La morte tra fede e miscredenza
Altro è morire credendo in Dio e nell’unico, vero Dio, che è il Dio di Gesù il Cristo, altro è morire non credendo né al Dio cristiano, né a qualunque altra divinità. Nel primo caso, si muore con una fondata speranza di risurrezione, fondata in quanto ancorata alla promessa di una persona storica che, con la sua vita e la sua opera, sarebbe parso degno a intere generazioni di essere amato e adorato come Signore assoluto della storia del mondo e dell’umanità; nel secondo caso, si muore in ogni caso consapevoli di non poter più vedere la luce né per assistere alla conversione di una vita terrena di sofferenza e rinuncia in una vita perennemente appagante e festosa, né per scoprire che la vita vissuta nel quadro della precedente esperienza terrena venga eventualmente tramutata in una vita inestinguibilmente oscura e infelice. Tuttavia, la morte esiste solo come concetto non sperimentato e non sperimentabile, con la sola eccezione di Cristo. Essa è un’astrazione, mentre solo la vita è reale, eterna e immutabile1. In via ipotetica, la morte, per il cristiano, è la fine di un ciclo di vita ma non della vita tout court, è anzi l’immersione battesimale in un misterioso e oscuro varco trasformativo di nuova nascita, mentre per il non credente è semplicemente l’ingresso in una terra cimiteriale di non ritorno alla vita. Quanto ai credenti non cristiani, il loro stesso Dio resta giudice del destino di vita o di morte immortali di cui essi potranno essere resi eternamente partecipi.
Al di fuori di ogni retorica volta a trattare la morte più per via sentimentale che per via razionale, chi crede nell’immortalità della vita oltre la vita e la morte terrene, è una persona di speranza, quali che siano le sue colpe, mentre chi non ci crede, è una persona di-sperata, quali che siano i suoi meriti. Peraltro, in soccorso della speranza cristiana di vita eterna non va solo l’autorevolezza assoluta di colui che l’ha infusa nel cuore delle moltitudini, bensì anche la semplice constatazione empirica di come, in questo mondo e in questa vita, una risurrezione psichica, morale o spirituale, possa intervenire dopo certe morti di natura personale, familiare, professionale, comunitaria o sociale, e non di rado taluni processi di rapida e insperata rinascita o ricostruzione possano seguire a terribili fatti distruttivi o catastrofici. La storia dell’umanità non è altro che un susseguirsi di eventi geologicamente o storicamente catastrofici ed eventi provvidenzialmente capaci di ricostituire buone condizioni di vita per singoli individui e popoli o intere comunità nazionali, sia sul piano economico e civile-relazionale, sia sul piano etico-politico e culturale.
La storia dell’umanità, in altri termini, è come una corda tesa tra morte, distruzione, annichilimento e vita, rinascita, ricostruzione. E’ evidente che parlare di risurrezione dei morti, dei corpi, dei trapassati da uno stato di vita ad uno stato di morte, è ben più impegnativo che parlare di forme psicologiche, morali, spirituali o storico-sociali di inattesa o miracolosa rinascita, ripresa, ricostruzione, perché indubbiamente altro sono le sempre possibili rinascite individuali e collettive in condizioni drammatiche e persino disumane ma ancora di vita per quanto morti-ficata o spezzata, altro è la risurrezione in una condizione di morte razionalmente accertata e pertanto irreversibile2. Ma qui l’analogia tra il risorgere nel mondo-della-vita e il possibile risorgere nel mondo-della-non-vita, della sospensione o dell’annullamento della vita, ha tuttavia la funzione di sottolineare come già nell’ambito delle cose, dei fatti o degli avvenimenti del mondo che ci è noto e di cui facciamo quotidiana esperienza, esista o agisca in modi non sempre lineari o intellegibili una dinamica oggettiva di vita spesso prevalente sulla morte, di rinascita spesso funzionale ad invertire processi di disfacimento o decadenza, di risurrezione spesso irresistibilmente generatrice di nuovi germi di vitalità umana e di più fecondi slanci di creatività civile e spirituale. Noi già su questa terra sperimentiamo talvolta, nei momenti di crisi o di più acuta disperazione, l’oggettiva possibilità di un vecchio che si rinnova, di valori apparentemente superati che riprendono vigore, di tradizioni nobili ma ritenute ormai anacronistiche che tornano ad essere più vive degli usi e dei costumi correnti, di modelli di vita dati ormai per morti e sepolti che si riprendono prepotentemente la scena del mondo. Certo, per ciò che si riferisce ai processi che si svolgono in questo mondo e sotto i nostri occhi, arriva anche il momento in cui un dramma non sia più reversibile e le tragedie restino tali fino al loro epilogo, i fallimenti individuali e collettivi lascino solo dolorosi resti di morte e le immani catastrofi naturali e storiche generino incolmabili baratri di sconforto, spaesamento e disperazione. E, tuttavia, in questo mondo abitato dal dolore e dalla morte, una speranza di vita, sia pure in condizioni di inferiorità, resta sempre in trincea a combattere contro la forza soverchiante del suo più grande e apparentemente invincibile nemico.
La vita, costantemente minacciata e troppe volte travolta dalla morte, è costretta a difendersi dai suoi attacchi micidiali finchè e nei modi in cui sia possibile (con il sapere, la scienza, la tecnologia, la medicina), quanto meno per non disertare completamente il campo di battaglia e non doverne riconoscere la definitiva supremazia, ma nel frattempo essa si ingegna a immaginare nuove e più efficaci possibilità di difesa e a cercare mezzi più potenti di vittoria. Tra le tante anime dell’umanità pensante e senziente che vanno alla ricerca di taumaturgiche e antitanatologiche scoperte postumane o transumane, ce ne è una che si dedica invece alla messa a punto di forme più incisive di preghiera per spingere il suo Dio, che ha immolato la vita proprio per sconfiggere radicalmente la morte, a rifare il mondo, a ricrearlo secondo leggi che consentano ad esso di ospitare solo la vita, o meglio tutto ciò che è realmente vita o è compatibile con la vita abbondante pensata ab aeterno da Dio stesso3. Sì, i cristiani sono persuasi che per vincere la morte occorra seguire l’esempio di quel Dio, che occorra cioè non trattenere ossessivamente, patologicamente la vita oltre il dovuto, ma darla, offrirla, sia pure in modi o forme diversi, per gli altri, per altro e per l’Altro, in funzione di un tale potenziamento della vita universale da azzerare quasi totalmente i margini della morte, in modo che quest’ultima continui a sussistere per chi l’avrà realmente desiderata o voluta o semplicemente provocata, e di conseguenza non più in un mondo in cui essa continui a vincere facilmente sulla vita, bensì in un mondo in cui sia la vita a vincere sulla morte per l’eternità.
