La fede e la ricchezza

Scritto da Carlo Bianconi on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Il comunismo è sempre stato un nemico mortale della Chiesa, soprattutto a causa del suo ateismo e della sua distruttiva irreligiosità pratica. Crollato il muro di Berlino nell’89, molti cattolici esultarono ma la Chiesa capí subito che sarebbe stato del tutto illusorio far coincidere quell’evento con l’inizio di un processo storico più favorevole ai bisogni individuali e collettivi di libertà e giustizia. Lo capí Giovanni Paolo II,  lo capí un suo fedele collaboratore, don Giampaolo Crepaldi, incaricato dal papa di promuovere la giustizia e la pace in tutto il mondo. Per caso ho trovato un’intervista di quest’ultimo del 2 gennaio 1998 su “Chiesa e capitalismo”, rilasciata alla Rai. Si tratta di un documento non solo interessante ma prezioso perché testimonia come la Chiesa cattolica, che naturalmente deve ospitare ed educare molteplici realtà di pensiero e sensibilità umane, sia particolarmente attenta alle implicazioni etico-sociali della fede soprattutto in epoca postcomunista, sebbene oggi il paese più sviluppato del mondo sia ancora, ironia della storia, un paese comunista.

Che il capitalismo possa regnare incontrastato nel mondo è un assunto, diceva allora don Giampaolo, inaccettabile. La fine del comunismo non era stata auspicata perché vincesse il capitalismo ma perché la croce di Cristo ritrovasse il suo giusto posto nella difficile e dolorosa storia degli uomini. Non che la Chiesa si sia sempre puntualmente opposta a fenomeni storici negativi: è indubbio, per esempio, che essa non abbia distinto per tempo tra evangelizzazione e colonizzazione, e anche di ciò il pontefice ha chiesto perdono. Però bisogna capire che la realtà della Chiesa è piuttosto complessa e che in essa spesso la verità si fa strada anche in mezzo a molti errori. Anche nella Chiesa ci sono evidentemente uomini saggi e uomini stolti o incapaci: Bartolomeo de Las Casas, per esempio, espresse con pochi altri nel suo tempo la coscienza critica della Chiesa, separando nettamente l’evangelizzazione dalla colonizzazione.

Anche oggi, dinanzi al trionfo del capitalismo (ehe però comincia a conoscere fallimenti sempre più clamorosi), ci sono forse cattolici sostanzialmente soddisfatti ma la posizione della chiesa non può essere di questo tipo. Naturalmente bisogna precisare che la Chiesa non critica il capitalismo in sé ma «alcuni eccessi del capitalismo e dell’economia di mercato» e che, in questo senso, essa non è affatto sola ma in compagnia di tante altre voci, istituzioni internazionali, movimenti religiosi e organizzazioni non governative che esprimono critiche pertinenti e necessarie alle disfunzioni e alle patologie del sistema capitalistico. 

Al capitalismo, diceva il sacerdote citato, la Chiesa cerca di opporsi soprattutto con il culto della centralità della persona umana e poi testimoniando concretamente in tante parti del mondo il proprio spirito di giustizia e di solidarietà. Ma perché la Chiesa che, secondo l’insegnamento di Gesù, dovrebbe condannare il profitto fine a se stesso (e solo i ciechi possono dubitare che questa sia la principale peculiarità del sistema capitalistico), non alza mai abbastanza i toni sino a renderli genuinamente evangelici su quei criteri di ricchezza indefinita e di opulenza indiscriminata che non possono che generare e riprodurre all’infinito forme vistose e indecorose di ingiustizia umana e sociale? Se Gesù ha gridato una volta “guai ai ricchi”, per quale motivo la Chiesa ritiene di non dover levare alto e imperioso nei secoli il suo stesso grido di giustizia e di liberazione? Francamente, nel documento non c’è traccia di una qualche risposta a siffatti interrogativi.

