Quale morte?

Scritto da Francesco di Maria.

Il tempo degli universali, sembra decretare il pensiero postmoderno, è finito per sempre. Non c’è più nulla, né conoscenze, né sentimenti, né valori, che possa sussistere al di fuori dei suoi condizionamenti storici, politico-sociali, culturali, per cui tanto la conoscenza che l’etica o la stessa fede religiosa continuano ad assolvere una funzione pragmaticamente ed esistenzialmente critico-orientativa nei limiti di una autoreferenzialità soggettivistica, relativistica, pluralistica, ormai eretta a paradigma egemonico, corrosivo di qualsivoglia genere di certezza metafisica o epistemologica, della razionalità contemporanea. Di conseguenza, non sembra poter avere più senso interrogarsi sul senso della vita o della storia, ma al più sui sensi possibili che, per via soggettivistica, potrebbero essere conferiti all’una e all’altra, benché anche in tal caso non perderebbe la sua incisività esistenziale la massima nietzscheana per cui, se vivere è soffrire, sopravvivere è trovare un senso nella sofferenza1. Se il mondo non ha più, come in passato, un senso predeterminato o predeterminabile, si ricreano per gli esseri umani le condizioni di una loro reale libertà d’azione, in quanto ognuno potrà decidere di vivere e agire in conformità a significati e a valori individualmente e liberamente scelti. Dal senso ai sensi della vita e della storia: questa è la traiettoria che caratterizza la cultura del nostro tempo2. Come dire, e non in senso necessariamente polemico: che ognuno abbia facoltà di pensare e di vivere come meglio gli aggrada!

Il senso, dunque, sembrerebbe morto a beneficio dei meno autoritari e più libertari dei sensi possibili dell’umano. Ma allora quello stesso pensiero filosofico che era venuto originandosi da un senso di stupore-terrore di fronte all’arcano e impenetrabile silenzio dell’essere delle cose e dalla connessa ricerca di una risposta e di un senso da dare alla loro apparente indecifrabilità, sembra ripiombare, dopo elaborazioni ultrasecolari di conoscenza veritativa e moralizzatrice, nella sua originaria condizione di istintiva e balbettante ma perseverante richiesta di senso. Il pensiero razionale, infatti, non tollera di essere in balìa delle opinabili verità umane, ma procede imperterrito, senza mai dichiarare la resa, verso la conquista di sempre più solidi punti di riferimento sia dal punto di vista conoscitivo che da quello morale, comportamentale e relazionale. Il che comporta che se, secondo i canoni postmoderni, anche la domanda sul senso della morte debba essere corretta e convertita in quella sui sensi possibili della morte, a tale prospettiva soggettivistico-nichilistica non possa che muovere, ancora una volta, una fiera opposizione l’anima più irriducibilmente metafisica e universalizzatrice dell’umana razionalità. La ragione chiede di sapere non tanto quali possano essere i possibili significati della morte verso cui l’uomo è ineluttabilmente diretto, ma quale sia, per l’uomo, alla fine della sua ricerca, il vero, unico e indiscutibile senso della sua morte. L’uomo, volendo trarre uno spunto di riflessione dalla lezione di Agamben, è un animale che ha sia la facoltà del linguaggio e quindi del parlare pensando, sia la facoltà del morire e del tacere pensando, quasi che da una parte la sua vita pensante da una parte necessiti del parlare, di essere espresso e articolato linguisticamente e, dall’altra, del morire a se stessa e alle proprie categorie linguistico-concettuali, come condizioni costitutive, l’uno e l’altro, di una possibilità di rinascita e di vita illimitata3.

Come qualunque altra forma di esistenza, anche l’esistenza umana ha le sue leggi costitutive che ne regolano, tanto sul piano fisico-biologico quanto su quello psichico e spirituale, la nascita, lo sviluppo e il processo di graduale e finale decomposizione. La libertà umana può esercitarsi amplissimamente e nei modi più variegati all’interno e in conformità di tali leggi, oppure in disarmonia o in contrasto con esse. Lo sforzo di cogliere, sentire, in-tendere esistenzialmente la ratio, l’essenza, i processi e le strutture biologico-valoriali del vivere, coincide con lo sforzo di essere fedeli alla verità stessa della vita, mentre la rinuncia ad esercitare tale sforzo, a prescindere dalle modalità e dal grado qualitativo con cui possa essere esercitato, coincide con la volontà di dissipare e rendere improduttive le risorse naturali più preziose del proprio essere al mondo. Quindi, è naturale che la prensione razionale del reale venga manifestandosi o debba manifestarsi principalmente come prensione di senso più che di accidenti, come acquisizione di significati permanenti più che di mutevoli e irrilevanti epifenomeni.

Pertanto, se muore il senso per consentire ai sensi di abitare il mondo, anche i sensi non possono che apparire privi di senso e insensati, non potranno essere oggetto di comunicabilità, di esperienza intersoggettiva, di pubblico riconoscimento veritativo: la razionalità diventerà luogo di propaganda, non di dimostrazione, strumento di ingannevole retorica e non di onesta e ragionevole persuasione. Nella cultura e nella civiltà di sensi discorsivi razionalmente indisciplinati e selvaggi, tutta la vita non può avere senso e anche la morte, che della vita è il momento più drammaticamente importante, non può che percepirsi come inaccessibile, sfuggente, incomprensibile, al di là della sua semplice determinazione fisico-biologica, giacché la morte del senso in generale veicola intrinsecamente la morte del senso stesso della morte. Resta però invitta la domanda centrale di ogni vero ragionare e di ogni seria volontà di vita: qual è, tra tutti i possibili sensi pensati o immaginati, il senso meno precario e più ultimativo della morte, qual è la verità definitiva della morte. Quale morte sarà realmente la nostra morte? La morte in quanto fine irreversibile di vita o in quanto transito verso altra, ulteriore e nuova vita; in quanto sprofondamento nel nulla inteso come campo di totale impossibilità esistenziale o in quanto immersione nel non essere più di una vita troppo decrepita per perpetuarsi e tuttavia embrionalmente avviata a rinascere o a rigenerarsi dai suoi stessi resti mortali? Se ogni nascita è un inizio di morte, perché ogni morte non potrebbe essere un inizio di vita?  Se il bruco esce dalla dura e chiusa crisalide per trasformarsi miracolosamente in farfalla, perché la vita terrena dell’uomo, pur prigioniera di un involucro di morte, di morte virtuale e attuale, non dovrebbe, alla fine di un invisibile processo di mutamento e trasformazione, abbandonare il suo corpo mortale per rinascere in un corpo di luminosa immortalità? Non è forse vero che per tutte le religioni del mondo, e non certo per motivi casuali, la farfalla sia assurta a simbolo universale della morte e della risurrezione? Gli ultimi versi di una bellissima composizione poetica del filosofo Carlo Michelstaedter, morto suicida in giovanissima età, recitano significativamente: «morte, vita, la morte nella vita; vita, morte, la vita nella morte»4. All’affermazione esistenzialista per cui noi viviamo per morire, è proprio così irragionevole contrapporre l’affermazione cristiana per cui moriamo per risorgere?5.

