La bellezza della fede nell' "uomo di ragione"

Scritto da Angela Iazzolino on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Norberto Bobbio, figura carismatica del pensiero novecentesco, si è sempre definito e si definiva ancora all’inizio del terzo millennio, un “uomo di ragione”, intendendo con questa espressione non che l’uomo che usa criticamente la ragione sia necessariamente privo di un senso religioso della vita ma che l’unica forma di religiosità che si può permettere consiste nel vivere il senso del mistero che lo circonda senza pretendere di riempire “questo mistero” (come farebbe l’uomo di fede) «con rivelazioni e verità che vengono dall’alto» ma avendo e mantenendo la coscienza «dei propri limiti» in rapporto «alla grandiosità, all’immensità dell’universo» (Religione e religiosità, in “Micromega”, 2, 2000, oggi ripubblicato nella stessa rivista, I, 2004, p. 11).

Anzi, più esattamente, egli scriveva, tale religiosità è quella «del dubbio, anziché delle risposte certe» (Ivi). L’ “uomo di ragione”, contrariamente all’uomo di fede, è probabilmente incapace di «andare al di là» delle molte domande che il mistero solleva. Bobbio confessa apertamente: «quando sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alle domande ultime, la mia intelligenza è umiliata. Umiliata. E io accetto questa umiliazione. La accetto. E non cerco di sfuggire a questa umiliazione con la fede, attraverso strade che non riesco a percorrere. Resto uomo della mia ragione limitata – e umiliata. So di non sapere. Questo io chiamo “la mia religiosità”. Non so se è giusto, ma in fondo coincide con quello che pensano le persone religiose di fronte al mistero. Certo, probabilmente non si riesce a resistere a questo dubitare continuo, a questo continuo non sapere, e allora ci si affida alle credenze, come quella nella immortalità dell’anima. Io però, il fondo religioso della mia persona continuo a intenderlo come questo non sapere. Ed è un fondo religioso che mi assilla, mi agita, mi tormenta» (Ivi).

Però Bobbio appare certo e non dubbioso quando ritiene di poter affermare perentoriamente che «la risposta della fede è consolatoria» e soprattutto rispondente alle domande «che ciascuno si pone sulla soglia della morte», che la «credenza nei miracoli…per un razionalista è la cosa più assurda» e che altrettanto assurdo «è il dover credere in ciò che a ogni essere di ragione appare come mito, cominciando dal peccato originale» (Ivi, pp. 12-13). Quanto alla possibilità di una vita eterna essa è semplicemente inconcepibile e può essere propagandata solo da chi non prende sul serio la morte: «quella persona che ho amato ora non c’è più. E che» ne resti qualcosa «in un altro luogo…a me non importa assolutamente nulla». Insomma, chi riflette rigorosamente «sui grandi temi dell’esistenza» si rende conto che «nessuna delle risposte della religione» è convincente (Ivi, pp. 13-14).

Queste affermazioni, che a dire il vero non sembrano quelle di una intelligenza che si senta realmente “umiliata”, presuppongono che la fede sia totalmente altro dalla ragione e che quindi già la ragione autonomamente non possa mettere in discussione il destino puramente terreno della vita umana né possa quanto meno sospendere il giudizio sui cosiddetti miracoli né possa riservarsi di approfondire e comprendere meglio il concetto di peccato originale ed il significato di certe risposte religiose tradizionali.

Bobbio, pur esibendo un’alta consapevolezza filosofica, non sembra sospettare minimamente che, per quanto riguarda questa materia, i limiti possano essere solo della sua ragione e non della ragione tout court. E’ probabilmente la sofisticata e rarefatta accademicità del suo sapere che non gli consente di sospettarne. E si capisce chiaramente che, pur parlando di se stesso, egli si senta in realtà interprete di una ragione universale. Questo è piuttosto evidente quando, facendo riferimento al progresso tecnico-scientifico, afferma che esso «travolge le credenze tradizionali» come nel caso dell’idea dell’immortalità dell’anima (che verrebbe «in parte distrutta» dal fatto che «si vive ormai fino a ottanta, novant’anni»!), o quando , tirando in ballo la più recente e aggiornata storia scientifica dell’universo, afferma che si pongono oggi questioni sconvolgenti «cui la fede non dà nessuna risposta» senza però precisare se la ragione invece dia nel frattempo delle risposte e quali siano queste risposte.