Molti si sono chiesti, nella storia della filosofia e della cultura di tutte le epoche, talvolta anche un pò goffamente, perché esistano la morte e la sofferenza, perché gli uomini debbano soffrire e morire. Se lo chiedeva negli anni settanta anche un filosofo francese molto ammirato dai filosofi marxisti di allora ma anche molto provato da un’esperienza personale di vita particolarmente drammatica e dolorosa che l’avrebbe condotto a togliere la vita a sua moglie Hélène Rytmann, un delitto che tuttavia né molti intellettuali né i tribunali francesi avrebbero ritenuto dovesse essere punito con l’ergastolo o con l’arresto a causa della sua presunta o probabile infermità mentale4. Ma Althusser che, al di là di questo sventurato avvenimento della sua vita, godeva in Francia e in Europa del prestigio riservato di solito ai grandi maîtres à penser, quando si poneva quasi attonito e smarrito quella domanda non appariva all’altezza della sua fama, intanto perché era strano che un intellettuale che, almeno a parole, aveva deciso di dedicare la sua esistenza alla causa degli sfruttati e degli oppressi del mondo, non notasse minimamente che la sofferenza e la stessa morte, anche al di là delle condizioni sociali o dello stato professionale di appartenenza, non sono proprio uguali per tutti, benché tutti, alla fine, ne siano indubbiamente ed egalitariamente livellati, e che di conseguenza il vero problema non fosse di recriminare pateticamente contro la perfida morte che interromperebbe tragicamente ogni umana speranza di realizzazione personale o di felicità collettiva, ma di domandarsi se il soffrire e la morte abbiano per tutti i vissuti indistintamente lo stesso significato morale, lo stesso valore esistenziale, le stesse implicazioni spirituali.
Dopodiché, forse, si potrebbe anche tentare di riflettere in modo ulteriore e stabilire se sia così certo che, pur accomunati dalla e nella morte, gli uomini saranno andati incontro ad uno stesso destino di annientamento e assoluta e definitiva insignificanza. Si potrebbe tentare di stabilirlo riflettendo, per esempio, sul proverbio di origine cristiana che recita: «la morte ci rende uguali nella sepoltura, disuguali nell’eternità». Cosa significa tale concetto popolare se non che, probabilmente, le differenze qualitative tra gli esseri umani, pur annullate dalla morte, potrebbero ancora riverberarsi con effetti o esiti completamente diversi nel quadro di forse improbabili ma pur sempre irrefutabilmente possibili scenari esistenziali di vita intemporale ed eterna? Certo, parlare di vita eterna fa venire l’orticaria non solo a molti atei giulivi ma anche ad alcuni laici particolarmente colti, intelligenti, persino interessati alla lectio cristiana e ad essa così sensibili da aspirare a diventarne addirittura interpreti innovativi e originali. E’ il caso, per esempio, di uno psicanalista, oggi molto di moda, come Massimo Recalcati, che, nel tentativo di offrire una interpretazione laica attendibile del messaggio di Cristo, finisce in realtà per travisarne totalmente il senso5. Egli muove dalla premessa per cui Gesù è venuto per celebrare la vita, non la morte: egli stesso si sarebbe voluto sottrarre alla morte e, soprattutto, ad una morte dolorosissima e infamante come quella per crocifissione. Tuttavia, avrebbe voluto affrontare la morte, conoscerla da vicino, farne esperienza come di un evento che non è altro dalla vita ma momento drammaticamente centrale della vita. Egli giunge a passare attraverso la morte, non semplicemente per esserne trafitto ma per trafiggerla, non per una sola volta e per se stesso ma per sempre e per tutti, per tutti coloro che in lui avessero confidato come uomo e come Dio. Perché, quel che non riesce ad intendere il filosofo-psicologo citato, è che per non morire per sempre, uomini e donne, avrebbero dovuto confidare incondizionatamente in lui non come in un semplice uomo, destinato ad essere naturalmente sconfitto dalla morte, ma come in un Dio, come nell’unico Dio capace di trasformare persino la morte in vita, di dar luogo alla risurrezione dei morti.
Risurrezione, ammette Recalcati, è la vita che resiste alla morte, che si mostra ad essa superiore, che ad essa non consente di avere l’ultima parola. Solo che, secondo lui, la risurrezione non può valere, e in Gesù non sarebbe valsa, solo come superamento vitale della morte ma anche come superamento di tutte le morti, le negazioni di vita che accompagnano l’intera esistenza degli esseri umani, perché a cosa equivale la vittoria sulla morte se non alla vittoria sulla paura della vita? La morte deve essere scongiurata non alla fine della vita ma durante tutta la vita. Bastano questi concetti per capire dove vada a parare il ragionamento seducente ma falso, ingannevole e fuorviante di Recalcati. Infatti, come è lui stesso a spiegare: «L’oscenità della morte deve essere scongiurata. Ma che il Regno sia tra noi e non al di là di noi è una parola evangelica che non possiamo dimenticare. Attendere la vera vita al di là di questa vita (falsa) non è affatto un atteggiamento cristiano. Gesù ci insegna proprio il contrario. Ci insegna che ogni sacrificio compiuto in questa vita per avere il rimborso della vita eterna è peccato. Perché il compito che egli assegna alla vita umana non è il compito del sacrificio ma quello dell’amore. E’ quello di rendere la vita capace di fruttificare adesso…Ora e non domani. Come insegnano i gigli nel campo e gli uccelli nel cielo»6. Quindi, volendo tradurre fedelmente quest’argomentazione in poche, semplici e per tutti comprensibili parole, la vera morte è quella che offende la vita non quando la vita non c’è più ma quando la vita c’è ancora, non quando si spira ma mentre si respira, non quando si è ormai sottoterra ma quando si è ancora ben ritti sulla terra. Attendere il Regno di Dio, «il mondo della vita che verrà», oltre i confini della vita terrena, rigorosamente immanente, storica, non sarebbe per il dotto Recalcati un atteggiamento cristiano ma un atteggiamento opposto al messaggio di Gesù, che avrebbe insegnato come il disporsi al sacrificio in questa vita per averne in contraccambio la vita eterna significhi semplicemente peccare, dal momento che legge della vita non è il sacrificio ma l’amore! Naturalmente, ove si provi a replicare che, per Cristo, il sacrificio e il sacrificio naturalmente non ostentato, lungi dall’essere la negazione dell’amore, ne sia piuttosto la forma più nobile e santa, ne costituisca la vera e più esaltante cifra, specialmente se il sacrificio non sia effetto di costrizione, di oppressione, di vessazione, ma di libera e responsabile scelta al servizio degli altri e dell’Altro, piuttosto che dei propri istinti, bisogni, affetti, non c’è da aspettarsi risposte non tanto intelligenti quanto fedeli al senso stesso della missione salvifica del Cristo7.
