Maria, la governatrice delegata di Dio

Scritto da Francesco di Maria on . Postato in I miei scritti mariani

Maria dice sì a un Dio di verità, di giustizia e misericordia, nel senso che al Dio da ella percepito non poteva che appartenere questa triplice prerogativa. Non era il suo un Dio generico, astratto, impersonale, né un Dio capriccioso, collerico, vendicativo, come spesso si continua erroneamente a definire ancora oggi il Dio primotestamentario, ma era il Dio della storia del popolo di Israele, un Dio personale ma non attitudinalmente predisposto ad assecondare i pensieri e le azioni delle sue creature o a perdonare permissivamente qualunque misfatto o iniquità. Per Maria Dio era la garanzia che la vita non finisce con la morte e che, proprio per questo, è necessario affrontarla in conformità ai comandamenti divini per evitare che, dopo la morte terrena, possa tradursi non già in una vita di eterna beatitudine, ma in una vita di eterna dannazione. D’altra parte, anche se la vita come la storia possono spesso apparire prive di senso o di scopo, Maria, lungi dal cedere a questa ingannevole apparenza, intuiva che gli accadimenti irrazionali, che generano menzogna, immoralità, perversione e iniquità, sono prodotti di un peccato d’origine che aveva alterato l’originario, divino, equilibrio tra ragione e volontà, tra conoscenza e coscienza, esponendo così le creature alle tempeste più spaventose e incontrollabili degli istinti e delle passioni.

Ma, soprattutto, il Dio di Maria era un Dio in parte conoscibile per via di ragione ed esperienza, in parte inaccessibile e misterioso. A dire il vero era un Dio misterioso anche quando accadeva che potesse parlare direttamente con determinati uomini, per esempio e i grandi profeti d’Israele, in quanto non era facilmente comprensibile che la divinità potesse comunicare con semplici esseri umani, anche se poi sarebbe stato rivelato, con la venuta di Cristo, che il vero e unico Dio sia pur sempre un Dio-con-noi, l’Emmanuele di cui aveva parlato il profeta Isaia. In realtà, prima che concepisse Cristo nel suo grembo, ella aveva concepito già nella sua mente un Dio con caratteristiche e qualità spirituali molto simili a quelle che sarebbero state proprie del suo figlio divino. Questo non significa che, come donna, madre e credente, nel corso della vita di Gesù, sarebbe stata sempre in grado di capirne le parole e i gesti, pur ritenendo del tutto normale che una semplice e umile donna, quale ella sentiva di essere, non potesse cogliere in ogni circostanza il significato e il valore del suo Dio, e che fosse già un inaudito privilegio quello di trovarsi ad essere e a fungere da madre naturale del Figlio unigenito di Dio.

Il sapersi umanamente parte di un tutto indeterminato e indeterminabile, l’interrogarsi sulle ragioni delle cose e degli eventi che scandiscono l’esistenza di individui e popoli, il sentirsi abitati da un intimo anelito di giustizia e di pace, erano per lei aspetti e componenti non meramente casuali della vita e della storia, bensì indizi significativi di un Logos, di un principio, di un fine preesistente allo svolgimento dei fenomeni naturali e delle vicende storico-umane. Un universo e un’esistenza umana per Maria non erano in alcun modo spiegabili al di fuori della saggezza biblica e del riferimento ad un Dio, di cui semmai sarebbe stato necessario cercare e comprendere la specifica identità. Tale identità ella sarebbe stata capace poco per volta e sempre meglio di acquisire attraverso la familiare frequentazione di Cristo e dei suoi insegnamenti. Così, mentre «noi dimentichiamo spesso che siamo in viaggio verso l’eternità e cerchiamo di istallarci nella vita presente come se dovesse durare sempre», notava il filosofo-teologo Réginald Garrigou-Lagrange, «Maria non cessava di avere gli occhi fissi sul fine ultimo del viaggio, su Dio stesso, e non perdeva un minuto del tempo che le era concesso. Ogni istante della sua vita terrena entrava così, per i meriti accumulati e sempre più perfetti, nell’unico istante dell’immobile eternità. Essa vedeva i momenti della vita non soltanto sulla linea orizzontale del tempo rispetto all’avvenire terreno, ma sulla linea verticale che li collega tutti coll’istante eterno che non passa» (Testi mariani del secondo millennio, 7, cit., p. 336).

