Il perdono secondo Gesù

Scritto da Fernando Cianciaruso on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori: è ciò che si recita nella preghiera principale dei cristiani. I cristiani chiedono a Dio di essere da lui perdonati allo stesso modo di come essi perdonano coloro da cui sono stati offesi. Dunque, poiché si sforzano di perdonare chi li offende, essi chiedono di essere perdonati per le proprie colpe da Dio. Si potrebbe osservare che queste due situazioni siano imparagonabili, dal momento che la misericordia di Dio è già per definizione infinita mentre quella umana per quanto grande non può mai essere pari a quella divina. Dio, scrive l’apostolo Giovanni, è amore, cioè la sua stessa natura lo porta ad amare; per l’uomo invece le cose sono più complicate perché, segnato dal peccato originale, non sempre e non in tutte le circostanze è capace di amare e quindi anche di perdonare in modo incondizionato. E’ mai possibile che il Signore ponga quale condizione necessaria del suo perdono la nostra capacità di perdonare sempre? E’ possibile che egli, in un certo senso, ci ricatti? Perché dopotutto, quando si ha a che fare con offese particolarmente gravi, sarebbe del tutto normale non dico vendicarsi ma quanto meno chiudersi nel proprio dolore senza nulla concedere a chi lo ha provocato.    

Ora, il Signore sa che, senza il suo aiuto, senza la sua grazia, la natura umana è incapace di perdonare come lui esige, e pertanto non si può pensare che pretenda l’impossibile, che cioè l’uomo perdoni con la stessa prontezza e con la stessa tenerezza che contraddistinguono il perdono divino. Ma esige che l’uomo, con il concorso di quello Spirito Santo che è il dono richiesto o da richiedere sempre a Dio nella preghiera, faccia tutto quello che gli è realmente possibile, nei limiti della sua umanità e della sua stessa debolezza creaturale, per perdonare e per non stancarsi di perdonare persino le colpe altrui più gravi. E’ evidente che quanto maggiore è la presenza attiva di Dio nell’uomo tanto maggiore dovrebbe essere lo sforzo di perdonare. Per cui il comando di Dio è certamente assoluto (siate misericordiosi come uomini cosí come io in quanto Dio sono misericordioso), ma il giudizio divino circa le nostre capacità individuali di perdonare non è astratto e avulso dalle nostre specifiche condizioni di vita e dalla reale entità degli sforzi personali compiuti in rapporto alla maggiore o minore grazia divina ricevuta. Pertanto, non bisognerà giudicare il prossimo e bisognerà persino benedire chi ci fa del male o ci perseguita, senza però dimenticare che il valore dello sforzo compiuto o da compiere a questo fine varia inevitabilmente da caso a caso e in relazione a tutta una serie di fattori oggettivi e soggettivi che solo a Dio sono noti. Lo stesso vale per coloro che si trovino nella condizione di dover chiedere perdono.

Ne deriva che la questione del perdono cristiano non è questione che possa semplificarsi sino a farla diventare banale ma è invece questione seria e impegnativa che non può essere evocata o trattata genericamente e superficialmente. Tale avvertenza vale soprattutto, anche se non unicamente, in relazione all’odierno smodato uso mediatico di tale questione e delle indagini che più o meno morbosamente spesso in tale ambito vengono svolte ed amplificate, quasi che il vangelo faccia obbligo di informare ogni volta la stampa o la società del perdono concesso o non concesso a causa di questo o di quell’evento drammatico. D’altra parte bisogna precisare che il perdono evangelico non esclude in assoluto la possibilità di un equo rivalersi del danno o dell’offesa subìti anche sul piano civile, giuridico ed economico. Nostro Signore è stato spesso paradossale nei suoi precetti e nei suoi comandi evangelici, ma non ha mai inteso contestare la legittimità del far ricorso a determinati criteri o norme civili di giustizia. Infatti, egli non ha mai messo in discussione neppure una pena cosí disumana, e storicamente meritevole di essere abolita, come la morte sulla croce, riguardando invece la sua recriminazione l’applicazione di questa pena a persone innocenti. Chi usa le leggi di Cesare per difendersi dal delitto o per ripristinare in qualche modo il diritto eventualmente negato dal delitto, non per questo è già venuto meno al suo dovere di amare e perdonare il prossimo suo.

Anche perché, bisogna dirlo chiaramente e difformemente da quel che con troppa disinvoltura si tende di solito a ritenere, l’atto del perdono né implica necessariamente la rinuncia ad una qualunque forma di reazione all’offesa subíta né è totalmente svincolato dal comportamento dell’offensore. Immaginiamo, e nella vita succede in senso morale più spesso di quanto non si creda, che un tale, ogni volta che gli passiamo accanto, ci sputi in faccia: certo che dobbiamo chiedere a Dio che abbia pietà di lui e ci dia la forza di resistere a tanta provocazione, ma si può ragionevolmente ed evangelicamente affermare che se lo denunciamo o in qualche modo reagiamo ad un comportamento cosí scorretto al fine di non favorirne la reiterazione non siamo stati capaci di perdonare e non possiamo che perdere allora la comprensione divina? Non bisogna giocare con le parole di Dio, non bisogna giocare con lo spirito della sua parola. Ma, si dirà, Gesù non ha forse detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”?