Il Cristo ama la vita, soffrendo e patendo le peggiori umiliazioni, cui avrebbe potuto facilmente sottrarsi, perché la sua missione salvifica era innanzitutto una missione espiatoria, riparatoria, che sono termini evidentemente molto ostici a Recalcati ma anche da lui profondamente incompresi. Bisogna che la vita fruttifichi adesso, dice il brillante ma epidermico intellettuale milanese, non domani o in un futuro imprecisato, e che fruttifichi per amore non per sacrificio, come se l’amore più genuino, più fecondo e produttivo, non fosse proprio quello esercitato in uno spirito talvolta di sofferta rinuncia, di straziante e caritatevole sacrificio. Quasi tutte le narrazioni evangeliche sono un inno all’amore, certo, che però si estrinseca principalmente come capacità di sacrificarsi, in modi e misura diversi, per gli altri e per ottemperare alla volontà di Dio. E come dimenticare, d’altra parte, che «se il seme di frumento non finisce sottoterra e non muore, non porta frutto. Se muore, invece, porta molto frutto. Ve l’assicuro. Chi ama la propria vita la perderà. Chi è pronto a perdere la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12, 24-25).
Ma è inutile insistere, perché ad un certo punto non ci si può trattenere dal chiedersi sarcasticamente, derogando una volta tanto da uno spirito troppo mummificato di carità, se certi intellettuali che pretendono di misurarsi con le imponenti strutture e articolazioni logico-concettuali del Logos divino, con temi ampiamente collaudati e consolidati di una bimillenaria cultura cristiana, dalla quale sembra spesso spiacevolmente derogare la Chiesa dell’odierno pontificato, abbiano mai letto la Bibbia e i vangeli per capire se stessi prima che per farne capire ad altri i significati e i valori. Il problema è che qui si ignorano essenziali concetti biblico-teologici, e manca proprio un rapporto di sufficiente familiarità con il senso biblico del sacro e del santo, con la razionalità critica della radicale contestazione biblica del sapere univocamente storico-immanentistico.
Se, come si dice spesso in ambito epistemologico, la ragione è un campo di possibilità infinite, sarebbe curioso che si decretasse l’ostracismo per una prospettiva teleologica e trascendente, cara non solo alla religione e alla teologia ma anche alla filosofia e al sapere storico universale, che si è già fatta largamente valere per ben due millenni8. Se nel corso dell’ultimo secolo e mezzo a intere moltitudini, a intere masse di popolo, è potuta apparire non solo ragionevole ma addirittura destinata a sicura vittoria la lotta del proletariato industriale e contadino per il socialismo e l’avvento di una società di liberi e eguali, che si sarebbe invece rivelata completamente fallimentare, per quale motivo si dovrebbe tacciare di irrazionalità e oscurantismo culturale un’aspettativa popolare, storicamente costante anche se non sempre avvertita con la stessa intensità, e questa volta incentrata sulla lotta per la costruzione di un regno non semplicemente storico-mondano ma extrastorico ed eterno cui tutti abbiano facoltà di accesso, non per diritto ma per misericordiosa volontà divina, proprio in ragione di quelle specifiche qualità spirituali da ciascuno espresse nel corso della sua vita terrena? Di quelle specifiche qualità spirituali individuali che la morte sembrerebbe appiattire e vanificare in un anonimo e indifferenziato processo di universale nientificazione?
Perché il dolore, perché la morte? I cristiani lo sanno, conoscono bene la risposta: perché la vita nasce dal dolore del parto e perché la vita, per essere ancora e sempre tale, ha bisogno di definirsi in rapporto alla sua negazione e di sopravvivere egemonicamente alla morte in quanto pretesa di supremazia biologica e ontologica del nulla cosmico o assoluto non essere rispetto al tutto cosmico e all’assoluto essere vivente che lo contiene, lo alimenta e lo tiene perennemente in vita9. Se la morte avesse l’ultima parola, il tutto non potrebbe esistere per il semplice motivo che, per esistere come un tutto organico, vitale e basato sulla reciproca funzionalità delle parti che lo compongono, necessita di un principio o di una fonte permanente di vita. Si tratta di capire che se la morte è parte integrante della vita, la vita, ontologicamente intesa, non può essere parte integrante della morte, in quanto questo significherebbe che essa è una derivazione della morte e una vita che per definizione implica attività, trasformazione, processualità, non può essere originata da una realtà in sé statica, immobile, inattiva, completamente chiusa a qualsivoglia forma di divenire e di sviluppo.
Noi con la morte perdiamo certamente, dolendocene, la realtà visibile della vita, di questa vita, tutte le sue cose esteriori, i suoi averi, affetti, poteri, tutta la sua corporeità e materialità, ovvero il variegato involucro esterno di una vita che in questa vita ha solo una sua particolare anche se importantissima determinazione, ma in questa vita trova ospitalità una invisibile e immateriale interiore che continua ad appartenere organicamente alla vita anche al di là delle sue provvisorie e visibili manifestazioni, e quindi anche al di là di questa vita. Spesso si dimentica completamente che questa vita è solo un momento, una forma della vita sempre diveniente, e diveniente anche attraverso la morte, e che l’interiorità dell’uomo può abitare anche in forme corporee diverse da quella terrena e con essa ben più compatibili.
Quel che bisognerebbe sforzarsi di intendere è che vita e morte non sono opposizioni dialettiche che vengono reciprocamente legittimandosi e determinando l’eterno sviluppo dell’essere, ma sono opposizioni assolute, irriducibili e incomunicabili, per cui la vita, pur attraversando i cunicoli sotterranei della morte, è immortale ed è quindi ben lungi dal necessitare della morte per sussistere, mentre la morte, pur interrompendo i processi vitali degli organismi viventi, non può impedirne la ripresa, la ricrescita, e sempre ulteriori evoluzioni tranne che nel caso in cui essi non si lascino misteriosamente e definitivamente morire, e la morte non ha bisogno della vita come della sua ratio ontologica disponendo invece, a sua volta, una sua autosufficienza ontologica tuttavia dotata di una potenza inferiore a quella della vita, donde non la vita è asservita alla morte ma la morte è sempre in balìa della vita ad eccezione, ripeto, di casi in cui la vita stessa non inclini in forme anomale a consegnarsi ad uno stato definitivo di morte. In questo senso, e al di fuori della spericolata e non di rado involuta teoresi di Derrida, si può ben sostenere che «l’è della vita è la morte è della vita», ovvero la morte è sotto il dominio della vita, e che di conseguenza «l’essere è vita», mentre «la morte è impensabile come qualcosa che sia»10.