Così, non si sarebbero mai dati in Maria degli atti che non fossero guidati dall’intelligenza e influenzati da una volontà carica di carità. Ma la misericordiosa amorevolezza e lo straripante spirito di carità che sono sempre stati riconosciuti alla ragazza di Nazareth, non devono essere equivocati e quindi non devono essere intesi come una specie di contrappeso alla severità del giudizio finale di Dio, in quanto il Cristo non è solo giudice ma anche redentore misericordioso e in quanto Maria non chiederebbe a suo Figlio, come non ha mai chiesto durante la vicenda terrena, grazie che saprebbe di non poter chiedere al suo Dio. Maria non potrebbe essere più amorevole e caritatevole di suo Figlio, del cui eterno amore è semmai un meraviglioso e inconfondibile riflesso creaturale. Ma se il giudizio divino si lascia vincere dalle suppliche dei più incalliti peccatori sulla via della conversione, non è forse a maggior ragione che egli mostri particolare sensibilità alle suppliche totalmente altruistiche della Santissima Vergine? Tuttavia, se, dopo la sua assunzione in cielo, Maria sarebbe stata percepita e non di rado sperimentata quale madre della misericordia e madre di tutte le grazie, ciò sarebbe accaduto in virtù dello speciale potere di impetrazione e intercessione a lei concesso da Dio stesso, un potere che, su delega divina, si crede venga esercitando con successo non solo come dispensatrice di salvezza nel nome e per conto di Cristo ma anche come «ausiliatrice in tutte le piccole e grandi vicende della giornata: nella povertà, nella malattia, nella fame, nella perdita di figli, nella prigionia, nella persecuzione. La pietà popolare cattolica trova nel linguaggio semplice della preghiera con questa ausiliatrice i suoi fiori più belli. La preghiera indirizzata alla Madre di Dio è uno sfogo del cuore. Lei, la Madre, capisce le necessità dei suoi figli» (Ivi, p. 355).

In sostanza, secondo una suggestiva espressione spesso utilizzata nella tradizione cattolica, Dio regna e Maria governa, a voler sottolineare che, se Dio è il sovrano assoluto, Maria partecipa tuttavia a pieno titolo di tale sovranità per volontà divina e sovraintende alle necessità e alle richieste di tutte le creature. E’ ella ad amministrare il regno di Dio su delega di quest’ultimo. In questo senso, Dio è il re e, per sua stessa disposizione, Maria ne condivide la regalità come Regina del cielo e della terra, degli esseri celesti e degli esseri terreni. Maria è una regina che non cessa mai di essere anche e soprattutto Madre: tanto verso il Figlio unigenito quanto verso tutte le creature, cercando in tal modo di curare al meglio gli interessi del Regno stesso di Dio. Maria è una regina-madre dotata di un amore simile a quello divino per qualità e da esso diverso solo per potenza, la quale le viene peraltro partecipata tutte le volte che deve concedere determinate grazie. Maria, perciò, è la governatrice delegata di Dio che non può che esercitare il suo potere nei limiti e nelle forme dell’infinito amore divino ma che detiene un ruolo spirituale centrale e insostituibile nella stessa economia della salvezza. In fondo, se Dio-Padre ha voluto per il Figlio unigenito una madre, pur potendo operare per lui una scelta diversa, qualche ragione di natura sovrannaturale deve pur esserci e una ragione potrebbe essere, per esempio, quella per cui la paternità divina sia probabilmente correlata ad una segreta natura femminile e materna della divinità una e trinitaria. Osserva ancora Friedrich Heiler: «Siccome ella è vicinissima a Dio, ha la possibilità di implorare tutto da lui. In questa luce la immaginano i fedeli, precisamente come “onnipotenza supplice”... Il cristianesimo primitivo usa il termine “padre” quale simbolo più adeguato per indicare il divino. Altre religioni preferiscono il simbolo “madre” per raffigurare Dio. Non è raro il caso che i due simboli vengano combinati insieme e che la divinità sia concepita come “padre-madre”», anche se il giudaismo e il cristianesimo primitivo parlano del divino esclusivamente al maschile abbinandolo a termini quali Re, Signore, Padre (Ivi, p. 356).