Di quale morte, dunque, si intende parlare? Di una morte biologica reale che però potrebbe rivelarsi morte apparente in quanto equivalente solo ad una fase provvisoria di una più complessiva dinamica di vita reale, oppure di una morte reale che potrebbe rivelarsi definitiva e non suscettibile di sbocciare ad alcun’altra forma di vita nuova? La scienza, al riguardo, non può pronunciarsi perché non dispone ancora di mezzi conoscitivi che le consentano di esprimere un giudizio sperimentalmente inoppugnabile, e teoreticamente il ventaglio dei possibili percorsi euristici è ancora più ampio e variegato. Quando si potrà stabilire con incontrovertibile certezza che la vera nascita ontogenetica avvenga nel già noto e sperimentato ordine naturale di questo mondo e non piuttosto nell’ordine extranaturale di un mondo o di mondi altri, ignoti ma non necessariamente chiusi a qualsiasi possibilità sperimentale? Uno scienziato come Robert Lanza ha cercato di spiegare che la vita è inseparabile dalla coscienza della vita e che, se è vero che la coscienza ha un’origine corporea, è altrettanto vero che il corpo, come la materia, traggono la loro vita dall’attività significante della coscienza, senza la quale sarebbero come sfinge impenetrabile e informe. Allora, è vero che il corpo genera coscienza e che questa muore con il morire del corpo, ma, poiché il corpo vive solo della vita che gli trasmette la coscienza, la quale è pertanto irriducibile alla corporeità e di essa motore, può darsi che esso continui a ricevere impulsi di vita da una coscienza ormai muta ma non del tutto inattiva e nello stesso modo in cui un decoder non smette di ricevere segnali dal satellite.   

Può darsi, cioè, che il corpo non finisca con la morte fisica6, continuando ad esistere la coscienza, sotto forma di energia, al di fuori dei vincoli di tempo e spazio, così come la tartaruga esiste senza il suo carapace. Se la coscienza può esistere ovunque, nel corpo umano e fuori di esso, è altresì possibile che essa possa esistere non solo in questo universo ma in universi multipli contemporaneamente anche se in forme corporee diverse da quella assunta nel corso dell’esperienza terrena, per cui in un universo, e segnatamente in quello terreno, il corpo può essere morto, può essere solo allo stato cadaverico, mentre in un altro può continuare a vivere, ricevendo un energico segnale di vita dalla coscienza che va migrando di dimensione in dimensione. La coscienza e l’energia che essa sprigiona possono plasmare materia, realtà, vita, in forme inimmaginabili. Ma, mentre ci si chiede se ci sia vita oltre questa vita, se si dia dunque una vita immortale, ci si scopre sorprendentemente ignoranti sul concetto stesso di vita, nel senso di non poter continuare a dare per scontato che gli esseri umani sappiano realmente cosa sia vita, solo per averne fatto una qualche generica e frettolosa esperienza. Persino gli esseri umani che siano stati capaci di farne un’esperienza particolarmente attenta e profonda, non sono in grado di immaginare, con una qualche precisa cognizione di causa, quali forme di significato, di valore e di bellezza potrebbero esprimerne ed esaltarne indefinitamente tutte le intrinseche potenzialità creative7. Se vi siano e quali siano i possibili margini di dilatazione qualitativa di ciò che chiamiamo vita, nessuno è stato mai in grado di stabilirlo in modo specifico, anche se i credenti nel logos cristiano confidano di poter scoprire attraverso Cristo in che cosa consistano la densità e l’estensione effettive del concetto di vita e, soprattutto, la realtà della vita nella sua pienezza e nella ricchezza delle sue manifestazioni.

Fino a quando i vertici estetico-valoriali, esistenziali e spirituali della vita verranno concepiti o ipotizzati sulla base di pur accreditate categorie conoscitive, etiche, estetiche del mondo storico-umano, c’è da temere che essi non possano che rispecchiare assai imperfettamente tutti i tesori nascosti della vita. Si può solo supporre che, dietro tutta quella materia fisica ed energia cosmica percepibili attraverso sofisticati apparati osservativi e sensoriali ma ancora sconosciute e anzi invisibili, si celino sorprendenti e inquietanti abissi di vita con cui anche il nostro piccolo mondo di vita potrebbe avere una diretta relazione. Ma, beninteso, il supporre l’esistenza di forme immortali ed eterne di vita, non significa togliere inavvertitamente valore alla vita finita che intanto ci tocca di vivere8: come dire che, in confronto di quella vita senza morte e senza limiti, questa piccola, breve e faticosa vita, potrebbe ritenersi ben piccola cosa, in quanto l’energia spesa per amministrare al meglio la vita e le cose di questo angolo di universo potrebbe convertirsi, per un principio di conservazione e trasformazione dell’energia cosmica, in energia utile o indispensabile a interagire con forme e condizioni diverse di esistenza. Per questa stessa ragione, si può supporre anche che quella stessa coscienza che, come detto, tende ipoteticamente a sopravvivere come autonomo centro di energia rispetto alla fine dell’attività cerebrale e alla sua carcassa corporea, continui ad inviare impulsi di vita anche al di là del ciclo terreno di vita e in un corpo non più mortale ma immortale oltre che identico e diverso ad un tempo rispetto a quello precedente. Identico e diverso, perché in effetti il vero problema non sarebbe tanto quello di continuare a vivere, sia pure in dimensioni extraspazio-temporali, ma quello di continuare a vivere rimanendo se stessi. In generale, si può ancora una volta solo supporre che l’elemento identitario sarebbe dato dall’attività mai interrotta della propria coscienza personale, mentre l’elemento differenziatore deriverebbe dall’humus radicalmente diverso di vita, anche sotto l’aspetto biologico, con cui tale coscienza dovrebbe relazionarsi ex novo.

Tuttavia, non è logicamente sostenibile che, poiché la vita si ricostituirebbe identica e diversa in un nuovo corpo e in un nuovo mondo per effetto dell’energia che la stessa coscienza individuale continua ad emettere anche al di fuori del suo cadaverico corpo terreno e in qualunque ambito cosmico, la morte in effetti non esisterebbe se non in modo puramente illusorio. La morte non è solo, come sostiene Robert Lanza, il frutto del nostro pensiero. Dire che spazio e tempo siano modalità della nostra intelligenza soggettiva oppure che l’universo materiale esiste nella percezione e nella rappresentazione che ne dà l’intelligenza o la coscienza, è una cosa, e semmai questo fa emergere il concetto per cui l’uomo probabilmente potrebbe non giungere mai a conoscere sia l’universo che i fenomeni che vi hanno luogo nella loro totale oggettività sia anche la superiore ed extraumana intelligenza che li governa, ma dire che l’universo si risolva interamente nell’energia creatrice di una mente o di più menti che lo intenzionano nel senso critico-fenomenologico, o che la morte letteralmente non esiste semplicemente in quanto, dopo la morte del corpo, quest’ultimo continuerebbe a ricevere i segnali della coscienza funzionante come indistruttibile e inesauribile generatore di energia, sono cose completamente diverse e non sostenibili, per il semplice fatto che non c’è nulla che possa impedire una così radicale e devastante implosione di tutti i possibili universi cosmici da annientare completamente tutte le sue fonti o riserve di energia, ivi comprese quella dell’umana intelligenza o di forme alternative di intelligenza creaturale.