Bobbio osserva inoltre che il cristiano “crescete e moltiplicatevi” aveva una ragion d’essere in tempi in cui «almeno la metà dei bambini moriva appena dopo la nascita» mentre oggi, con la sovrappopolazione che c’è, non avrebbe più alcun senso; che il Creatore è una semplice «creatura dell’uomo» e non vi sarebbe «nulla di più antropomorfico di un Dio padre» e del cristiano Padre nostro; che alla ragione ripugna l’idea che la nascita di Cristo sia avvenuta «non attraverso un normale rapporto tra uomo e donna ma per intervento dello Spirito Santo» e che il precetto morale per cui bisogna lasciare che «i morti seppelliscano i morti» è incomprensibile per la sua indifferenza e per il suo disprezzo     verso «una pratica che è invece cosí umana, pietosa». Anche se, alla fine, egli dichiara, «il problema più difficile, più ostico da superare per fede resta quello del male», di quel male beninteso che non dipende dalla malvagità umana ma «dalla terra inospitale in cui viviamo» (alluvioni, terremoti, sciagure varie, malattie, ecc.). Insomma Bobbio non ha dubbi: «la fede non risponde alle domande, può solo evitarle». Ed è pertanto evidente che ragione ed esperienza restino i due soli “lumi” legittimi dell’uomo (Ivi, pp. 12-16).

Ora, è sicuro che una fede abitudinaria o meccanica, cioè una fede da sagrestia (con tutto il rispetto per le sagrestie) o di tipo catechistico, può solo eludere le domande; ma è possibile che il filosofo torinese, per nutrire la sua ragione su faccende cosí serie, abbia frequentato sempre e solo sagrestie o ambiti intellettuali di tipo catechistico, senza preoccuparsi di approfondire, proprio per via di ragione e di esperienza, che vengono implicando più di quanto generalmente molti filosofi professionali non vedano, il senso della religiosità? Il cardinale Carlo Maria Martini resta colpito dal fatto che «Bobbio non nomini se non di passaggio la persona di Gesù e mostri di non conoscere a fondo i vangeli» (C. M. Martini, Norberto Bobbio e il senso del mistero, Micromega, I, 2004, p. 10). E’ sperabile che ciò non sia accaduto per quell’atteggiamento di sufficienza con cui alcuni intellettuali di valore trattano talvolta le dimensioni più profondamente spirituali e religiose dell’esistenza, ma è fuor di dubbio che Bobbio ha della religiosità una conoscenza molto parziale e limitata e che di questo limite non può non risentire anche la sua concezione della razionalità. Se avesse letto più attentamente i vangeli, egli avrebbe senz’altro compreso che Gesù si rivolge principalmente ad uomini di ragione, ad uomini e donne esortati ad usare la propria ragione, e che la sua vita e la sua morte sono un inno alle ragioni della verità e della vita e non della menzogna e della morte.

Si può anche capire l’avversione del filosofo laico per l’atteggiamento polemico che la Chiesa cattolica mantiene, nel nome di una filosofia perenne (su cui, tuttavia, da parte cattolica non mancano utili tentativi di riflessione critica: ad esempio V. Possenti, Philosophia mortalis, philosophia perennis?, in AA.VV., La filosofia come vocazione, Milano, Mondadori, 1997, pp. 35-36) e non di rado nel segno di un ritorno alla filosofia di san Tommaso d’Aquino, verso gran parte delle filosofie contemporanee, quantunque non sembri troppo scandaloso il fatto che la Chiesa non sia sempre all’altezza dei suoi compiti intellettuali o che tenda qualche volta a travalicare i confini del mandato ad essa affidato da Cristo. Può darsi benissimo che la Chiesa debba impegnarsi più sul piano scientifico che su quello filosofico per essere poi migliore anche su quello filosofico e che debba assumere una posizione più precisa e meno generica «sull’avvento di armi sempre più micidiali e sempre più facili da usare, sull’aumento della popolazione, sulla distruzione dell’ambiente, sulla globalizzazione selvaggia che rischia di produrre sempre maggiori disuguaglianze» (Religione e religiosità, cit., p. 18).