Tuttavia, anche nel quadro della riflessione teologica cattolica, va emergendo in modo sempre più chiaro la tesi della coesistenza nell’identità divina di una natura paterna e di una natura materna, benchè poi tale tesi venga utilizzata strumentalmente ed erroneamente da quanti negano oggi la natura biologica della paternità e della maternità. Si legge, per esempio: «quando Gesù ci insegna a chiamare Dio Padre o a vedere Dio come Madre, capovolge i riferimenti umani. Non ci chiede di immaginare il nostro Padre celeste secondo il modello dei nostri genitori biologici. Al contrario, Dio Padre diventa il modello a partire dal quale siamo aiutati a cambiare la nostra percezione della maternità e della paternità terrene» (Articolo Internet a firma del teologo cattolico Luigi Gioia, Dio Padre e Dio Madre, in data 13 febbraio 2021), senza che tali affermazioni possano trovare minimamente giustificazione nei testi biblico-evangelici. Distorcere il senso della Parola di Dio, e anzi piegarla deliberatamente a false e turpi esigenze di un’umanità che vorrebbe essere benedetta da Dio persino nei suoi vizi e nelle sue perversioni, è uno dei peggiori peccati che si possano commettere contro lo Spirito Santo, giacchè, se si riconosce che la Parola di Dio sia sempre ispirata dalla terza persona della Santissima Trinità, non si possono attribuire al divino Spirito di verità significati palesememente nefandi di cui non solo un credente ma persino un credente che si avvalga rettamente della sola ragione naturale dovrebbero essere coscienti. A capire certe elementari verità di vita morale non si giunge attraverso complicate e speciose argomentazioni ma attraverso un diretto e immediato approccio intuitivo.

Maria si meravigliava persino del fatto che un uomo giusto e timoroso di Dio come Giuseppe avesse difficoltà a credere al suo concepimento verginale, cioè al fatto che a Dio nulla è impossibile: come avrebbe mai potuto tollerare il dire di chi avesse tentato di sostenere, nel nome stesso di Dio, che la paternità e la maternità potessero essere intese non necessariamente in senso biologico? Certo, a nessun essere umano è consentito di stabilire se la struttura ontologica della divinità sia sessuata o asessuata, se la sua paternità  e maternità abbiano una natura biologica o non biologica, dal momento che biblicamente Dio è definito quale puro Spirito, Santo Spirito, ma proprio per questo si dovrebbe capire che certe congetture siano già sconvenienti o azzardate sulla ipotetica natura di Dio, mentre sono semplicemente tendenziose ed empie quando si venga disconoscendo o equivocando la divina volontà, chiaramente enunciata dalle Scritture, in relazione alla sessualità e alla natura della paternità e sessualità. Dovrebbe, peraltro, significare qualcosa di molto importante il fatto che Dio-Padre, pur potendo esercitare una qualche funzione materna, abbia inteso consegnare suo Figlio al grembo, all’educazione e alle cure di una donna e di una madre, ovvero ad un essere umano di sesso specificamente femminile.