D’altra parte, Benedetto XVI, nella sua enciclica “Deus caritas est” del 25 dicembre 2005, dopo aver precisato ovviamente che la comunione (koinonia) della Chiesa delle origini «consiste appunto nel fatto che i credenti hanno tutto in comune e che, in mezzo a loro, la differenza tra ricchi e poveri non sussiste più (cfr anche At 4, 32-37)», scrive che «con il crescere della Chiesa, questa forma radicale di comunione materiale non ha potuto, per la verità, essere mantenuta. Il nucleo essenziale è però rimasto: all'interno della comunità dei credenti non deve esservi una forma di povertà tale che a qualcuno siano negati i beni necessari per una vita dignitosa» (seconda parte, par. 20). Ritengo sia lecito domandare a papa Benedetto per quali ragioni esattamente, con il crescere della Chiesa, quella «forma radicale di comunione materiale» non abbia potuto «essere mantenuta», visto che la Chiesa, nel corso del suo sviluppo storico, ha proprio il compito di mantenersi quanto più possibile fedele ai suoi princípi fondativi o, eventualmente, di riavvicinarsi il più possibile ad essi (ove siano stati compiuti errori o indebite deviazioni) e non certo di perdere il contatto con ciò che l’ha originata. Ma, in attesa di una risposta chiara ed esauriente, resta incontestabile il concetto per cui, da un punto di vista evangelico, l’unico uso legittimo della ricchezza è che essa sia messa direttamente o indirettamente al servizio della comunità e più esattamente di quei suoi componenti che, non per ragioni ascrivibili a loro responsabilità personali (perché i dissipatori, naturalmente, non hanno alcun diritto di essere assistiti), non hanno di che vivere. L’uso della ricchezza, evangelicamente parlando, si giustifica solo in quanto essa serva ad impedire che, nella propria famiglia come nella propria comunità, restino insoddisfatti i primari bisogni materiali e spirituali di vita di qualcuno. La ricchezza, quindi, è destinata da nostro Signore alla fraterna condivisione comunitaria: sia che abbiamo poco, sia che abbiamo molto, dobbiamo farci carico sapientemente e generosamente delle necessità altrui proprio come se fossero nostre necessità o necessità dei nostri cari e dei nostri figli. Dinanzi a situazioni oggettive di povertà, il cristiano non può aver dubbi sul da farsi: deve offrire del proprio, nei limiti delle sue effettive possibilità, per lenire le sofferenze altrui, e, se il caso lo richieda, deve agire senza aspettare che altri prendano la medesima iniziativa.

Piaccia o non piaccia, nell’insegnamento di Gesù la pronta attitudine a mettere in comune i beni materiali e spirituali, a metterli a disposizione di reali necessità comunitarie e di altrettanto reali necessità individuali, attraverso la saggia e ispirata mediazione dei pastori (sacerdoti) e di collaboratori seri e fidati, è elemento centrale e caratteristico di ogni attività apostolica e missionaria che venga intrapresa in suo nome. Il fatto che, nell’espletamento del servizio caritatevole e comunitario, siano sempre in agguato modi ambigui di intenderlo e di eseguirlo, forme piuttosto equivoche di praticarlo o persino distorsioni evidenti delle sue vere finalità, non può certo consentire alla Chiesa di astenersi dal perseguire, oggi come ieri, un ideale non già pauperistico ma amorevolmente egualitario di vita comunitaria e dal consigliare costantemente ai ricchi (ma anche a chi ha la mentalità avida e meschina dei ricchi) di alleggerirsi delle proprie sostanze per il regno dei cieli.

Questo è un punto essenziale e qualificante della missione della Chiesa nel mondo: non è un caso che, negli Atti degli apostoli, un certo Anania venga punito insieme alla moglie da san Pietro addirittura con la morte per aver conservato per sé e la propria compagna una somma di denaro destinata alla comunità (5, 1-11).  Ed è vero che a Dio nulla è impossibile, per cui anche la salvezza di un ricco può ottenerla facilmente, ma è altrettanto vero che, come tutti sanno, è molto difficile che un ricco entri nel regno dei cieli. Forse la Chiesa indugia troppo a volte su questo passaggio centrale della buona novella, nel senso che cerca di precisare quel che è già assolutamente chiaro nella Parola di Dio e di Cristo, preoccupandosi inutilmente di rassicurare chi ha molte ricchezze e di non perdere contatto con forze economiche e sociali che pure contano molto nelle cose del mondo e di questo mondo. La Chiesa non ha il compito di rassicurare, la Chiesa ha il compito di annunciare che Dio è e sarà sempre con coloro che sapranno fare un uso buono e generoso del loro denaro, delle loro ricchezze o delle loro proprietà; la Chiesa ha il compito di testimoniare che Dio è il Dio con noi, se noi facciamo di tutto per essere poveri e siamo concretamente e coerentemente con i suoi poveri (poveri in tutti i sensi), se noi amiamo realmente i più deboli e i più oppressi e non ci facciamo problema di manifestare la nostra disapprovazione ai grandi o piccoli potenti di tutte le latitudini della terra e di tutti gli ambiti mondani di vita, ivi incluso quello della nostra personale quotidianità. La Chiesa deve annunciare anche che, in caso contrario, questo stesso Dio che tutti generalmente dicono di amare non concederà nulla alla retorica della misericordia divina e sarà alla fine quello che ab aeterno è giusto e inevitabile che sia: un Dio giudice del bene e del male che ognuno di noi avrà compiuto.