Ora, non posso essere sicuro che le teorie e le congetture di scienziati come Robert Lanza, Stuart Hameroff e Roger Penrose9, per quanto ancora molto dibattute e giudicate con scetticismo in ampie porzioni della comunità scientifica10, si configurino esattamente nei termini della sinteticissima e probabilmente inadeguata interpretazione che ne ho appena dato, ma se quel che ho appena detto non dovesse risultare troppo lontano dalle loro idee o almeno dalle più corrette traduzioni mediatiche ed editoriali che se ne danno, sarebbe pienamente legittimo ritenere che la morte, pur non interrompendo probabilmente il flusso di energia di una coscienza individuale eterna e quindi i processi ricostitutivi della vita, sia tuttavia un fatto assolutamente e irreversibilmente reale. Si vive una volta, si muore una volta in un mondo chiamato terra ed esistito da sempre insieme ad altri innumerevoli e sconosciuti mondi, e si può continuare a vivere altrove, in altri corpi e con diverse modalità, solo risorgendo dalla morte, non certo in virtù di semplici automatismi inerenti le infinite masse cosmiche di materia-energia, come realtà oggettiva di totale annientamento della vita. Ma, d’altra parte, a nessuno, scienziati, filosofi o mistici visionari, è possibile stabilire, sia pure per via intuitiva o per via di congettura razionale, se dopo una possibile risurrezione da morte terrena si possa incorrere in una seconda e definitiva morte, sebbene le indicazioni bibliche al riguardo sembrerebbero essere affermative.

Tutto ciò detto in termini di commento filosofico ad alcuni recenti approcci al problema del rapporto biofisico tra vita e morte cellulare e cerebrale, e del rapporto tra la vita biologica dell’ambiente spazio-temporale ed eventuali forme di vita postbiologica e riferibili a contesti non spaziali e non temporali, si può e si deve osservare che proprio espressioni così significative di una scienza come non mai in fermento e audacemente predisposta a misurarsi su questioni fino a qualche decennio addietro ritenute non trattabili in sede scientifica, inducono non solo a sperare nell’acquisizione di nuove e sensazionali conoscenze teorico-sperimentali, ma anche e soprattutto in una significativa, se non decisiva, intensificazione del confronto tra scienziati, e in particolare tra fisici, biologi, filosofi, da una parte, e teologi dall’altra11. Esso vuole essere un tentativo parzialmente multidisciplinare di ripensare la risurrezione non solo in chiave religiosa ma anche alla luce di lenti sofisticate come quelle della fisica quantistica.

In tal senso viene ribadito, sulla scorta degli studi degli scienziati prima citati, che non la coscienza è una manifestazione della corporeità ma la corporeità è manifestazione della coscienza, donde anche l’irriducibilità della coscienza all’attività cerebrale, per cui sarebbe ancora pienamente legittima un’ipotesi di intersecazione logico-teorica tra ricerca scientifica e vita spirituale. Più in generale, qui si cerca di proporre una costruttiva convergenza tra fisica quantistica e spiritualità cristiana, secondo una prospettiva inaugurata circa ottant’anni or sono dallo psichiatra Carl Gustav Jung e il fisico Wolfgang Ernst Pauli12. Alla luce di una tale, sia pure ancora ipotetica, convergenza si confida nella concreta possibilità che anche il linguaggio scientifico possa risultare finalmente funzionale, o più funzionale che in passato, ad una rigorosa interpretazione di metafore, simboli e intuizioni mistiche, abbondantemente ricorrenti nelle Sacre Scritture. Centrale, nel quadro di una siffatta impegnativa riorganizzazione del contemporaneo sapere inter e multidiscipli-nare, resta naturalmente il tema della risurrezione, che evoca, più di qualunque altro tema biblico-evangelico, la legge universale della conservazione e della trasformazione dell’energia. Ma, come di consueto, anche in questo caso resta ben ferma la consapevolezza del fatto che la funzione rischiaratrice della scienza in nessun modo potrà risultare decisiva ai fini di una corroborazione sperimentale dei contenuti della fede religiosa non solo perché all’attendibilità di quest’ultima basta la Parola di Cristo, ma anche perché i risultati della scienza, per quanto precisi e verificabili, sono pur sempre fallibili e soggetti a continua revisione e approfondimento conoscitivi.  

Questa avvertenza non toglie, tuttavia, che se anche la scienza, in forme sempre più avanzate e significative, potesse contribuire a gettare nuova e intensa luce sulle ragioni più interne della fede e sugli scenari metafisici ed escatologici più grandiosi e coinvolgenti da essa descritti e anticipati, nella storia dell’umanità potrebbero cominciare ad aprirsi realisticamente le porte di misteri atavici e di vitale importanza per l’umana esistenza, a cominciare dalla morte e dal suo complesso rapporto con la vita13. Quando dal credere che, oltre la morte, le cose stanno o non stanno in un certo modo, si passasse realmente al sapere quel che oggettivamente accade nella morte e al di là della morte14, si raggiungerebbe la certezza che la vita umana sia stata progettata per compiere un viaggio con molte fermate ma interminabile attraverso mondi inesauribilmente ricchi di conoscenza, umanità, spiritualità e, in una parola, vita. Ma il viaggio non si svolge per tutti nello stesso modo perché, a seconda di come venga utilizzata l’energia della vita o le diverse possibili fonti della vita in rapporto agli eventi che lo attraverseranno in ogni sua fase, per alcuni sarà un viaggio su cui incomberà costantemente una minaccia o un senso di morte, per altri invece un viaggio su cui il sorriso della vita e il ghigno della morte si alterneranno costantemente fino ad un punto di rottura dell’equilibrio a favore dell’uno o dell’altro, per altri ancora un viaggio su cui sembrerà sempre aleggiare il favore della vita senza che la morte rinunci tuttavia a tentare di prendersene gioco. Le combinazioni possibili saranno molteplici e tutte costitutivamente collegate ai modi in cui e agli scopi per cui saranno utilizzate le quote o le quantità di energia di cui ogni individuo è potenzialmente munito all’inizio del viaggio e che, nel corso di esso, ogni individuo, in maggiore o minor misura, sarà capace di non disperdere ma anzi di incrementare. Se ogni viaggio sarà stato alla fine quello di una vita morente verso la vita, ovvero di un’energia consumata o impiegata per accumularne di nuova in forme via via differenziate, o quello di una morte vivente verso la morte, ovvero di un’energia semplicemente sprecata o dissipata15, non potrà mai essere accertato per via puramente soggettiva ma oggettivamente, per via di un’intelligenza supersviluppata e ben più potente di tutta l’intelligenza umana accumulatasi per millenni, in base alla legge di espansione energetica delle realtà materiche dell’universo, la cui quantità di energia accumulata continuerebbe a sussistere e ad assolvere una funzione vitale di natura rigenerativa anche se esse fossero soggette, non meno di tutte le realtà finite, a processi distruttivi.