Certamente sí, ed è molto probabile che il Signore usi misericordia soprattutto verso i peggiori peccatori che siano tuttavia capaci di sincero pentimento o che facciano cose sbagliate senza esserne realmente consapevoli. Ma, in questo specifico caso evangelico, dobbiamo anche cercare di capire il senso effettivo delle parole di Cristo e l’identità di coloro cui egli veramente intese riferirsi. E’ utile premettere che, quando i giudei dicono ingiuntivamente a Pilato che Gesù deve morire perché la Legge prevede che chi osa farsi figlio di Dio debba morire, il vangelo giovanneo recita testualmente: «Pilato si spaventò. Entrò di nuovo nel palazzo e disse a Gesù: “Da dove vieni”? Ma Gesù non rispose. Allora Pilato gli disse: “Non dici nulla? Non sai che io ho il potere di liberarti e il potere di farti crocifiggere”? Gesù replicò: “Non avresti nessun potere su di me se non ti fosse dato da Dio. Perciò chi mi ha messo nelle tue mani è più colpevole di te”» (Gv 19, 8-11), alludendo principalmente alla casta sacerdotale che, pur dichiarandosi depositaria della volontà di Dio in terra, aveva finito molto colpevolmente per disconoscere Dio sino al punto di chiedere che il Figlio suo unigenito fosse sottoposto addirittura alla pena capitale. Qui dunque Gesù non fa sconti: dice a Pilato che è colpevole perché sta per condannare un innocente ma dice anche che quei sommi sacerdoti che hanno chiesto al procuratore romano di crocifiggerlo sono ancora più colpevoli. Qui Gesù non parla di perdono ma parla con chiarezza delle gravi responsabilità che si stanno assumendo di fronte a Dio il rappresentante del potere politico e giudiziario e soprattutto molti rappresentanti del potere religioso nonché tutti coloro che se ne sono fatti seguaci.

Il contesto in cui egli invece pronuncia le famose parole di perdono, che però non sempre vengono interpretate in modo corretto, si riferisce al momento in cui i soldati romani conducono a morte Gesù insieme a due “malfattori”. A questo punto, si legge nel vangelo lucano, «quando furono arrivati sul posto detto "luogo del Cranio", prima crocifissero Gesù e poi i due malfattori: uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra. Gesù diceva: "Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno". I soldati intanto si divisero le vesti di Gesù, tirandole a sorte» (Lc 23, 32-34). A chi può riferirsi dunque Gesù concretamente se non a quei soldati pagani che nulla sanno di ciò che egli ha rivelato al suo popolo e che, almeno per il momento, non immaginano neppure lontanamente che stanno crocifiggendo il Figlio di Dio o Dio in quanto Figlio? La richiesta di perdono è senza dubbio per i pagani in modo specifico perché lo stesso Gesù aveva previsto una situazione del genere: «Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: "Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà"» (Mt 20, 17-19).

Resta grandiosa la richiesta di perdono che Gesù muove al Padre suo celeste a favore di quelle persone che in quel momento stanno dilaniando la sua carne e il suo spirito, ma è a quelle persone e solo a quelle che in quel momento sta pensando Gesù non all’umanità intera. Gesù non recita una parte, non recita la parte del Dio infinitamente buono che, per problemi di immagine si direbbe oggi, si sente costretto a dimostrare la sua infinita bontà perdonando platealmente persino gente che fa proprio di tutto per misconoscere il Signore del cielo e della terra, della vita e della morte, e che trascorre la propria esistenza parlando di Dio solo fino a quando Dio non si presenta e non ne mette in radicale discussione il modo di vivere e di credere. Quei soldati stanno sbagliando gravemente ma Gesù chiede al Padre di perdonarli perché effettivamente essi non sanno, contrariamente a quelli che hanno decretato e chiesto a gran voce la sua morte, quello che stanno realmente combinando: in fin dei conti sono semplici esecutori di ordini. Nulla vieta di pensare che Gesù abbia potuto perdonare i suoi veri carnefici ove questi si siano successivamente pentiti della loro terribile colpa. Gesù, certo, è morto per tutta l’umanità, ma non è da quelle sue specifiche parole che ciò si può o si deve evincere, bensí dai suoi insegnamenti, dalle sue opere e da tutta la sua vita.     

