Quale fede, quale Dio?

Scritto da Paolo Bendicente on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Se siamo o non siamo cristiani in questo nostro Occidente è difficile da dire. Solo Dio lo sa. Certo, non mancano persone che confidano sinceramente in Gesù Salvatore e si sforzano di seguire i suoi insegnamenti, ma questo naturalmente, come anche le cerimonie, le pratiche e i proclami religiosi cui si dà continuamente luogo, non sono sufficienti a consentire di qualificare come cristiana la nostra società. La nostra fede, infatti, generalmente sembra nutrirsi di significati ufficiali più che reali, di valori formali più che vissuti e praticati. La stessa Chiesa non è più in molti casi il luogo dell’annuncio ma piuttosto il luogo di una cultura dell’annuncio con la sua mentalità accademica, le sue molteplici istituzioni formative, le sue riviste specialistiche, le sue strutture massmediatiche, i suoi comportamenti individuali sempre più accentuatamente formali e distaccati, la sua orgogliosa tendenza a parlare più che a vivere di vangelo in funzione di non dichiarati interessi ideologici o di tiepide aspettative escatologiche.

Purtroppo, è molto dubbio che questo continuo parlare di Cristo e del suo vangelo favorisca realmente un parlare consapevole ed intimo dei fedeli a Cristo, anche perché troppo spesso la comunità ecclesiale nel suo insieme,  pur parlando di Cristo, non lo propone in alternativa alle logiche largamente condivise di questo mondo ma come semplice supporto spirituale ai valori della postmodernità quali il mercato, l’efficienza, la forza, la produttività, il consumismo. Per cui è come se si dicesse: siate pure efficienti e produttivi, consumate pure i prodotti che il mercato vi offre, perseguite con abilità e prudenza i vostri interessi materiali, ma ricordatevi che il bene più importante è pur sempre Cristo e che la nostra salvezza solo in lui possiamo alla fine trovarla.

Ma cosí incoraggiati a sentirci integrati nel sistema di libero mercato, in cui ogni desiderio possa essere legittimamente esaudito purché in armonia con la nostra fede in Cristo, non sarà obiettivamente difficile tenersi a distanza da una dipendenza idolatrica di fatto da bisogni e aspettative psicologiche decisamente prive di ogni consistenza spirituale? Se ci convinciamo di essere sotto l’ineliminabile dominio delle “eterne leggi del mercato”, e di dover vivere per forza in un determinato modo, siamo sicuri di poter ancora sperare di poter cominciare a costruire anche quaggiù il regno di Dio che è un regno di libertà e non di necessità, di amore e non di costrizione e di convenienza, di poter continuare ad amare il prossimo per quello che è e non per quello che ha e che consuma?  

 Merita qui di essere citato il pensiero del gesuita Felice Scalia: «La globalizzazione», egli scrive, «pone al suo vertice l’accumulo di Denaro, una sorta di “dio tra gli dei”. La sua presenza o assenza crea valore o disvalore in tutto ciò che costituisce la vita dell’uomo. L’uomo è se ha. L’uomo è niente se non ha niente. Il mercato e le sue leggi sono le uniche realtà che assicurano Denaro. Cioè denaro pregiato, “valore”: dollaro, euro, yen. Questi “valori” non conoscono il bene e il male, l’ingiusto ed il giusto. Solo la “quantità”, ed essa sola “giustifica”, rende “giusti” cioè veri uomini. Tale preminenza assoluta, cosa è se non esistenziale idolatria? Siamo in realtà di fronte ad una idolatria che prevede con lucido cinismo anche “sacrifici umani”, quasi di rito. La globalizzazione ha la sua “etica”,  stabilita oltre due secoli fa da Adam Smith: ogni individuo sia implacabile nel suo egoismo - non badi al suo prossimo - la “mano invisibile” del mercato porterà prosperità a tutti.  Ha una sua “metafisica”: tutto è merce. (...). Ha una sua ideologia: il neoliberismo del mercato globalizzato come sistema a cui tutti siamo soggetti ed a cui è impossibile sottrarci. Ha le sue vittime designate: al benessere della borsa si sacrificano milioni di persone, si gettano nella disperazione intere generazioni, si rende invivibile il pianeta, si distruggono specie animali e vegetali, interi popoli.  La globalizzazione ha perfino i suoi teologi. (...) In questo contesto le grandi parole come onestà, libertà, pace, morale, gratuità, democrazia, diritto alla vita, sono sempre “cose che bisogna dire” in Tv e nei discorsi ufficiali. Parole che servono per mascherare la vera realtà. Parole a cui nessuna persona moderna e sensata deve credere» ( “Guardatevi dagli idoli”. Lettura teologica del nostro tempo, in “Adista”, 13 giugno 2009, n. 65).