Ora quel che si è cercato di dire, alla luce del principio sia pure qui genericamente utilizzato della conservazione e trasformazione dell’energia, è che anche il bene prodotto dall’uomo, e tutto ciò che possa rientrare funzionalmente in esso, lungi dall’andare perso con la morte e dal poter essere utilizzato solo in un ambito storico-umano e culturale, si conserva nell’intero universo trasformandosi in punti più o meno luminosi ovvero carichi di energia che concorrono alla costituzione evolutiva di mondi sempre più complessi, ordinati, armoniosi e soprattutto ricchi di forme inesauribili di vita perennemente e creativamente rigenerante. La vita e l’energia spirituale dell’uomo sono infatti parte integrante della vita o dell’energia cosmica e qualunque sia l’effetto, integrativo o dissipativo di energia, che ne provenga, esse incidono sempre e comunque, in misura più o meno significativa o anche per nulla significativa, sull’evoluzione trasformativa di tutte le realtà visibili e invisibili dell’universo o di un conglomerato ancora ampiamente inaccessibile di universi possibili. Questo è un punto in cui esperienza scientifica ed esperienza mistica, pur attraverso linguaggi diversi, potrebbero raggiungere significative convergenze16.

Nell’universo tutto è in relazione con tutto e persino i fenomeni apparentemente più lontani, inconciliabili e irriducibili a un principio comune, sono spiegabili in realtà solo come espressioni di un’unica sostanza e alla luce di un unico principio unificante17 e anche determinate forme di vita possono in realtà contenere implicazioni di morte, mentre viceversa talune forme di morte possono veicolare costitutivamente forme quanto mai radiose e resistenti di vita18. La mente umana non percepisce l’invisibile relazionalità esistente tra realtà apparentemente diverse perché essa, continuamente distratta da molteplici attività e occupazioni quotidiane, non riesce a vedere se non le cose immediatamente percepibili dalla coscienza e non tutto ciò che rimane avvolto nell’ombra delle apparenze, per cui sarebbe possibile che in mondi diversi dal nostro un essere umano, dotato di caratteristiche diverse da quelle che possiede nel mondo terreno, possano sperimentare fenomeni e persino banali operazioni di vita quotidiana in una direzione opposta a quella in cui possono essere sperimentati sulla terra: il tempo che qui è irreversibile, per esempio, altrove potrebbe essere sperimentato a ritroso: non dal presente al futuro ma dal futuro e dallo stesso presente al passato, come nel caso dell’uovo da cui si può ottenere una frittata senza che, in questo mondo terreno, si possa ottenere il contrario, cioè la trasformazione della frittata nell’uovo19. Ora, proprio l’esperienza interna, non solo esteriore, della morte, potrebbe svelare un giorno, al cospetto di una moltitudine di nuovi vivi, una mole impressionante di verità oggi completamente nascoste. Tutte quelle domande a cui nessun umano avrà potuto dare risposta nel corso della sua vita terrena, per mezzo della scienza, della filosofia, del sapere in generale e della tecnologia,  o della stessa teologia, potrebbero trovare forse risposta proprio attraverso la morte, proprio attraverso una sospensione più o meno prolungata di vita, suscettibile di rivelarsi propedeutica a nuove e originali esperienze di vita oppure ad esperienze di vita addirittura più informi e insignificanti delle esperienze esistenziali più tristi e avvilenti vissute su questa terra.

Poiché, per effetto delle teorie quantistiche, si potrebbe continuare a vivere pur cambiando corpo, ogni defunto potrebbe andare incontro a specifiche esperienze vitali, dipendenti dall’apporto di energia rigenerativa che ciascun individuo sarà venuto arrecando, a seconda di un impiego più o meno redditizio che avrà inteso dare della sua energia naturale, alla complessiva economia energetica dell’universo o del megaverso. Una di queste esperienze potrebbe anche corrispondere, in effetti, a forme talmente sterili e improduttive di vita, talmente chiuse in se stesse e a reali e rigogliose forme altre di vita, da rientrare in quella realtà escatologica nota come “seconda morte”. Com’è noto, nell’ottica cristiana la vita dopo la morte è il risultato di ciò che siamo stati, di come abbiamo vissuto, delle scelte che abbiamo o non abbiamo compiuto e dei motivi che hanno determinato le nostre decisioni. Con questo il cristianesimo fuga ogni dubbio circa il fatto che la morte e l’al di là contino più della vita terrena e del nostro impegno nell’al di qua, perché in realtà inferno e paradiso cominciano in questa vita, hanno le loro radici nei processi esistenziali che si svolgono in questa parte dello sconfinato universo. E’ ormai a tutti evidente quale gravoso impegno di vita storica sia stato richiesto persino al Cristo per recuperare il privilegio della vita eterna.

Al di là dei validissimi contributi che, nonostante i pregiudizi scettici di tanto laicismo ostile alle ragioni della fede, potrebbero venire alla chiarificazione razionale di alcune verità dogmatiche dell’annuncio evangelico, la risurrezione, da non confondere con la reincarnazione, è non solo sinonimo di vita che riprende, che continua, che appunto risorge, in forma definitiva e per ciò stesso regolata da meccanismi in parte diversi da quelli della vita terrena, ma è anche momento di sanzionamento della validità o dell’invalidità, della santità o dell’empietà di una vita, di ogni singola vita che varca la soglia della morte. «Re-surgere ci parla di chi si “rialza dallo stare piegato”. È una legge inscritta nella creazione: tutto ciò che è caduco nasce nel suo al-di-là. La notte quando lascia spazio al giorno, il bruco quando si trasforma in farfalla, quando il buio (interiore) improvvisamente lascia spazio alla luce. Chi risorge, lo fa per aver attraversato la morte: un tradimento, un fallimento, una malattia, una violenza. La vita che viene dopo germina da quella morte»20. La verità, per i credenti cristiani, è che la morte di Gesù non coincide affatto con «la morte di Dio» solennemente decretata dalla cultura moderna anche al di là delle intenzioni di Friedrich Nietzsche, ma con la vittoria della vita divina, eterna e immortale, sulla morte e sulla vita mortale degli uomini. Il che significa che la morte è funzionale ma non necessaria alla vita.