Ma che c’entra tutto questo con l’invito poi rivolto alla Chiesa a non occuparsi più dei rapporti tra ragione e fede in quanto tra questo «vecchissimo» tema e gli effetti sconvolgenti del progresso tecnico-scientifico del nostro tempo non ci sarebbe più alcun nesso (Ivi). Come sarebbe a dire? Come potrebbe la Chiesa occuparsi di armi e demografia, di economia e di ecologia senza parlare ancora e sempre di ragione e di fede? Può darsi che essa ne parli in modo inefficace ma in tal caso il problema non è quello di chiedere alla Chiesa di occuparsene meglio e non di non occuparsene affatto?

Se non si è inclini a capire le ragioni della fede, è perché probabilmente non si è inclini a capire le ragioni, o almeno non tutte le ragioni, della ragione stessa. Perché, in definitiva, rispondere esaustivamente e senza facili scorciatoie dialettiche alla domanda che cos’è la fede religiosa cristiana è o non è un compito costante ed ineludibile della ragione critica? E’ proprio la ragione critica che può utilmente suggerire come la fede sia sí la fede in Cristo ma nel senso di fede nella stessa fede di Cristo, dove la fede di Cristo si riveli inequivocabilmente come ascolto ispirato della parola di Dio, come accettazione non passiva e rassegnata ma dinamica e fiduciosa della volontà del Padre, come ricerca instancabile di una verità che le molteplici forme costituite di sapere e di potere, ivi compresi il sapere e il potere religiosi di ogni epoca) non possono mai contenere ed esprimere adeguatamente, come prassi volta a scardinare ogni manifestazione di grettezza spirituale e ogni logica anche inconfessata di dominio, come testimonianza di un’intelligenza aperta all’ardita ma non assurda possibilità di una vita non puramente simbolica oltre la vita stessa.

Non è allora che, per aprirsi alla fede, la ragione debba tradire per forza se stessa e la sua vocazione conoscitiva; al contrario, la fede, che come la ragione si presenta negli esseri umani in forme e modi diversi, può essere una nuova dimensione della ragione, una ulteriore e non generica domanda di verità che la ragione pone a se stessa. Certo, la fede può essere persino una preziosa conquista della ragione, della ragione e non della semplice logica che è solo uno strumento della ragione. Non è che l’uomo, per essere vero uomo di ragione e accostarsi correttamente al senso del mistero, debba necessariamente rimanere chiuso alla comprensione della valenza conoscitiva e pratica della fede, allo stesso modo di come l’uomo, per essere vero uomo di fede, non deve necessariamente diffidare della ricerca rigorosamente razionale.

E’ forse il caso di pensare ad un rilancio della domanda di Kant sulle possibilità e sui limiti della ragione umana, perché non è scritto da nessuna parte che a questa domanda sia stata data una risposta definitiva e incontrovertibile. Gli spiriti sinceramente religiosi possono forse rammaricarsi che, dentro la Chiesa e fuori di essa, non si trovino o non si lascino emergere menti cosí lucide e argute come quella di Norberto Bobbio, ma tutti, credenti e non credenti, dovrebbero sempre augurarsi, per il bene di ogni individuo e dell’umanità stessa, che uomini di ragione siano anche uomini intellettualmente e moralmente capaci di sperimentare e testimoniare la vitalità e infine la bellezza della fede.