Ora, cercare di cogliere al meglio le potenzialità della vita nel suo ciclo terreno e di vivere quanto più aderentemente possibile secondo esse, potrebbe servire ad apprendere e a costruire cose utili o essenziali alla successiva evoluzione della vita in generale la cui energia vitale potrebbe arricchirsi dell’apporto energetico, di origine mentale e spirituale, di ogni individuo nato, vissuto e poi morto in questo mondo. Tutto ciò che umanamente e individualmente sia funzionale alla elaborazione e alla trasformazione della materialità dell’esistere in energia propulsiva, generativa, creativa, non solo potrebbe non andare perduto ma potrebbe continuare a risultare di fondamentale importanza nell’ambito di un’ulteriore o di ulteriori dimensioni della vita stessa. Fino a quando noi pensiamo alla materia che vediamo, percepiamo, utilizziamo, subiamo, come all’unico criterio di riferimento per stabilire cosa sia vita e distinguerla dalla mancanza o assenza di vita, fino a quando identifichiamo la legge della vita unicamente con una corporeità ancora attiva e non ancora totalmente inerte, non possiamo essere in grado di immaginare criticamente che potrebbero esistere altre dimensioni o altri stati in cui ogni individuo potrebbe continuare a svilupparsi e a vivere in proporzione alla quantità e qualità di energia precedentemente accumulate, prodotte e immesse nella rete e nei circuiti interconnessi di un’infinita e inesauribile vita cosmico-universale.
Si intende dire che, se non venga presa anche la coscienza, al di là di una sua riduttiva identificazione con l’attività cerebrale, quale speciale e inesauribile fonte di energia —più pulita o meno pulita dipende dagli usi che della stessa coscienza vengano fatti — non appare possibile allargare razionalmente il perimetro della possibile e intrinseca capacità di espansione o dilatazione di ciò che chiamiamo vita, né, di conseguenza, definire con esattezza l’essenza della morte: è solo la fine di qualcosa e il definitivo distacco da tutto ciò che è stato nel bene e/o nel male, oppure un varco invisibile, un passaggio impercettibile attraverso cui transitiamo verso uno stadio diverso della nostra stessa esistenza? E, in quest’ultimo caso, in che modo la nostra identità personale, pur subendo significative trasformazioni, potrebbe restare ancora inalterata?
La separazione del nostro essere individuale dalla sua precedente e specifica incarnazione terrena determinerebbe una vita disincarnata, non più corporea, puramente eterea o immateriale, oppure una vita ancora una volta incarnata ma non più di natura irreversibilmente corruttibile bensì di natura incorruttibile anche se, a seconda dei carichi di energia acquisita da ogni anima o coscienza, addirittura depotenziata rispetto a quella avuta nel corso dell’esperienza terrena o, al contrario, potenziata e dotata di nuove e semplicemente sbalorditive proprietà esistenziali? Potrebbe mai la tecnologia applicata alla medicina realizzare senza passare attraverso la morte condizioni di esistenza di questa stessa natura? Potrebbe, cioè, l’ideologia transumana e/o postumana garantire un’esistenza congegnata secondo meccanismi di immortalità non omogenea ma eterogenea, non indiscriminata ma differenziata in base a criteri di ineffabile razionalità etico-esistenziale?11 Né la scienza postmoderna, né d’altra parte la forza, la gloria, l’amore possono assicurare, come spesso si riteneva nella cultura greca, l’immortalità a chiunque ne sia illustre portatore o eminente espressione, neppure nel caso in cui goda di una speciale protezione da parte di una qualche divinità, anche perché Nietzsche avrebbe insinuato brillantemente il dubbio che l’amore predicato soprattutto dalla morale cristiana nel nome di un Dio semplicemente e necessariamente illusorio in altro non si risolva che in una sostanziale autodifesa dei deboli, dei disadattati, degli incapaci di lottare eroicamente o almeno dignitosamente nella cruenta battaglia della vita12. Ove si voglia prescindere, sia pure nel nome di una malintesa laicità di pensiero, dal riferimento ad entità trascendenti, l’ultima parola della vita è di necessità la sua morte, non solo una sua morte ciclica o transitoria ma una morte irreversibile e definitiva senz’altri possibili sbocchi che la polvere o la cenere cimiteriali.
Laico è infatti non chi, in modo pregiudiziale, non si confronti criticamente con i contenuti della fede religiosa e, segnatamente, della più universale forma di fede religiosa, quella cristiana, ma chi, indipendentemente dalla sua specifica professione di fede, e quasi mettendo quest’ultima tra parentesi, li venga meditando e utilizzando, con approcci liberi da qualsivoglia condizionamento di natura non solo religiosa ma anche ideologica, morale, politica, ai fini di una visione quanto più possibile critica e problematica, della vita e della morte13.
È un dato di fatto che una vita capace di rigenerarsi all’infinito, che qui è ciò che si è venuto assumendo come ipotesi di studio e tema di discussione, non possa non recare in sé delle origini semplicemente naturali e immanenti ma extranaturali e trascendenti, e perciò divine, a prescindere dalle quali, e quali che siano le riserve e le qualità dell’energia presente nei pure incommensurabili ammassi di materia e negli sconfinati spazi intergalattici, persino gli infiniti mondi e le dimensioni fisico-matematiche più inimmaginabili che la scienza possa ritenere possibili, sono ineluttabilmente destinati a collassare per esaurimento delle loro autonome o disponibili fonti di energia termodinamica, elettrodinamica o elettrodinamica quantistica. Quand’anche la scienza riuscisse nella megaimpresa titanica di scoprire e spiegare tutte le leggi ancora nascoste dell’universo o di tutti gli universi possibili, si troverebbe pur sempre a dover dare risposta ad una moltitudine di altri nuovi e misteriosi interrogativi, da cui continuerebbero forse a discendere risposte sempre più soddisfacenti e tuttavia tali da non poter mai spiegare come e perché la vita, in particolare la vita degli esseri umani, possa perpetuarsi in modo indefinito attraverso una gamma inesauribile di forme organizzate e perfette di vita.
Senza ammettere le possibili origini trascendenti di un fatto o evento così complesso e umanamente desiderabile come la vita e di un fenomeno altrettanto complesso e umanamente ripugnante come la morte, la vita e la morte restano realtà casuali e inesplicabili in termini di significato e di valore, realtà dotate di pari insignificanza e disvalore, mentre esse costituiscono intuitivamente realtà del tutto eterogenee, per il fatto stesso che si vorrebbe sempre vivere e non si vorrebbe mai morire. Ma se la vita come valore è da preferire alla morte come disvalore, ciò può essere possibile solo in quanto la vita venga associata ad un’idea di bene mentre la morte ad un’idea di male, ad un’idea non generica, non arbitraria, non mutevole e non provvisoria di bene, né ad un’idea aleatoria, indefinita, soggettivistica di male. Se solo la vita come valore, come bene assoluto pur nella rigogliosa varietà delle sue forme e nella pluralità dei suoi vissuti personali, e quindi non nella sua più astratta indefinitezza, ma nella sua normatività obbligante non meno che creativa e liberante, può essere ritenuta degna di infinita reiterazione, al contrario del disvalore violento e distruttivo della morte, ciò in tanto è possibile e realmente gratificante sul piano esistenziale, in quanto al valore-vita si riconosca una dimensione trascendente, sacra, divina, che non può mai deludere se non coloro che della vita vorrebbero poter usare e godere semplicemente in modo irrazionale, irresponsabile, e anche religiosamente infedele14.