La morte equivale ad un graduale ma inesorabile ritrarsi della corporeità dal suo naturale processo di espansione, ad un ritirarsi lento e irreversibile, anche se non necessariamente passivo e improduttivo, dell’individuo dalla sua stessa vita biologica, neurologica, e poi anche sociale ed esistenziale: quasi un naturale bisogno di congedarsi da forme di vita non più consone alle proprie esigenze esistenziali e spirituali e al connesso e altrettanto naturale bisogno di forme qualitativamente più piene e partecipative di vita. Si è naturalmente liberi di credere che il paradiso sia solo una favola «per chi ha paura del buio»21, anche se solo da vivi, cioè da persone spiritualmente coscienti, si può avere paura del buio, non certo da morti, ma, anche in base a quanto si è venuto fin qui decidendo, tutto quel che si può sostenere con una certa linearità logica è che, quanto meno, la questione dell’immortalità e della vita eterna, indipendentemente dal fatto che sia una vita festosa o una vita luttuosa, è una di quelle questioni che, in sede logico-scientifica, vengono definite come “indecidibili”. Quello che piuttosto non capisco è per quale motivo anche molti cattolici di alto profilo ecclesiastico e teologico continuino a sostenere che il paradiso, come l’inferno e il purgatorio, sarebbero «condizioni dell’anima, non luoghi», pur senza esitare a riconoscere che «nel Cristianesimo la risurrezione della carne è centrale. Io non ho un corpo; io sono un corpo»22.

Non lo capisco, perché se io sono un corpo, il mio corpo non può che esercitare le sue funzioni vitali in un determinato campo visivo, tattile, olfattivo, gustativo, uditivo, affettivo e relazionale, e questo non può accadere che all’interno di un mondo di esperienza, di un mondo-della vita reale e non simbolico o metaforico, di un mondo-della-vita non più spazio-temporale o non più solo spazio-temporale come quello di natura terrena ma, insomma, necessariamente dotato anche di una qualche forma di spazialità forse intemporale o atemporale o ad intermittente temporalità-intemporalità, necessariamente dotato di determinate proprietà fisiche, chimiche, elettrodinamiche, a noi sconosciute, come peraltro può agevolmente inferirsi dal Cristo risorto che passeggia sulla riva del lago o del mare di Galilea e mangia pesce in presenza dei suoi discepoli, pur attraversando al tempo stesso i muri delle case e apparendo nello stesso istante in luoghi diversi. Francamente, ho difficoltà a capire per quali ragioni dalla bocca di illustri e dotti prelati, che dovrebbero essere anche esemplari e irreprensibili uomini e maestri di fede, escano talvolta parole e interpretazioni talmente gratuite o incongruenti da rischiare di minare alla base la stessa solidità della fede in Gesù Cristo. Si può parlare di “condizioni dell’anima” che non siano anche condizioni corporee sia pure avvolte dalla luce della gloria celeste? Così ragionavano gli antichi filosofi greci di scuola o derivazione platonica, ma il Cristo è venuto a salvare l’uomo integrale, l’uomo come composto di anima e corpo23. Il paradiso è il luogo-stato di ricostituzione o di ricreazione di quell’unità originaria di anima e corpo che sarebbe andata incontro ad una dolorosa scissione a seguito del peccato originale e che molto faticosamente si sarebbe trattato di ricomporre con una vita terrena supportata dalla riconciliazione con Dio e dalla grazia divina. Il paradiso è certamente uno stato di vita gloriosa per i beati, mentre l’inferno è uno stato di vita tenebrosa per i dannati, e l’uno e l’altro sono anche luoghi: di luce, di fertilità, di abbondanza e di beatitudine per i primi; di oscurità, di aridità, di miseria e di infelicità per i secondi.

Questo dice la Bibbia e il Nuovo Testamento, questo dice la dottrina cristiana custodita dalla santa Tradizione della Chiesa. Per tornare a vivere dopo la morte, l’uomo e la donna hanno bisogno di indossare una nuova ma reale corporeità capace di esprimere pensieri, sentimenti, gesti tanto fisici o materiali quanto intellettuali e spirituali. Il che è possibile solo sotto nuovi cieli e nuova terra (2Pt 3, 13 e Ap 21, 1), cioè all’interno di un universo retto da leggi astronomiche, biogeologiche, e insomma da leggi complessive di vita completamente diverse da quelle cui è sottoposto il funzionamento del nostro pianeta e delle forme di vita che vi appartengono. Non si hanno prove scientifiche che il paradiso esista realmente, non solo come realtà spirituale ma come realtà fisica, visibile, ma i riferimenti teorico-scientifici contenuti nelle pagine precedenti, pur non autorizzando alcuna ipotesi al riguardo, non sono affatto preclusive verso la fede cristiana in una vita nuova ed eterna. Certo, il paradiso è, a tutt’oggi, invisibile, ma, a parte il fatto che per i nati ciechi tutto è invisibile anche se si trovano a vivere in un parco bellissimo e rigoglioso di colore e di vita, popolato da piante e alberi lussurreggianti, da animali di ogni genere, da un dolce e melodioso canto di uccelli, dal silenzioso fluire di pulitissimi corsi d’acqua e da un clima fresco e sano, invisibili sono anche molte nozioni di scienza: campo elettrico, campo magnetico, campo gravitazionale, radiazioni elettromagnetiche, la materia e l’energia oscure, i multiversi, ma anche l’ossigeno, la gravità o la rete WiFi. Invisibili, ma realmente esistenti con implicazioni di straordinaria importanza per la vita in generale. Si danno anche altre realtà invisibili e non misurabili scientificamente, ma senza le quali la vita umana non sarebbe possibile: l’amore, la dignità, la giustizia o la speranza. Ora, anche quel mondo trascendente, noto come paradiso, che si caratterizza prevalentemente come mondo di perfetta e compiuta spiritualità, pur essendo invisibile potrebbe essere o rivelarsi del tutto reale.

La scienza avanza a colpi di atti di fede: nella razionalità del reale e nella conoscibilità delle leggi razionali del reale. Capisco che la fede religiosa non è paragonabile alla fede scientifica, ma è comunque fede in qualcosa che potrebbe esistere per il semplice fatto che sembra poter corrispondere a certe aspettative razionali, morali, spirituali della specie umana, da alcuni ritenute illusorie solo su base polemica o ideologica, esattamente come certe scoperte scientifiche, prima di essere tali, sembrerebbero corrispondere a determinate e in apparenza fragilissime intuizioni della mente: non si dimentichi che “La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede” (Eb 11,1). Tutte le prove, le dimostrazioni, di qualunque genere, infatti, nascono sempre come fede, dalla fede, per mezzo della fede. Il paradiso, per via di fede, potrà realmente mostrarsi, a determinate condizioni, in una sua materiale e visibile esistenza, nel suo essere, come dicono importanti testi neotestamentari, luogo dove sono custoditi il nostro tesoro (Mt 19, 21), la nostra cittadinanza (Fil 3, 20), la nostra eredità (1 P1, 4-5) e la nostra speranza (Col 1, 5).  Ho detto luogo, perché torno a ripetere che il paradiso non è né una metafora, né un semplice stato mentale, ma un luogo reale (Gv 14, 2-4; At 1, 9-11; 7, 55-56). Nel paradiso, i redenti, contrariamente a tanta diffusa e fanciullesca iconografia, non fluttueranno con arpe auree in compagnia di angioletti paffuti, ma correranno, canteranno e suoneranno, continueranno a conoscere indefinitamente, rideranno e riposeranno e, se vorranno, mangeranno e berranno allegramente senza gozzovigliare, compiacendosi ancora una volta e definitivamente dei meravigliosi doni divini.