Il perdono di Dio è e resta certamente infinito. Solo che infinito non significa indiscriminato, altrimenti non sarebbe perdono ma qualcosa che è ancora peggio della dabbenaggine. Da Gesù apprendiamo che il perdono sarà concesso solo a tutti coloro che saranno stati capaci di apprezzare il significato e il valore salvifici del perdono divino comportandosi coerentemente e quindi pentendosi, ravvedendosi, convertendosi vita natural durante nel modo più sincero possibile. Da lui apprendiamo anche che il nostro sforzo di perdonare deve essere illimitato, ma questo ovviamente non significa che possa essere sollecitato da ipocrisia, da debolezza, da paura, da convenienza o da altro che rechi inconfondibili segni di falsità e ambiguità, perché chi perdona in Cristo riesce a perdonare solo perché realmente, ogni volta che si trova nella condizione di dover perdonare, si sente forte in Cristo e sente agire la forza di Cristo in se stesso.

Chi perdona secondo l’insegnamento di Gesù deve saper perdonare generosamente e anche gratuitamente ma da posizioni, per cosí dire, di forza spirituale e non di debolezza psicologica e morale; deve saper perdonare sempre e comunque, invocando l’aiuto di Dio e dimenticando o cercando di dimenticare ciò che gli ha prodotto una ferita nel corpo o nel cuore non prima di perdonare ma dopo aver deciso di perdonare. Ma colui o colei che perdona secondo Gesù deve anche assumersi la responsabilità di rimproverare chi lo ha offeso o di fargli capire il suo errore: «Se un tuo fratello ti fa del male, va’ da lui e mostragli il suo errore, ma senza farlo sentire ad altri» (Mt 18, 15) e se «poi si pente di quel che ha fatto, tu perdonalo. E se anche ti fa del male sette volte al giorno e sette volte al giorno torna da te a chiederti scusa, tu perdonalo» (Lc 17, 4). Bisogna, in altri termini, che chi ci ha gravemente offeso solleciti in noi in qualche modo la forza o la capacità del perdono: «“Servo crudele! Io ti ho perdonato quel debito enorme», si legge nella famosa parabola, «perché tu mi hai supplicato. Dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, cosí come io ho avuto pietà di te”» (Mt 18, 32-33 testo TILC).

 Qui il Signore ci dice di fare come lui: a chi supplica bisogna concedere il perdono. Ma, siccome la differenza tra noi e il Signore è che lui non ha mai niente di che farsi perdonare mentre noi abbiamo nel migliore dei casi sempre qualcosa di cui farci perdonare, supplichiamolo di concederci una santa forza di perdonare anche quando qualcuno, che oggettivamente dovrebbe chiedere il nostro perdono, in realtà si mostri completamente indifferente alle nostre aspettative. Infatti sta anche scritto: «E quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate: perché anche Dio vostro Padre che è in cielo perdoni a voi i vostri peccati» (Mc 11, 25-26). Tuttavia, non ci si può dimenticare del fatto che agli occhi di Dio il perdono non può andare disgiunto dalla giustizia ma deve potersi coniugare con essa. Non si può perdonare un mafioso se sino all’ultimo giorno della sua vita la sua principale attività è stata quella di minacciare e di uccidere, perché questo significherebbe legittimare il crimine; non si può perdonare un giudice disonesto perché anche in questo caso il nostro atto di perdono sarebbe non solo controproducente ma manifestamente ingiusto; non si può perdonare chiunque celebri o esibisca se stesso nell’ambito delle sue occupazioni giornaliere perché anche in questo caso il perdono finirebbe per avallare atteggiamenti irresponsabili e superficiali, né per lo stesso motivo possono essere perdonati gli sfruttatori o chi ha deciso di contrarre nozze con attività particolarmente efferate o turpi e più in generale tutti quei tiepidi che lasciano che le cose della propria vita spirituale incancreniscano in modo irreversibile.

 In altri termini, in tutti quei casi di colpevolezza in cui l’impenitenza, la negligenza reiterata, l’indolenza o l’insolenza ostentata, appaiono come elementi comportamentali non rimossi ma assolutamente persistenti, la priorità da offrire cristianamente non è tanto il perdono quanto il fermo fraterno invito ai soggetti interessati a cambiare atteggiamento con connessa ed accorata preghiera al Signore affinché pensi lui ad ottenere ciò che noi non riusciamo ad ottenere. D’altra parte, a Pietro non è stato detto che ci sono cose che possono essere sciolte e quindi consentite o perdonate e cose che devono rimanere legate in terra e in cielo e quindi proibite o non perdonate? Naturalmente, sebbene in linea generale sia sempre opportuno contrastare approcci troppo leggeri o viceversa piuttosto parossistici ed esasperati a questo tema del perdono evangelico, in quanto nell’uno e nell’altro caso si corre sempre il rischio dell’insorgenza di forme malate o difettose di spiritualità, non ci si può non augurare che il Signore ci perdoni dei nostri limiti personali oltre ogni limite, anche di quelli di cui non siamo consapevoli, perché egli, trovandoci stracolmi di riconoscenza per lui, possa disporre della nostra vita e della nostra capacità di perdono a suo piacimento.