La vita nel suo significato positivo è esperienza di vita alla quale sia vietato di immettere nella corrente della vita elementi di morte che ne contaminerebbero inevitabilmente la freschezza e la limpidezza spirituali. Ecco perché chi pretendesse di appartenere alla vita pur facendo commercio di falsità, frode e malvagità, perversione e quindi morte, non potrà trovarsi scritto sul libro della vita eterna, ma potrà continuare a vivere solo in quel male di cui la morte è fedele espressione e compagna. L’attesa biblico-escatologica prevede non solo la vita eterna ma anche una morte eterna, non però come semplice interruzione di vita ma come una vita non solo non preferibile alla morte ma persino più oscura, repellente e dolorosa della morte stessa. Tutto questo viene efficacemente espresso ed esemplificato da chi ha scritto quanto segue: «Tra la vita e la morte c’è uno scarto. Vita e morte non sono le due metà di una stessa totalità, né possono affrontarsi come se nella loro opposizione non entrassero in gioco anche altre forze. Lo scarto si percepisce solo se si amplia l’orizzonte sino a risalire all’alternativa tra Bene e male. Il Bene in quanto fonte e luce della vita, in quanto concreta condizione del fiorire dei viventi; il male come distruzione, fonte di sofferenza e di violenza. Vita e morte non hanno rapporto immediato: tra l’una e l’altra si stabilisce di volta in volta una mediazione ad opera di un’altra forza, che può essere appunto il Bene oppure il male. Il punto di accecamento più grave della mentalità prevalente nel nostro tempo è proprio qui: l’indistinzione tra queste due forze, lo scetticismo verso il Bene e il rispetto verso la potenza del male, cui si combina peraltro l’incapacità di trovare che qualcosa possa essere veramente un male, visto che, come si dice di solito, non si deve “demonizzare” nulla. … La morte non ha mai un impatto puramente biologico, non è semplicemente un fatto della natura, è un “no” alle nostre ragioni di vita, le aggredisce nel loro valore e nel loro tendere alla felicità. L’evento della morte riguarda il senso e tuttavia non è in se stesso il senso dell’esistenza»15.
Quindi, sarebbe anche giusto morire non solo se non si ami il bene ma si cerchi di usarne solo per egoistici e meschini scopi personali, in quanto una vita spesa al servizio del male, è una vita non solo sprecata ma anche più mortifera o esiziale della morte stessa, mentre una vita senza fine potrebbe più ragionevolmente arridere a soggetti che, pur commettendo inevitabili errori di natura egocentrica, abbiano tuttavia saputo esercitare le proprie energie intellettuali, morali e spirituali, in funzione di valori realmente razionali, emancipativi, rigenerativi, e di scopi universalmente virtuosi e giusti. Fermo restando che, in ogni causa, tanto per i viventi in armonia con la vita quanto per i viventi con essa in disarmonia, il trauma non sia evitabile, ad una siffatta istanza o aspettativa etico-razionale sembra corrispondere la prospettiva escatologica cristiana del giudizio finale di Dio e del destino di vita o morte eterna da esso decretato per ogni singolo individuo. Certo, molti ritengono discriminatori tali giudizi, ritenendo che, a prescindere da come si decida di vivere, tutti sarebbero comunque legittimati a ritenere ingiusta la morte, ma in realtà non ci sarebbe niente di ingiusto nel fatto che a vivere senza morire fossero i più adatti alla vita, non in senso biologico darwiniano ma in senso eminentemente etico-spirituale, perché, almeno per gli esseri umani, il senso più specifico della vita è di natura etica e religiosa16.
Bisogna pur rendersi conto che l’uomo non è sede di giudizi infallibili e che persino intorno a verità di elementare natura intuitiva non di rado viene esprimendo giudizi erronei. Per esempio, nel caso di inferno e paradiso, così centrali nella narrazione biblico-evangelica, appare razionalmente inutile recriminare, visto che l’uno e l’altro sono un semplice riflesso della logica che inerisce alla vita, il compimento assoluto, che può essere positivo o negativo, dell’esistenza umana nei modi e nelle forme in cui viene realizzandosi già adesso in questo mondo. Dev’essere chiaro che l’attendibilità delle verità etiche e religiose espresse dalle Sacre Scritture, al di là del linguaggio simbolico, metaforico o allegorico in esse spesso ricorrente, non può dipendere dal consenso o dal dissenso di quanti vi si accostano ma solo dalle condizioni spirituali in cui ci si accosta e dai mezzi interpretativi con cui ci si accosta, per il semplice fatto che il Logos divino ha una specificità razionale che il logos umano può utilizzare o non utilizzare ai fini del suo possibile, interno processo evolutivo, tanto sul piano conoscitivo quanto su quello morale e spirituale. A cos’altro possono corrispondere i concetti e le realtà bibliche dell’inferno e del paradiso se non, rispettivamente, alla possibilità di un indurimento permanente della coscienza e di un conseguente stato di separazione da Dio e da tutti i beati, e alla possibilità di un’apertura via via più determinata e incondizionata al bene e all’amore divini con conseguente, eterna partecipazione alla festosa comunione con Dio e tutti i beati?17.
Gli esseri umani del XXI secolo tendono spesso a storcere il naso, più che in epoche passate, dinanzi ad una rappresentazione così rigorosamente dualistica, premiante e punitiva ad un tempo, dell’al di là, ma nell’al di là non si delibera a maggioranza su quali debbano essere le condizioni di vita per tutti i risorti indistintamente, essendo stato già tutto deliberato sia in relazione ai beati che in relazione ai dannati. Semmai c’è da rammaricarsi per il fatto che oggi come non mai perfino coloro che, più di altri, avrebbero l’obbligo istituzionale, sacramentale e magisteriale di custodire e trasmettere con assoluta fedeltà le verità della fede, non di rado vengano alimentando la falsa speranza che, alla fine, tutti, indistintamente, saranno salvi e potranno godere delle gioie del paradiso. Si tratta di una concezione erronea, introdotta nel dibattito ecclesiale e nota come apocatastasi e condannata come eretica nel Sinodo di Costantinopoli del 543 d. C., poi ribadita nel secondo Concilio di Costantinopoli del 553, con la seguente formula: «Se qualcuno dice o sente che il castigo dei demoni e degli uomini empi è temporaneo o che esso avrà fine dopo un certo tempo, cioè ci sarà un ristabilimento (apocatastasi) dei demoni o degli uomini empi, sia anatema»18. Questo significava ritenere che Dio potesse essere infinitamente misericordioso solo alla condizione di non essere giusto. Che, come persino i cattolici più incolti dovrebbero sapere, non è logicamente ammissibile.