Nella storia del pensiero filosofico, com’è noto, esistono molte anime e quindi anche il tema della morte per alcune di esse sarà centrale, per altre marginale o secondario. Bisogna pensare sempre alla morte come tema ricorrente e decisivo della vita e addirittura come tema ancora più importante del tema della vita stessa, oppure ad essa non conviene pensare ossessivamente essendo più utile affrontare la vita giorno per giorno con serietà e non certo per dissiparla e semmai preparandosi ad affrontarne il mortale epilogo con sufficiente serenità?24. Essenzialmente sono queste le alternative di fondo che sembrano emergere dalla storia della filosofia di tutti tempi, sia pure con implicazioni diversificate nell’uno e nell’altro caso. Ma, se si dovesse decidere in quali di questi due casi, la fede nella risurrezione potrebbe meglio innestarsi o trovare la più giusta collocazione, essa potrebbe rivelarsi opportuna e necessaria in entrambi i casi, perché in entrambi i casi l’unica possibile barriera all’irreversibilità di quella morte che su tutto sembra vincere e tutto sembra spazzare via potrebbe essere costituita appunto dall’evento salvifico di una risurrezione sovrannaturale ovvero di una radicale  conservazione trasformativa della corporeità e della materia in assenza delle quali non si darebbe, se non in modo contraddittorio, alcuna possibile forma di spiritualità.

La spiritualità o la non spiritualità di una vita non dipendono dall’aver o dal non aver cura delle cose o dei beni materiali, ma dai modi in cui di essi ci si venga prendendo cura. Il mondo materiale è parte integrante della vita spirituale dell’uomo, la quale sarà qualitativamente migliore o peggiore, eccelsa o infima, a seconda di come essa, in situazioni esistenziali diverse, venga esercitandosi in relazione ai beni materiali e immateriali del mondo e alle sue opportunità di benessere, di potere, di condivisione solidale. Il peccato non è nella corporeità, nella materia, nella carne in quanto tali, ma negli usi egoistici, smodati, empi e perversi che se ne vengano facendo. La crocifissione della carne non è simbolo di disprezzo e maledizione della carne ma di purificazione e trasvalutazione delle forme erronee e corrotte in cui essa viene generalmente pensata e vissuta. La carne, come la complessiva realtà materiale del mondo, va tramutata, va trasfigurata in un crescente e sacrificale rapporto d’amore con Dio e con il prossimo, là dove quanto maggiore è l’unità che si stabilisce con essi tanto più forte è l’energia spirituale che ne deriva e l’energia di tutto il creato: un’energia che, sia pure attraverso processi invisibili, potrebbe giungere a perforare il potere apparentemente inespugnabile della morte.

Dunque, non è affatto vero che spirito e materia siano antitetici o necessariamente antitetici, perché, come si è visto, a determinate condizioni, lo spirito è condizione di vivificazione e di esaltazione della materia e la materia è condizione di sorprendente estrinsecazione della spiritualità. In conseguenza di tale assunto, la morte non è l’ultima parola della vita e, tanto meno, la vittoria sulla vita, ma semplicemente la fine di un ciclo della vita suscettibile di rinnovarsi in forme identitarie infinite proprio in virtù di un’energia spirituale in grado di trasformare in molteplici modi, su molteplici piani e per molteplici vie, scientificamente designabili come leggi o princìpi, le strutture materiali della vita. D’altra parte, se tutto ha avuto inizio e tutto finisce o deve finire, non si comprende in base a quale argomentazione si debba ritenere che tutto non possa o non debba avere un nuovo inizio e, questa volta, per non avere più fine. Se è vero che la vita va incontro alla morte, quale sarebbe il ragionamento di stringente valore logico che ci obbligherebbe a negare che l’economia della vita preveda la morte non come momento terminale ma come momento transitorio e generativo di altra vita?25. Si è detto che non tutte le realtà della vita universale sono visibili, misurabili, quantificabili, anche se, senza esse, molte cose, molti fenomeni non potrebbero aver luogo né in natura, né nel mondo storico-umano: per questo stesso motivo, ove non si voglia riconoscere alcuna attendibilità alle ragioni della fede, tutto quello che può essere consentito sul piano logico-razionale è una sorta di dubbio metodologico, di possibilismo teorico, ma non certo la possibilità di asserire l’assoluta cessazione di vita con il sopraggiungere della morte.

Tutto questo appare correttamente sostenibile, senza dire che per molti esseri umani, anche credenti, la vita, da intendere concretamente come questa vita, non sarebbe per niente desiderabile se fosse eterna. Ciò è dimostrato empiricamente non solo da tante vite umane spezzate dal dolore, da fallimenti o da immani tragedie, che anelano alla morte come ad un porto di eterno riposo, ma anche da alcuni ultracentenari, da me stesso conosciuti, che, pur grati alla natura o a Dio di aver potuto vivere così a lungo, non di rado vengono esprimendo, con visibile sofferenza, il desiderio di congedarsi al più presto da una vita ormai troppo gravosa per poter essere ancora agognata. Che è quello che sembra confermare quanto ebbe a dire una volta Benedetto Croce per motivi non strettamente legati all’età anagrafica, e cioè che, ad un certo punto, l’uomo di ragione avverte il bisogno di evadere da quella grande prigione che è la vita26. D’altra parte, nella società non solo “liquida” ma ormai addirittura “gassosa” del terzo millennio , dei social media e della comunicazione digitale, in cui ogni idea, ogni pensiero, ogni narrazione, più che valere in relazione a determinati punti di vista soggettivi, tendono ormai ad evaporare e a svanire istantaneamente dal dibattito pubblico nel quadro di un frenetico avvicendarsi di fatti, notizie, interpretazioni che si autosopprimono continuamente gli uni con gli altri senza lasciare tracce di verità appena plausibili o di oggettività etica e conoscitiva almeno possibile, anche di fronte alla morte la coscienza collettiva tende a non porsi più tante domande di carattere etico, spirituale o religioso, ma a viverla con leggerezza, con relativo disimpegno anche emotivo che costituisce probabilmente un fenomeno inedito nella storia delle civiltà. Tutto quello che l’uomo globale è capace di coltivare intimamente si riduce verosimilmente ad un’istintiva pulsione di vita o meglio di sopravvivenza egocentrica quanto più possibile prolungata nel tempo: egocentrica in quanto all’uomo come individuo, come persona, interessa principalmente la propria sopravvivenza e quella di quanti appartengano alla ristretta cerchia dei suoi affetti più cari, mentre interessa solo in modo secondario o indiretto quella dell’umanità come specie. La realtà, la verità, l’identità, il senso delle cose, sono solo quelle che possono stabilirsi nel sociale, nello spazio della volatilità sociale, non in ambiti relazionali di tipo spirituale e ancor meno in un ambito di trascendenza.