In effetti, non è la fede tradizionalmente o genericamente intesa ma la ragione nella sua più alta accezione critico-ermeneutica che può ben rinvenire ormai segni importanti di mistificazione nell’assunto piuttosto logoro secondo cui sarebbe ragionevole accettare che la vita è questa e solo questa, vale a dire che reali sono solo i sensi parziali e mortali di questa vita. Se tale assunto fosse inconfutabile noi dovremmo chiederci non più «perché l’essere e non il nulla» (come fa anche Bobbio) ma «perché il nulla e non l’essere», in quanto sarebbe razionalmente inammissibile che di un’anima capace di percepire e diffondere il senso di un amore infinito ed eterno non debba rimanere altro che l’istante terreno della sua esistenza. Si può arricciare il naso ma, a ben riflettere, non è un ragionamento fallace. Infatti che, da quando nasco a quando muoio, io debba pensare e capire e poi sentire e soffrire per poi finire nel nulla o nella spazzatura di una sempiterna fluttuante materia cosmica, io non lo trovo per nulla razionale, e anzi proprio la mia ragione mi dice che, se cosí dovesse essere, mi troverei in presenza di un fenomeno totalmente irrazionale.

Francamente, nell’uomo di ragione che, per quanto intellettualmente vivace, confonde suo malgrado, una ragione un po’ pigra e disinformata con una ragione analitica, non c’è niente di entusiasmante sotto il profilo conoscitivo e di appassionante sotto il profilo morale, mentre nell’uomo di ragione, capace di dubbio, di analisi e di critica nel quadro di una ragione intesa anche come fede in forme di conoscenza e di giustizia radicalmente diverse da quelle storicamente più accreditate e praticate, la bellezza, come attitudine a contemplare le stupefacenti ed inesauribili sfumature del vero e come sentimento ispirato delle cose, è destinata ad assumere un significato e un valore non solo sostanziali ma imprevedibili o inimmaginabili. Il che però non significa che la fede nasca da una coscienza filosofica relativistica che tenda ad isolare Dio dalla qualità delle nostre opzioni intellettuali e delle nostre scelte di vita, o che come cristiani bisogna essere per forza relativisti (come sembra succedere in D. Antiseri, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003), perché anzi può accadere che, per amore di una fede sincera e profonda, il più sofisticato relativismo filosofico si riveli un ipocrita espediente di spiriti inetti e che il cristiano più integro non si preoccupi affatto di essere o non essere relativista o fallibilista in senso teorico.

Chi coltiva la fede nella Parola di Cristo, percorrendo i sentieri più semplici e più diritti della ragione, non è mosso dal bisogno intellettualistico di porsi il problema della propria fallibilità o infallibilità (non potendosi in ogni caso evitare di essere fallibili) quanto dalla consapevolezza che, lontano da quella Parola, sarebbe non solo fallibile ma fallito.

La fede religiosa dell’intelligenza e del cuore si alimenta di dubbio senza risolversi in esso. Bobbio, ritenendo invece che oltre il dubbio la ricerca della verità non possa andare, ha cosí concluso: «Io non credo. Arrivato ad un’età in cui si sente che la fine è vicina, se devo ascoltare me stesso, e dare una risposta personale, l’unico desiderio che ho, l’unico bisogno, non è certo quello dell’immortalità, è quello di morire in santa pace: il riposo eterno è ciò in cui spero. Non voglio risvegliarmi» (Religione e religiosità, cit., pp. 12-13). A parte il fatto che per “riposo eterno” il cristiano non intende morte eterna, tutti sperano naturalmente di morire “in santa pace”, anche quelli che sperano di potersi un giorno risvegliare, ma sarebbe strano che un maestro di razionalità come Bobbio non avesse espresso neppure ironicamente, quanto meno in privato, la speranza di poter eventualmente verificare nell’aldilà se da vivo avesse ragione o torto. Però, certi saccenti e presuntuosi cultori della fede non esultino, perché anche chi spera di poter andare in paradiso può e deve trarre da un pensatore laico e non credente come Bobbio sollecitazioni critiche ben più utili di quelle che possono venirgli da devotissime ma pretenziose e oscure disquisizioni filosofiche o teologiche e da roboanti ma isteriche e sterili omelie di cui grondano alcuni pulpiti parrocchiali di santa romana Chiesa.

   

(pubblicato in “Bucinator”, 5, 2004)