In questo senso, ovvero nell’ottica cristiana, tanto l’al di là quanto la morte non sono eguali per tutti, sebbene tutti siano stati creati perfettamente eguali e dotati dello stesso diritto a partecipare sia dell’amore della comunità ecclesiale terrena, sia soprattutto dell’amore della comunità celeste. Poiché non tutti o non molti, in forza della loro libertà creaturale, hanno inteso usarne e abusarne per il perseguimento di una pienezza di vita corrispondente ai disegni creaturali ed escatologici di Dio ma piuttosto abbandonandosi ad una recidiva vacuità di vita, appare del tutto comprensibile che anche la morte non sia uguale per tutti, cioè non debba essere vissuta da tutti o da molti nello stesso modo, con lo stesso timore o terrore, pur rimanendo un momento, anzi il momento più altamente traumatico della vita, e che soprattutto l’al di là non disponga di un unico scenario di vita ma anche di uno scenario di morte, o meglio di vita nella morte eterna. Sant’Agostino, in un brano del capitolo 29 del suo Encheiridion scrisse: «Nel tempo fra la morte e l’ultima resurrezione, le anime si trovano in un luogo sconosciuto, a seconda che un’anima sia meritevole del riposo o del castigo, cioè a seconda di quanto essa ha compiuto nella sua vita terrena».
So bene che anche miei fratelli e sorelle di fede, sempre meno vaccinati contro i morbi concentrici e spesso letali del pensiero, della cultura e della civiltà soggettivistico-nichilistici contemporanei, non amano sentirsi rappresentare la loro religione in termini troppo realistici e duri, ma quel che qui si è venuto pur sinteticamente sostenendo rispecchia fedelmente, mi assumo la responsabilità morale e religiosa di tale affermazione, le nozioni, i concetti, le prospettive escatologiche previste e descritte nei sacri testi, in particolare in quelli del Nuovo Testamento. Di più: chi professandosi cristiano e cattolico, si mostri titubante o restìo ad accettare le implicazioni dottrinarie della sua fede, sarà chiamato a render conto del suo operato più severamente di coloro che avranno fatto del bene pur senza assumersi, di fronte a Dio e agli uomini, la responsabilità di rispettare, custodire, divulgare e testimoniare con coerenza gli insegnamenti, i precetti, i comandi di Cristo salvatore e redentore19.
Fuggire dalla morte, dal pensiero della morte, dall’appuntamento sempre incombente con la morte, è anzi, per essere più chiari, non solo un esercizio di scaramantica irrazionalità ma una manifestazione di superficiale spiritualità e di fragile fede, fermo restando che tutti i giorni di vita terrena che il Signore voglia concedere anche in tarda età non potranno non essere accolti dai beneficiari con gratitudine benedicente. Ma sono ragionamenti che non lambiscono neppure lontanamente le ordinarie preoccupazioni di gran parte di umanità, dedita a vivere quanto più utilmente o piacevolmente possibile per tutto il tempo che l’arcano destino e non certo un qualche salvifico Dio le avrà concesso di vivere. C’è un’umanità che vive senza minimamente porselo il problema di Dio. In fondo, non credere in Dio non è affatto, come ci si sforza talvolta di argomentare a colpi di ipocrita razionalizzazione, una dimostrazione di onestà intellettuale ma l’inconscio desiderio di prenderne il posto per essere sempre e comunque liberi di pensare e fare quel che si crede. Ma, come spiega con grande efficacia un insigne filosofo italiano, ammettere l’esistenza di Dio in realtà significa dire che il bene ha trionfato dall’eternità, che il male è eternamente vinto. L’esistenza di Dio è la sconfitta definitiva del negativo, la sua positività assoluta consiste nell’eterno superamento della negatività e della morte che è l’espressione più estrema e significativa della negatività: «l’esistenza di Dio non è altro che questo: il bene è stato scelto ab aeterno, il male e il nulla sono stati vinti ab aeterno, per sempre, definitivamente»20.
Se si ammette con una ragione illuminata o semplicemente sollecitata dalla fede, dimensione non antitetica a quella razionale ma di essa complementare, che questa vita sia un passaggio, per quale motivo si dovrebbe escludere che anche la morte sia un passaggio verso una nuova vita? Bisogna stare attenti a non assolutizzare la morte, a non considerarla come la vera cifra della vita, perché ove ciò accada si è già morti, si è già altro da sé, lontani dalla propria identità di soggetti ancora pienamente coscienti, pensanti, volenti, viventi: in fondo, della vita possiamo dire qualcosa di vero o sensato, avendone fatto esperienza e anzi in base alla qualità dell’esperienza che ne abbiamo acquisito, mentre della morte non sappiamo praticamente nulla, nulla di preciso, al di là del fatto che essa segna la fine della forma storico-fenomenologica della nostra vita personale.
Non sappiamo se vedremo o non vedremo qualcosa, se avremo o non avremo esperienze percettive di altre realtà o di altri mondi, se sussisteranno o non sussisteranno ancora forme sia pure virtuali di comunicazione con altre forme di vita e con altri esseri, non sappiamo niente di niente del significato specifico della morte, per cui attribuire a quest’ultima un significato più ampio o più importante di quello che si può e si deve attribuire alla vita e, ripeto, a questa vita che sarà stata, sia pure in modi parzialmente diversi, esperita soggettivamente, equivarrebbe a cominciare a morire prima del tempo non solo nel tradizionale senso religioso di un morire alle cosiddette “passioni tristi”, quali la chiusura egoistica non tanto agli altri quanto a chiunque possa avere bisogno di assistenza o soccorso soprattutto nell’ambito della propria quotidianità personale, il gretto e cinico individualismo, la rassegnazione e la mancanza di ideali progettuali e valori trasformativi, la resa spirituale alle mode del tempo e ai falsi valori veicolati dalla civiltà desiderante del benessere a tutti i costi, ma anche e soprattutto nel senso psicologico-esistenziale di rinunciare proprio a vivere, a credere e a sperare, a confidare nell’utilità non meramente accidentale ma sostanziale della propria esistenza, del proprio pensare, del proprio sentire e agire, insomma del proprio esserci21. Ecco fare della morte, in questo senso, l’architrave della vita, significherebbe trattare e vivere la morte non con lucido sguardo razionale e con un sano e legittimo amore per la vita ma con un atteggiamento interiore del tutto irrazionale e autodistruttivo.