Platone definiva il sociale come “un grosso animale” che, in forza di bisogni denominati “valori”, condiziona fortemente gli individui spingendoli a stimare se stessi essenzialmente in senso sociale e ad assumere come beni certe convinzioni sociali indipendentemente dalla loro destinazione27. Una di queste convinzioni sociali è, in questo tempo di valori talmente rarefatti da poter essere confusi con il loro contrario, è che la guerra, ineguagliabile strumento di morte, vada aborrita sempre e comunque, a prescindere dalle ragioni e dalle responsabilità specifiche che la vengano generando, con la conseguenza di consentire a quanti la guerra intendano utilizzare come potente strumento di oppressione altrui o in essa colgano un’opportunità di conquista espansionistica, di sfruttamento e  controllo sulla vita di interi popoli, il perseguimento di disegni collettivi di morte. Il frequente disimpegno delle masse dalla doverosa resistenza bellica a tanti potenti e spregiudicati organizzatori politici di morte collettiva, pone le basi di quella che può definirsi come la retorica della morte, consistente in una condanna generica e declamatoria della violenza e della guerra per le vittime che inevitabilmente esse mietono ma finalizzata non tanto a impedire la morte altrui o a ridurre il numero di morti innocenti quanto ad evitare il coinvolgimento dell’intera società e di se stessi negli orrori di una guerra. L’importante è, ormai, sottrarsi nel modo più prudente e sicuro possibile alla morte, a prescindere dal fatto che la propria morte possa servire alla difesa della vita e della libertà altrui, del proprio o altrui onore, della patria o di una parte molto estesa di una comunità internazionale. Non c’è vero rispetto per la dimensione relazionale e comunitaria della vita, tranne che per motivi meramente strumentali, opportunistici o demagogici, quasi che il senso umano, etico, spirituale della vita, possa ridursi ad una sua dimensione monadica e senza capire che anche le vite individuali sono più protette e sicure se ci si adopera, ognuno secondo le sue reali possibilità, a favore della vita altrui, della vita di tutti coloro che siano o potrebbero essere in difficoltà o in un determinato stato di necessità28.

E, siccome la vita conta solo per i suoi aspetti pratici e grettamente utilitaristici, anche la morte vien fatta valere per motivi essenzialmente egoistici e meschini, non certo per i suoi risvolti metafisici e religiosi o per le sue possibili implicazioni sul piano intellettuale, culturale, etico e sociale. A pensarci bene, lo stato di relazionalità, di aggregazione, in cui versa l’umanità contemporanea, è appunto di natura gassosa o aeriforme, per cui la materia viva delle relazioni personali che la costituiscono e della stessa società globalizzata, tende ad occupare lo spazio disponibile, lo spazio planetario, secondo le regole della temperatura, dell’eccitazione sociale e politica. Noi tutti versiamo in tale stato più che mai adesso che crolla il mito dell’infallibilità umana nelle forme un tempo ritenute solide della scienza, della fede, della politica, dell’economia. Crolla tutto, inevitabilmente. E crolla così velocemente da essere sostituito spesso da forme grottesche di cronaca e di opinione e da forme palesemente istintuali e irriflesse di desiderio e di follia per niente creativa. Perdono di senso, altresì, le virtù capitalistiche: l’ambizione, la finanza, l’investimento improduttivo, la competizione, l’egoismo, l’individualismo, il consumo, ma il loro posto viene preso da altre virtù forse anche più inconsistenti e volatili e attivamente veicolati dai social network: quelle connesse ad una volontà incontrollata di soggettività libertaria e volta ad esaltare i diritti soggettivi a disporre dei beni materiali della terra e della propria libertà personale al di fuori di qualunque vincolo di ordine rigorosamente logico-conoscitivo, morale, giuridico, politico e religioso. Tutti e ognuno vorrebbero crearsi un mondo a propria immagine e somiglianza, ma sempre di meno sono coloro che provano a chiedersi se, a prescindere dalle ricorrenti voglie umorali che in lungo e in largo attraversano la loro più intima e spesso inconfessabile umanità, non siano essi stessi, e per la migliore ottimizzazione possibile della loro esistenza, ad essere stati fatti ad immagine e somiglianza di altro o di Altro29.  

Quando l’uomo, come novello Diogene, avrà nuovamente il coraggio di uscire con una lanterna in pieno giorno per andare alla ricerca di qualcuno che abbia le qualità di quell’uomo capace di vivere secondo la sua natura razionale e quindi di ritrovare, al di là delle sue stesse abitudini personali e di tutte le convenzioni e le regole in parte giustamente imposte dalla società, le sue vere e inestirpabili radici ontico-esistenziali? Quando l’uomo sarà capace di ripensare la morte non solo secondo i modelli pure variabilmente legittimi dei suoi vissuti personali ma anche immaginando criticamente che essa possa continuare a racchiudere una legge universale di vita?

 

