al problema del dolore, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2008, mentre un taglio areligioso, in chiave psicologica, in vero non sempre ineccepibile, si trova in J. Hillman, Il suicidio e l’anima, Milano, Adelphi, 2010.
17 P. Veyne, La società romana, Roma-Bari, Laterza, 1990; Y. Grisé, Le suicide dans la Rome antique, Les Belles Lettres, Bellarmin; A. Airaghi, Il suicidio nel pensiero greco, Youcanprint, 2017.
18 Cfr. G. Lo Re, La sofferenza. Prospettive teologico-morali, Fasano (BR), Schena Editore, 2018; L. Berra, La regola della Vita: Il morire e l’angoscia di morte, Torino, ISFiPP Edizioni, 2021; S. Vernocchi, La morte, la salute, la malattia e la qualità di vita, in sito “Sociologia on web”, 21 luglio 2021. Molto profondo e illuminante è il vecchio ma sempre attualissimo libro di F. Gianfranceschi, Svelare la morte, Milano, Rusconi, 1980, da cui si ricava una lezione memorabile: quella per cui ove si disconosca culturalmente e psicologicamente la morte, a colpi di rimozione compulsiva, si finisce per disconoscere inevitabilmente anche la oggettiva materialità della vita, delle coscienze e dei corpi, che rimanendo sempre costitutivamente distanti dalla realtà e dalle molteplici implicazioni della morte, ne risulteranno dominati e terrorizzati.
19 F. Dei, Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio, Roma, Donzelli, 2016.
20 La complessità dell’intenzionalità suicidaria viene sottolineata anche da approcci psicoanalitici non riduttivi o unilaterali ma capaci di utilizzare criticamente significative interdipendenze disciplinari, tra cui quello di L. Pavan, Esiste il suicidio razionale?, Roma, Edizioni Magi, 2009.
21 Si cita da un articolo di anonimo pubblicato sul sito on line “Il Post” e intitolato Che cos’è il suicidio razionale?, 16 settembre 2018.
22 M. Matzuzzi, Il mastino della fede, Müller, parla di “suicidio dell'umanità”, in “Il Foglio” del 22 novembre 2014. Ovviamente tale suicidio è più ampio ma comprensivo del suicidio cui l’umanità è virtualmente assoggettata per effetto dei gravi problemi della sovrappopolazione, dell’inquinamento, dell’alterazione della natura in rapporto alle sempre più diffuse applicazioni della tecnologia: Gordon Rattray Taylor, La Società Suicida – Requiem per un Pianeta Infetto? (1970), Milano, Mondadori, 1971.
23 M. Becciu, L’uomo Sisifo si suicida ne L’assurdo, in “Rivista di culture mediterranee” Mediterraneaonline.eu, 1 novembre 2012.
24 Utili e suggestivi su questo tema e temi affini appaiono alcuni particolari spunti della gnosi di Gustav T. Fechner, La vita dopo la morte e altri scritti, Cercenasco (TO), Marcovalerio, 2020.
25 Th. Macho, A chi appartiene la mia vita? Il suicidio nella modernità, Milano, Meltemi, 2021. Si veda anche la recensione di A. Lucci, Das Leben nehmen / Thomas Macho. Togliersi la vita, prendersi la vita, in Rivista on line Doppiozero”, 21 marzo 2018.
26 G. Capograssi, Introduzione alla vita etica, Roma, Studium, 1953, pp. 149-191. Giuseppe Capograssi è stato insigne giurista e filosofo cattolico.
27 Chiara, monaca clarissa, Il dolore di fronte a un suicidio. Suor Chiara: “Non spetta a noi il giudizio, solo Dio conosce il cuore dell’uomo fino in fondo”, in sito on line “Sant’Alessandro. Org” (Settimanale della Diocesi di Bergamo), 1 giugno 2023.