Quell’espressione di uso comune “la vita continua”, spesso utilizzata per sottolineare con una certa strafottenza, che, qualunque cosa possa accadere, non c’è mai nulla di irreparabile, in realtà ha un’origine metafisica e intende essere un invito ad andare oltre le apparenze, in quanto appunto “la vita continua per tutti”, anche per coloro che muoiono, dal momento che anche la loro morte è solo un momento non solo della vita terrena ma, più in generale, della vita dell’intero universo di cui oggettivamente si sa troppo poco per poter concludere che ogni morte corrisponda ad una perdita definitiva e non invece ad una trasformazione. Solo questo, in effetti, si può asserire con assoluta certezza: che la condizione di morte cadaverica sia un fenomeno fisico-chimico, biologico, di mutamento organico o meglio dis-organico, nel senso di un mutamento consistente nel disgregarsi, nel distaccarsi gradualmente della materia corporea dall’organismo vivente di appartenenza, mentre nulla è invece dato sapere sui modi in cui la trasformazione venga successivamente evolvendosi e a quali eventuali stati di sussistenza possa accedere o approdare. In altri termini, se non è saggio pretendere e desiderare di vivere a tutti i costi, altrettanto stolto è disperare sino al punto di agognare una morte quanto più ravvicinata possibile. Tra la vita e la morte staziona come un invisibile filo di collegamento la dignità dell’essere umano, ovvero l’essenza della sua umanità, e ciò che realmente conta in tal senso non è la vita, né la morte, ma il rispetto o la difesa del valore e del senso di umanità presente in ognuno di noi. D’altra parte, se si ritiene di dover rispettare e amare la vita umana nella forma terrena in cui si è manifestata, non si comprende perché non la si dovrebbe rispettare e amare anche in eventuali, ulteriori o alternative forme extraterrestri.
Che la trasformazione dello stato di morte in altri ulteriori stati di sussistenza non possa essere comprensiva di un nuovo stato di vita corrispondente a quella che i vangeli annunciano come la nuova vita, come la vita dei risorti e del mondo che verrà, è una pretesa illogica, ideologica e non sorretta da alcuna seria argomentazione scientifica, né d’altra parte se essa fosse fondata potrebbe risultare minimamente utile per le speranze di immortalità del genere umano, e per questo motivo reputo criticamente e spiritualmente irricevibile un’affermazione arrogante, sprezzante e non esente da inesattezze filosofiche e teologiche, come la seguente: «Una qualunque religione che predichi un paradiso nell’aldilà e che quindi ponga una netta demarcazione tra vita e morte, è inevitabilmente contraria all’idea di perenne trasformazione. In ultima istanza è una religione che odia la vita in quanto ama solo una possibilità di vita completamente diversa. Religioni di questo genere finiscono nell’alienazione mentale o restano comunque una forma di filosofia rassegnata. Spesso, per evitare queste forme di alienazione, si finisce col credere che l’unica vita possibile sia quella - carica di contraddizioni antagonistiche - che si vive sulla terra e che la morte (da evitare se non da odiare con tutte le forze) costituisca la fine di tutto. L’alienazione del cattolicesimo si è trasformata, nel protestantesimo, in cinismo»22. Si può sempre sostenere che la Risurrezione sia fonte di distorsione mentale e possa indurre a forme di alienazione esistenziale in conseguenza delle quali ci si senta spinti ad amare patologicamente «una possibilità di vita completamente diversa» da quella terrena. Si può sostenere non perché sia ragionevole e giusto sostenerlo ma perché lo si potrebbe ragionevolmente e giustamente sostenere solo in relazione al fatto che non ci sia nulla, dalle cose più empie alle cose più sante, che non possa essere reso oggetto di fede anche per effetto di particolari forme di esaltazione o delirio mistico oppure di forme patologicamente rilevanti di sovraeccitazione mentale; così come si può concedere che lo si possa sostenere per una semplice questione di liberalità, riconoscendo il diritto di pensare ed esprimersi liberamente anche a chi, per esempio, per essere a tutti i costi originale, non abbia neppure il sospetto di poter dire solenni castronerie.
In realtà, secondo l’idea cristiana e cattolica di razionalità allargata, appare ben più ragionevole pensare da una parte che, se tutto è trasformazione e in trasformazione, anche la morte non possa non essere soggetta a morte23, ad ulteriore trasformazione, là dove una trasformazione, in questo caso, non potrebbe che implicare la vita, una nuova vita, un’altra vita, che per essere riconosciuta come altra rispetto a quella precedente, dovrebbe conservare evidentemente la coscienza della precedente identità personale di vita. Ha scritto Bruno Forte: «L’essere con Cristo dopo la morte suggellerà l’essere con Lui vissuto nella totalità della vita: il giudizio, che ci aspetta, sarà l’emergere della verità della nostra esistenza, il venire alla luce dell’opzione fondamentale, con la quale ognuno si è posto nella comunione o nel rifiuto di Dio. Con Cristo e per Cristo l’essere umano “in esilio dal corpo” si troverà davanti al Padre, raggiunto dal Suo infinito amore, e nello Spirito conoscerà la comunione che lo lega o la distanza che lo separa dalla Sorgente eterna della vita e del bene»24.
Anche per chi scrive la nascita è un inizio, la morte un punto di arrivo, ma non in relazione ad un viaggio che si conclude, bensí in relazione alla conclusione di una fase di un viaggio che deve continuare per destinazioni incerte. Come già nel corso della fase terrena di tale viaggio, forse anche durante la fase successiva di esso ci sentiremo persi, smarriti, senza bussola né direzione, avvolti dalla più tenebrosa oscurità, ci sentiremo fermi, immobili, bloccati, senza accorgerci di essere osservati, seguiti, custoditi, orientati dalla presenza sicura e luminosa di Dio: un’esperienza che in qualche modo sarà stata fatta anche nel corso della vita terrena, quando, in periodi di amarezza, delusione, inattività, Egli avrà continuato a spingerci in avanti, consentendoci di avanzare, tornare a sperare e a lottare per un domani migliore. Anche allora lo avremo sentito vicino a noi, come un amico, come un padre, come un Dio che avrà continuato ad arricchire il nostro spirito con doni nascosti. Alla fine del viaggio, ce lo troveremo davanti, avvolto da un manto glorioso di luce accecante, e in quel momento ci ricorderemo forse di quei giorni in cui ci insegnava «ad amare con profondità, a pazientare con dolcezza, ad ascoltare con empatia, a estendere una mano con gentilezza e ad aprire il nostro cuore all’umanità che ci circonda»25.
NOTE
1 M. Ferrini, Psicologia del ciclo della vita. Oltre nascita e morte, Ponsacco (Pisa), Centro Studi Bhaktivedanta, 2009.
2 S. Vidal, La Risurrezione dei morti. Testimonianze bibliche, Bologna, EDB, 2017; D. Manetti, Oltre. La vita eterna spiegata a chi cerca, Alba, San Paolo Edizioni, 2015.
3 G. Maldonado, La preghiera potente. Quando Dio ascolta e risponde alle preghiere, Milano, Eternity, 2019.
4 Ne nacque un caso clinico e filosofico ad un tempo su cui si sarebbe esercitata la riflessione di un certo numero di accademici di diversa estrazione disciplinare: qui si segnala l’articolo di un accademico psichiatra italiano come Fausto Petrella: Osservarsi dall’abisso: le autobiografie di Louis Althusser, in “Oltrecorrente”, marzo 2001, n. 3, pp. 115-127.