E’ evidente che Dio, in quanto tale, possa essere anche più amorevole di una madre, come d’altra parte può essere molto più accorto, responsabile e autorevole di un padre, ma questo non significa affatto che, nel piano della sua Creazione, sia previsto che la maternità e la paternità potrebbero avere anche una natura non biologica. Quel che potrebbe, potrebbe in senso meramente ipotetico, valere per il Signore Dio, non può valere anche per l’uomo: Dio, per esempio, è onnipotente, mentre l’uomo è impotente, anche se Dio stesso ha piena facoltà di concedere ad un essere umano come Maria, la Madre per antonomasia, in quanto figlia prediletta e sposa umana del Dio trinitario, straordinari poteri sovrannaturali: «Il Padre è l’onnipotenza in assoluto, la madre una onnipotenza relativa, l’onnipotenza supplice» (Ivi). Ne deriva certamente una conseguenza molto importante specialmente per tutti quei credenti che nutrano, a ragione o a torto, un’intima propensione a ritenersi o a qualificarsi come devoti di Maria. Precisava molto opportunamente il marianista francese Émile Nicolas Neubert: «la devozione mariana … dovrà essere una devozione autentica. Nulla di insipido, di puerile, di fittizio, di unicamente esteriore e sentimentale, fondato su delle leggende. Nessuna devozione che mette Maria al posto di Gesù, che dispensa dallo sforzo, che giustifica il peccatore e gli permette di continuare ad offendere Dio, con il pretesto che alla fine la Vergine interverrà per ottenergli il perdono. Dovrà essere una devozione seria, illuminata, dottrinale, cristocentrica, che procede da Gesù e a lui conduce; una devozione fatta d’amore, di fiducia, di generosità, che suscita lo sforzo, che insegna ad essere puri, pazienti, coraggiosi, a far piacere agli altri, a dedicarsi a loro, a lottare e, se necessario, a sacrificarsi per la causa di Cristo e della Chiesa. Dovrà necessariamente adattarsi all’età, al sesso, al carattere di ciascuno; ma non dovrà mai presentare alcunchè di cui uno debba più tardi provare vergogna o disprezzo» (Ivi, p. 368).

Beninteso, la vera e seria devozione mariana, per esser tale, non deve necessariamente nutrirsi di mariologia, di teologia specificamente incentrata sulla figura di Maria, non perché la mariologia sia necessariamente, secondo l’espressione sin troppo ingenerosa di Karl Barth, «un’escrescenza maligna, un “ramo ingordo” della riflessione teologica», per cui «i “rami ingordi”» debbano essere necessariamente «sfrondati» (Ivi, p. 394), ma semplicemente perché la gloria di Maria non può essere né compresa né celebrata al di fuori della gloria di Dio. La critica barthiana, peraltro, pur ammettendone una qualche funzione correttiva, potrebbe essere estesa anche alla teologia in generale, per la quale, in vero, i “rami ingordi” probabilmente sono ancora più numerosi, ingombranti e dannosi di quelli relativi agli studi sistematici su Maria, ai fini della proclamazione e diffusione della retta fede nel mondo, e quindi la stessa riflessione teologica potrebbe fungere d’intralcio ad una corretta o esemplare professione di fede. Il vero credente non dev’essere per forza un teologo, così come il vero devoto di Maria non dev’essere per forza un mariologo. Certo, questo non comporta che il credente possa disconoscere i fondamentali princìpi dogmatici della fede o che il devoto di Maria possa disconoscere quelli che la Chiesa, nel corso dei secoli, è venuta proclamando, a giusta ragione, come universali dogmi mariani, ma la fede in Dio, e la stessa fede in Maria che non è altro dalla prima, si conservano e si alimentano essenzialmente con il retto intendimento della lettera e dello spirito della Parola di Dio, con la disponibilità ad apprenderne continuamente il senso e i significati, con la preghiera e la coerente testimonianza di fede e con l’esercizio della carità. Poi anche teologi e mariologi devono fare la loro parte e testimoniare la fede secondo i carismi ricevuti da Dio, fermo restando che assolvere il compito di trasmettere e comunicare veridicamente la Parola di Dio, senza essere né riduttivi né esorbitanti o spropositati, comporta delle responsabilità di fronte a Dio ben superiori a quelle del comune credente.