       NOTE

  1. A questa massima sono ispirate molte delle riflessioni contenute nel libro di Viktor E. Frankl, Sul senso della vita, Milano, Mondadori, 2022. Riflessioni molto profonde si trovano anche in T. Eagleton, Il senso della vita. Una introduzione filosofica, Milano, Ponte Alle Grazie, 2011.
  2. Anche se sarebbe giusto interrogarsi non solo sul senso o sui possibili sensi della vita ma anche sul senso o sui sensi nella vita, ovvero su quale sia il senso della nostra vita personale nell’atto di vivere la vita: F. Martela, Una vita meravigliosa. Come vivere un’esistenza ricca di significato, Torino, Lindau, 2021.
  3. Cfr. E. Severino & A. Scola, Il Morire tra ragione e fede, Venezia, Marcianum, 2014 e G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino, Einaudi, 1982.
  4. C. Michelstaedter, Il canto delle crisalidi, in Poesie, Milano, Adelphi, 1987.
  5. L. Boff, La nostra risurrezione nella morte, Assisi, Cittadella, 1984.
  6. Robert Lanza con Bob Berman, Biocentrismo. L’universo, la coscienza. La nuova teoria del tutto, Milano, Il Saggiatore, 2015.
  7. Da questo punto di vista, molto utile per complessità e problematicità, è l’articolo di S. Jorio, Come è cambiata l’essenza della vita, in Rivista on line “L’Indiscreto”, 26 giugno 2024.
  8. Cfr. Z. Bauman, Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Bologna, Il Mulino, 2012; A cura di S. Petrosino, Morte e immortalità tra rimozione ed esibizione, Milano, Jaca Book, 2023.
  9. S. Hameroff, Ultimate computing. Biomolecular consciousness and nanotechnology, Amsterdam, Elsevier, 1987 e R. Penrose, Ombre della mente. Alla ricerca della coscienza, Milano, Rizzoli, 1996.
  10. 10. Si può vedere, in proposito, l’articolo di G. Dotti, No, la teoria quantistica della coscienza non dimostra che l’anima esiste, in sito on line wired.it, 21 novembre 2017.
  11. Un segnale in questa seconda direzione sembra venire da un recente libro che propone un confronto a più voci sul tema della Risurrezione annunciata dal vangelo, e sul rapporto inclusivo ed escludente ad un tempo tra vita e morte. Il libro è quello edito nel 2024 da Gabrielli Editori di Verona e intitolato Resurrezione. Fisica quantistica, teologia e mistica a confronto, anche se va doverosamente precisato che dei suoi cinque autori solo uno è un fisico (Federico Faggin), mentre gli altri quattro sono biblisti, teologi o uomini di chiesa (Paolo Scquizzato, Paolo Gamberini, Annamaria Corallo, Luciano Locatelli).
  12. G. Greison, Ogni cosa è collegata. Pauli, Jung, la fisica quantistica, la sincronicità, l’amore e tutto il resto, Milano, Mondadori, 2023.
  13. Che costituisce un tema, anzi il tema su cui già la filosofia si è venuta abbondantemente misurando attraverso i secoli: cfr. G. Scherer, Il problema della morte nella filosofia, Brescia, Queriniana, 1995.
  14. E. Kübler-Ross, La morte e la vita dopo la morte «morire è come nascere», Roma, Edizioni Mediterranee, 2007.
  15. Considerazioni teoretiche molto sottili su questioni implicitamente comprensive di tali domande, sono contenute in A. Chiocchi, L’altro e il dono. Del vivente e del morente, Avellino, Associazione Culturale Relazioni, 2014 (sesta edizione).
  16. R. M. Bucke, La coscienza cosmica. Uno studio sull’evoluzione della mente umana, Milano, Crisalide Edizioni, 2000, ma anche M. Teodorani-M. Calcagno, CoScienza. Dialogo aperto tra scienza e spiritualità, Bologna, Le Due Torri Edizioni, 2019; R. Manzotti, La mente allargata. Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa, Milano, Il Saggiatore, 2019, e soprattutto N. D’Onghia, Siamo relazione. Neuroscienze e teologia: un incontro possibile, Assisi, Cittadella, 2020.
  17. H. Päs, L’Uno. L’idea antica che contiene il futuro della fisica, Torino, Bollati Boringhieri, 2024.
  18. Tra le tante pubblicazioni che concorrono ad evidenziare il significato non univoco ma polivalente della dinamica vita-morte, anche quella di Jim Al-Khalili, Johnjoe McFadden, La Fisica della Vita. La Nuova Scienza della Biologia Quantistica, Torino, Bollati Boringhieri, 2015. Quanto appena affermato nel testo sembrerebbe coincidere perfettamente con il concetto cristiano di risurrezione: J. Lazano Barrangán, La vita nella morte, Bergamo, Velar, 2013.
  19. S. Carroll, Dall’eternità a qui, Milano, Adelphi, 2012; imprescindibile la lettura del celebre testo di L. Susskind, Il Paesaggio cosmico. Dalla teoria delle stringhe al megaverso, Milano, Adelphi, 2007.
  20. F. Occhetta, Le ragioni laiche della risurrezione, in “Unione Cattolica della Stampa Italiana”, 12 aprile 2020.
  21. Stephen Hawking: il paradiso è solo una favola, in “La Stampa” del 16 maggio 2011.
  22. Intervista di Alessia Ardesi al cardinale Gianfranco Ravasi, «La fede è rischio, sento la fine e temo», in “Libero” del 19 luglio del 2021.
  23. In un ottimo scritto dedicato all’analisi critica paolina dell’evento storico-evangelico della risurrezione, N. Celeste, Corpi gloriosi. La resurrezione dei morti nella Prima lettera ai Corinzi, in “Siculorum Gymnasium. A Journal for the humanities”, 2022, LXXV, VIII, pp. 505-506, scrive: «La risurrezione, dunque, non è semplicemente la liberazione dell’anima celeste dalla prigionia del carcere del corpo, ma è la possibilità della partecipazione della stessa corporeità umana al rinnovamento escatologico, alla nuova vita “ultra-fisica” che si estende oltre la soglia della morte. Non esistono così due uomini e due corpi, ma un solo uomo nella caducità del corpo mortale e nella trasfigurata gloria della risurrezione».
  24. Una buona disamina, sotto questo aspetto, è contenuta in A. Oppo, Il pensiero filosofico e il tema della morte, Testo della conferenza tenuta a Cagliari, presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, 22 maggio 2014.
  25. Tra i tanti contributi a questo tema, anche quello di D. Baker, La Vita dopo la Morte, Milano, Crisalide Edizioni, 1993.
  26. Ne riferisce anche M. Veneziani, Croce, maestro di vita e di morte, in “La verità” del 21 novembre 2022.
  27. E’ un concetto espresso anche da S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Milano, Adelphi, 1983.
  28. E’ giustissima l’osservazione interlocutoria della psicologa trentina Paola M. Taufer, Società liquida o gassosa?, in suo sito on line, 31 maggio 2018: «Viviamo in una società liquida, come suggerisce Baumann? Io penso che il passaggio degli ultimi anni non sia solamente dallo stato solido e quindi con saldi valori universali quali il rispetto, la gentilezza, la solidarietà, allo stato liquido e quindi impalpabile, sfuggente, sempre in trasformazione. Io credo che l’umanità sia arrivata oramai ad uno stato gassoso, dove ognuno si sente in diritto di giudicare, di sentirsi superiore all’altro, di essere pieno di sé, uno stato individualista, egocentrico, narcisista come neanche Freud avrebbe potuto mai immaginare potessimo diventare in futuro. Non tutti, certo, per fortuna». E’ vero: troppo spesso «siamo persone allo stato gassoso, piene d’aria, di noi stessi, piene di nulla». Resta, tuttavia, il problema di individuare gli strumenti che consentano di identificare la vera tipologia dei soggetti troppo carichi di gas, di quei “palloni gonfiati” che sono destinati a scoppiare.
  29. In questo senso, ancora oggi è molto difficile restare impassibili di fronte ad un libro ancora giovanissimo e traboccante di vita come quello di J. Moltmann, Il Dio vivente e la pienezza della vita, Brescia, Queriniana, 2016, in cui tra l’altro ci si imbatte in un’affermazione altamente significativa: «questa nostra vita mortale è già vita eterna: noi viviamo nella sua vita eterna anche se moriamo».