5 Qui ci si riferisce alla Intervista di Roberto Cetera a Massimo Recalcati, «Il fantasma di onnipotenza è un fantasma colpevole», in “L’Osservatore Romano” del 16 gennaio 2023.
6 Ivi.
7 Recalcati mostra di avere del sacrificio spirituale e religioso una concezione unilaterale e alquanto riduttiva come si evince facilmente dal suo libro: Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017; ma per una visione più ampia e articolata del rapporto intercorrente tra sacrificio e amore, si può vedere un libro come AA.VV., Il sacrificio, Quaderni teologici del Seminario di Brescia, Brescia, Morcelliana, 2019, cui può abbinarsi utilmente la lettura di A. Mattiazzo, In principio era l’amore. Il sacrificio nel mistero cristiano, Milano, TS Edizioni, 2023.
8 A cura di S. Palese, Allargare gli spazi della razionalità. Fede amica dell’intelligenza, Bari, Ecumenica Editrice, 2012.
9 Ottima, al riguardo, la meditazione di Madre Maria Emmanuel Corradini, Signore, perché? Il dolore nell’esperienza umana, Gorle (BG), Velar, 2019.
10 J. Derrida, La vita la morte. Seminario (1975-1976), Milano, Jaca Book, 2021, nella sezione “Prima sessione. Programmi”.
11 Cfr. D. Sisto, La filosofia del post-umano. Una lettura critica di “Il Postumanesimo Filosofico e le sue Alterità” di F. Ferrando, in Rivista filosofica “Cosmo”, 2017, n. 10, pp. 179-189.
12 Su questi temi, con specifico riferimento alla cultura e alla civiltà greche, si è soffermato con competenza storico-filologica M. Bonazzi, Creature di un sol giorno. I Greci e il mistero dell’esistenza, Torino, Einaudi, 2020.
13 T. Moretti Costanzi, Le ragioni della miscredenza e quelle cristiane della fede, Bologna, Clueb, 1979; D. Baddiel, Il desiderio di Dio. Chi non vorrebbe che esistesse?, Milano, Altrecose Editrice, 2024.
14 E, in questo senso, è altresì comprensibile che, poiché «l’esperienza della vita mostra che qui sulla terra, spesso le cose vanno male ai buoni e bene ai cattivi … a questa contraddizione … la fede nel premio o nel castigo, cerca di porre riparo attraverso una sorta di compensazione nella vita futura. La decisione in questa materia è demandata ad un giudizio che può essere immanente o automatico. Diffusa è l’idea dello stretto ponte che, passando sopra un abisso, congiunge il mondo terreno all’aldilà; i buoni lo percorrono facilmente, giungendo nel paese della beatitudine, i malvagi precipitano. La compensazione può però avvenire attraverso un regolare giudizio per opera di una divinità giudicante», M. Pucciarini, La morte e il morire: dallo scacco del pensiero filosofico alla risposta delle religioni, in “Centro Studi La Runa”, 1 gennaio 2000.
15 Sono i concetti espressi da R. Mancini, Se alzi la lanterna sul mistero della fine, Assisi, 67° Corso internazionale di studi cristiani, 21 agosto 2009.
16 Quali siano i limiti e le ambiguità del noto concetto darwiniano di “più adatti alla vita”, può evincersi dal libro di C. Bellieni-L. Velázquez, Il vero segreto dell’evoluzione. Dal conflitto alla collaborazione, Siena, Cantagalli, 2022.
17 Pochi scritti su tali temi sono attendibili come quello lasciato dal cardinale Giacomo Biffi, Il paradiso, il purgatorio, l’inferno e lo scandalo della libertà, in “Corrispondenza Romana”, 15 settembre 2009.
18 Tutto questo può essere meglio compreso alla luce della lectio filosofico-teologica di Luigi Pareyson: «Dio contiene dunque in sé, come possibilità ab aeterno, vinte e superate, il Nulla e il Male. Per cogliere questo punto essenziale, si cerchi di pensare e tener fermo un unico atto originario, in cui l’irruzione di Dio nell’Essere (l’esistenza di Dio) il suo affermarsi come Positività (la sua scelta del Bene), il suo rifiuto dell’altra alternativa (l’eliminazione del Male), il suo superamento del Negativo (la sua vittoria sul Nulla) si identificano e sono tutt'uno, un unico e medesimo atto. Egli è Libertà, e la Libertà è di per sé ambigua, nel senso che può esser Libertà positiva o Libertà negativa, e quel dilemma fra Bene e Male, Essere e Nulla, non fa che esprimere tale ambiguità. [...] Il Male in Dio è soltanto la possibilità del Male, la quale può essere tradotta in realtà solo per opera dell’uomo, al momento della sua Caduta. [...] Dio è senza dubbio l’origine del Male, ma certamente non ne è il realizzatore, cosa che compete soltanto all’uomo, sul piano della storia. [...] Non si può ammettere che l’uomo abbia tanta creatività da inventare il Male: egli, che è l’unico autore del Male, non può tuttavia esserne l’inventore. Non è necessario ricorrere a un principio del Male perchè il Male è già in Dio» (L. Pareyson, Ontologia della libertà - Il male e la sofferenza, prefazione di G. Riconda e G. Vattimo, Torino, Einaudi, 1995).
19 Da un punto di vista storico-sociologico, appare significativo il libro di F. Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, Bologna, Il Mulino, 2020.
20 L. Pareyson, Ontologia della libertà - Il male e la sofferenza, cit., p. 61. Essenzialmente a quest’opera è dedicato il volume di M. Dall’Aglio, Dio, la libertà e il male, Reggio Emilia, Corsiero Editore, 2022.
21 In questa ottica, potrebbe essere utile la lettura di alcune opere come quelle di M. Benasayag, Funzionare o esistere?, Milano, Vita e Pensiero, 2019; M. Benasayag-A. Del Rey, Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa, Milano, Feltrinelli, 2016; M. Benasayag- G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2004.
22 D. Melzi, La concezione tradizionale dell’aldilà. Ovvero il senso della vita e della morte secondo le dottrine arcaiche, Milano, Terra di Mezzo, 2019 e (A cura di V. Fortunati-M. Sozzi-P. Spinozzi, Perfezione e finitudine. La concezione della morte nell'utopia in età moderna e contemporanea,Torino, Lindau, 2004.
23 B. Forte, Teologia. Il mistero della morte secondo la visione cristiana, in “L’Osservatore Romano” del 27 maggio 2019.
24 Ivi.
25 M. Gionta, La vita oltre la morte. Una prospettiva positiva della vita eterna. Riflessioni cristiane sulla morte e sulla vita eterna, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2023.