Più che mariologi, dotti ed eruditi cultori del significato e della funzione di Maria di Nazareth nel piano divino della salvezza, sarebbe auspicabile poter essere credenti dotati di degno spirito mariano, ognuno nel suo stato di vita, in relazione alle proprie esperienze spirituali e alla storia della propria fede, e nei limiti dei doni o della vocazione ricevuti. Ma bisogna stare attenti a non diffidare, con Barth, dei copiosissimi studi mariologici, di una letteratura mariologica non di rado eccedente e ripetitiva, solo per non riconoscere l’oggettiva “grandezza” soteriologica ed escatologica di Maria, solo per disconoscere o sminuire la piena legittimità biblico-teologica dei dogmi mariani riconosciuti invece pienamente dalla Chiesa cattolica. E’ vero, come sostiene il teologo calvinista, che la grandezza di Maria riflette pur sempre la grandezza di Cristo e sarebbe irragionevole che essa fosse indipendente da quella di Cristo, ma questo non può indurre a ridimensionare arbitrariamente il ruolo che lo stesso Cristo ha assegnato alla Madre proprio nel suo piano di salvezza. E’ vero che Maria sia «la serva del Signore» ma, dal punto di vista strettamente creaturale e non umano-divino, è proprio la servitù mariana, il mariano modo di seguire e servire il Signore, a costituire il più fulgido modello di sequela del Cristo, la più radiosa e perfetta via di salvezza, per cui ridurre la funzione spirituale di Maria nel piano divino della salvezza ad una semplice funzione “ausiliare”, come vorrebbe Barth, significa non solo e non tanto peccare di ingenerosità verso la giovinetta di Nazareth quanto soprattutto non cogliere tutta la complessità, la profondità e la vastità del disegno salvifico di Dio. Non capire che Maria rappresenta l’esaltazione umana più emblematica dell’amore umano verso Dio, l’esempio più paradigmatico, anche rispetto agli esempi più eclatanti di umana o di angelica santità, di come ci si possa e ci si debba relazionare con il Dio della vita e della morte nel corso dell’umana esistenza, anche e soprattutto nei momenti più incerti, faticosi e oscuri di quest’ultima, implica inevitabilmente una imperfetta comprensione della logica divina, una visione riduttiva (che, comunque, tale continuerebbe ad essere anche al di là dell’aspetto teologico qui in esame) della multidimensionalità della strategia biblico-evangelica della salvezza. Il torto, cioè, più che a Maria, si farebbe a Dio stesso, che non solo è venuto a salvare l’umanità, ma ha voluto indicare concretamente, attraverso Maria, le modalità comportamentali, relazionali, spirituali, talvolta anche erronee, in cui un essere umano può e deve legittimamente cercare di capire, seguire, amare e servire il suo unico e vero Dio in Cristo Gesù.

Gli stessi apostoli del Cristo, pur avendo fatto esperienza diretta della sua opera e del suo insegnamento, avrebbero continuato poi ad attingere da Maria notizie, spiegazioni, informazioni, intorno agli aspetti più misteriosi dell’itinerario esistenziale e salvifico del Figlio divino. Ecco perché Maria è Madre della Chiesa: non solo in quanto Madre di Gesù, ma anche in quanto massima conoscitrice ed emulatrice umana del Logos divino. Ed è principalmente in questo senso che non si può non dissentire dalla seguente affermazione di Barth: «Ogni tentativo di fare della sua persona l’oggetto di un’attenzione speciale, di prestarle nella storia della salvezza un ruolo indipendente, fosse anche tutto relativo, è un’offesa al miracolo della rivelazione; poiché si tende a fare dipendere questo miracolo non solo da Dio, ma supplementariamente dall’uomo e dalla sua ricettività» (Ivi, p. 395). A Maria, piaccia o non piaccia, l’attenzione speciale è stata riservata da Dio-Padre, visto che le ha chiesto di diventare madre del suo Figlio Unigenito. Non mi sembra una cosa da niente. Quanto al “ruolo indipendente” in senso relativo, nella storia della salvezza, francamente non lo viene esercitando solo Maria, ma tutti gli altri protagonisti di quella storia, ivi compresi i discepoli, gli apostoli, le donne al seguito di Gesù, i sacerdoti e i dottori del Tempio, lo stesso popolo ebraico. E, infine, che il miracolo della rivelazione non necessiti intrinsecamente di presupporre almeno la possibilità di essere recepito dall’uomo, è forse un concetto troppo profondo perché io possa comprenderlo. Ma allora, se quel miracolo non può essere posto né logicamente né teologicamente in relazione alla possibilità di essere recepito umanamente, Dio non ha offerto al mondo un impossibile piano salvifico?

Quel che non capisce Barth è che, se i cattolici ritengono che Maria sia corredentrice in Cristo e con Cristo, non è affatto per esaltarne a dismisura il ruolo e l’importanza religiosa, ma è solo per riconoscere l’obiettiva realtà dei fatti: Maria ha cooperato con il piano divino di salvezza, accettando di mettere al mondo Gesù, di allevarlo, istruirlo, educarlo, servirlo, ascoltarlo, seguirlo sino alla croce, e persino, per esaudire la volontà del Figlio morente, di assolvere la funzione di Madre della Chiesa e del genere umano. Se tutto questo non si configura come piena, totale collaborazione con Dio, come integrale compartecipazione all’opera salvifica e redentiva di Cristo, evidentemente il linguaggio barthiano è diverso da quello usato correntemente nella cultura occidentale, perché, in caso contrario, non è possibile negare che, stando così le cose, Maria sia corredentrice di Cristo. E anche se Maria è nota non già per la sua “grandezza” ma per la sua “piccolezza” evangelicamente documentata fin quasi all’insignificanza, proprio la sua deliberata ma mai ostentata piccolezza al servizio di Cristo l’avrebbe trasformata, dopo la morte del Figlio, proprio in quella figura gigantesca di saggezza, amore, dedizione, che era sempre stata accanto al Figlio e che il Figlio, proprio nell’esalare l’ultimo respiro, avrebbe voluto esaltare e magnificare conferendole il titolo di Madre della Chiesa e del genere umano. Figlia prediletta di Dio, Madre di Cristo, Madre della Chiesa, Tempio dello Spirito Santo: cos’altro manca alla piccola e umile Maria per poter essere esaltata da Dio e dagli uomini, esaltata non per adorazione ma per venerazione così unica e speciale da rimanere di poco inferiore all’adorazione dovuta a Dio? Non ha detto Gesù che gli ultimi saranno esaltati e chi più di Maria potrà mai essere esaltato?

De Maria numquam satis: si può proporre una traduzione diversa da quella consueta. Non tanto: di Maria non si dirà o non si parlerà mai abbastanza, quanto: di Maria non si tesseranno mai abbastanza le lodi, non si finirà mai di esaltare le qualità umane e le prerogative sovrannaturali. Ma, beninteso, la grandezza di Maria sarà per l’eternità non già quella di una semi-dea, bensì quella di una creatura umana, anzi della creatura umana più prossima e somigliante alla stessa identità divina, così somigliante da meritare di essere esentata dal peccato originale per volontà del Padre e in previsione e in funzione dei meriti redentivi di Cristo. Se Gesù, assolutamente immune da peccato, ha voluto assumere su di sé il peccato del genere umano, può essere accaduto anche il contrario per Maria: che ella, pur destinata ad essere contaminata dal peccato in quanto discendente di Adamo ed Eva, ne sia rimasta immune per esplicita volontà del Padre. Se il Padre ha potuto permettere a Cristo di assumere su di sé il peccato originariamente contratto dall’umanità, il Padre ha potuto anche permettere che una sua creatura non subisse l’influsso e le conseguenze del peccato originale ma si trovasse nelle stesse condizioni in cui si era trovata Eva al momento della divina creazione. Non è forse vero che a Dio nulla sia impossibile?

I nostri più antichi progenitori furono anch’essi creati “immacolati”, senza peccato e tuttavia liberi di peccare: essi di fatto avrebbero peccato senza neppure tentare di rimediare in qualche modo con una richiesta di perdono a Dio, con tutte le ben note conseguenze per la specie umana. Maria si sarebbe trovata, per l’intervento sovrannaturale di Dio, nella stessa condizione di totale innocenza, di radicale verginalità, di originaria incontaminazione dal peccato, in cui si erano venuti a trovare inizialmente Adamo ed Eva. Anche Maria avrebbe potuto peccare, ma ella, diversamente da loro, avrebbe continuato a rimanere fedele al dono divino dell’essere stata resa Immacolata Concezione non smettendo mai di rendere amore,  onore e grazie al suo Creatore. Maria riuscì così a meritare con tutta la sua vita ciò a cui era stata destinata ab aeterno: l’Immacolata Concezione. Hanno torto i fratelli protestanti a pensare che qualunque separazione tra Maria e gli altri esseri umani infranga «la nostra condizione di essere salvati», come scrive il teologo luterano Hans Christian Asmussen (Ivi, p. 400). Ella non è separata dagli altri esseri umani solo perché Dio l’abbia voluta “piena di grazia” ad un punto tale da concederle preventivamente in dono, in previsione dei meriti di Cristo, la perpetua verginità. Al più, a scopo esasperatamente speculativo, si potrebbe chiedere se l’atto divino di fiducia verso Maria si sia rivelato giustificato e la vita di Maria è lì a dimostrare che la scommessa di Dio sarebbe stata assolutamente vincente. Ma poi, a prescindere dalla storia pur singolarmente significativa e anzi unica della Santissima Vergine, sarà o non sarà libero il Signore di distribuire speciali carismi a suo piacimento?

Maria è perfettamente unita a tutto il genere umano in tutto ciò di cui esso ha bisogno per vivere, per sperare, per progettare e per amare, tranne che nel peccato originale, semplicemente perché così ha voluto il Padre in funzione della grandiosa opera redentiva di Cristo. Poteva il nuovo Adamo essere procreato e poi assistito per tutta la pur breve vita da una donna marchiata e condizionata dal peccato originale? No, il nuovo Adamo doveva essere affiancato da una nuova Eva. E, d’altra parte, nessun essere umano, più di Maria, avrebbe potuto ottenere dal Dio trinitario tutte le grazie ottenute a favore del genere umano, a partire dal momento in cui Maria chiede al Figlio di intervenire a favore degli sposi e dei convitati delle nozze di Cana. Contrariamente a quanto ritengono gli evangelici come Asmussen, Maria non viene trasformata in una divinità nel momento in cui si riconosca che ella sia, per volontà di Dio, l’Immacolata Concezione, perché tale privilegio non toglie nulla alla sua perfetta umanità, e, si badi, non alla sua umanità ma alla sua umanità che si configura come già perfettamente funzionale ai progetti divini. E questo privilegio, peraltro strenuamente onorato dalla Madre di Cristo durante tutta la sua esistenza, la rende altresì interlocutrice privilegiata di Dio. Tuttavia, Maria resta, anche al di là di quel che la ragione umana credente può sforzarsi di comprendere in modo proficuo, uno dei più grandi misteri della storia eterna di Dio. Mi sovviene, in chiusura, un profondo pensiero di Hugo Rahner, gesuita e fratello maggiore di Karl Rahner: «Anche per Maria, la vera Eva del genere umano, vale il detto: grande è il suo mistero, ma lo dico in Cristo e nella Chiesa. Ma per comprendere profondamente questo mistero occorre naturalmente avere, come dice Girolamo, “un cuore divino”. Dobbiamo essere uomini interiori per afferrare il mistero di Maria nella Chiesa. Lo sostiene Agostino nelle Confessioni, quando applica la parola del profeta: “Rientrate in voi stessi”, al mistero di Maria e della Chiesa, e dice: “Cristo, nostra vita, è sceso verso di noi; ha allontanato da noi la morte e l’ha distrutta mediante la pienezza della sua vita. Con voce forte si rivolge a noi dicendo: ritornate a quel santuario nascosto dal quale io sono uscito per venire a voi; ritornate a quel ventre primordiale e verginale in cui ho assunto la creatura umana”» (Ivi, p. 438).