Se le cose stanno veramente cosí o non sono molto lontane dal corrispondere a questo quadro, saremo veramente cattolici nel difendere la vita a tutti i costi (del nascituro come del morente terminale) proprio nel momento in cui non saremo capaci di mostrare uguale passione in relazione al fatto che ci sono moltissimi esseri umani cui viene ancora negato il diritto di mangiare e di bere acqua potabile, di «curarsi, istruirsi, vivere in libertà e dignità» (Ivi)? D’altra parte, ci si deve pur chiedere se in questa assolutizzazione del mercato, e quindi nell’affermarsi della centralità del denaro e della dominante logica utilitaristica, il cristianesimo abbia svolto una qualche funzione di contrasto o di supporto.   

Ha fatto abbastanza il cristianesimo per evangelizzare e rendere quindi più umana la cultura, il modo di pensare e di essere dell’uomo contemporaneo? Ha fatto abbastanza per «far sentire la voce dei poveri, delle “forze lavoro” sfruttate in fabbrica e lasciate marcire ai bordi della strada quando non erano più in grado di arare un campo o di stare alla catena di montaggio»? Per dare consistenza ad «una giustizia che è oltre la legalità stabilita dai potenti» ed un appoggio adeguato a «chi lotta per la propria liberazione»? Di luce da emanare sul mondo il cristianesimo ne ha sempre avuta in abbondanza, ma probabilmente esso, nella sua veste storico-istituzionale e storico-ecclesiale, non ha saputo o voluto illuminare il mondo come poteva e doveva, ostacolando peraltro non di rado «quanti per stare col vangelo si distanziavano dai potentati del tempo», chiudendo la bocca «di quanti parlavano in nome dei poveri e di Dio». Cosí, «il cristianesimo si è lasciato mondanizzare dalla cultura corrente invece che evangelizzarla. Si è assimilato al “mondo” (nel senso giovanneo), all’Impero, al “sistema”, finendo per trasformare il Dio della vita in un idolo, o, comunque, elevando - senza accorgersene - a dio supremo il denaro ed il potere, al cui servizio doveva porsi anche il Dio del Signore Nostro Gesù. (...) A questo punto non è una domanda retorica chiedersi di che Dio stiamo parlando nelle nostre assemblee liturgiche, così perfette, così spettacolari, ma anche così spesso prive di carica di vita nuova nello Spirito. E non è neppure retorico chiederci perfino se è vero che esistono oggi atei e credenti».

Il problema è dunque quello della “purezza” della fede o del ritorno alla purezza della fede in Cristo, perché è perfettamente inutile che all’ordine del giorno della Chiesa ci siano tante cose urgenti ed interessanti se poi, di fatto, tra esse non figura «la questione delle questioni», ovvero «quale Dio», quale Dio è realmente il nostro Dio. Sí, perché Gesù è stato non solo chiaro ma categorico: chi sta col denaro, con la ricchezza, con il desiderio della ricchezza, non può stare con Dio, perché Dio unisce mentre la ricchezza divide. “Mammona”, nella sua radice ebraica, in senso rigorosamente etimologico, significa “sicurezza”.

Il commento è illuminante e prezioso: «Mammona dunque è il dio della certezze, delle sicurezze; il dio che fonda e dona, o presiede alla distribuzione di ciò su cui si può contare. Ora nel mondo la cosa su cui si può contare, ciò che dà sicurezza e infonde fiducia, ciò che dà splendore di potere, e dunque, ancora una volta, sicurezza, è fondamentalmente l’accumulo dei beni. Così il termine “Mammona”, significa ricchezza, accumulo dei beni, ostentazione di forza e di potere. All'epoca di Gesù i rabbini distinguevano tra “Mammona di giustizia” e “Mammona di iniquità”. Noi oggi diremmo tra “ricchezza” onesta e ricchezza disonesta. Gesù dirà che Mammona è sempre di “iniquità”, sempre - alla lettera - “ingiusto”. (...) La volontà di Dio è che l'uomo stia bene. Ma se questa è la volontà di Dio per l’uomo, se il benessere è positivo, lo deve essere per tutti. Il benessere diventa negativo quando appartiene soltanto ad una piccola parte della popolazione, mentre la stragrande maggioranza ne è priva. Comprendiamo ora perché la “ricchezza è ingiusta”, perché, in qualche maniera, chi accumula, immancabilmente sottrae agli altri. E chi è ricco, che deve farne della ricchezza? Gesù - al termine della parabola sull’amministratore infedele, Lc 16,1ss - propone di usare i beni che si possiedono per farsi degli “amici”. Quindi il denaro, la ricchezza, il benessere vanno usati per farsi degli amici, per creare rapporti d’amore, relazioni, legami di fraternità perché la vita superi ogni morte. Chi sono questi “amici”, è facile dirlo. Tutti coloro che non sono nel benessere, e dunque che si trovano in stato di bisogno. “Procuratevi amici con i beni che avete”, significa: i capitali che avete, le somme che avete, non tratteneteli per voi, ma fateli circolare, fate in modo che il denaro porti vita, lavoro, speranza. Solo così vi farete degli amici, “Perché quand'essa (la ricchezza) verrà a mancare vi accolgano nelle dimore eterne”».

Ma i cristiani si sono storicamente sottratti al fascino di Mammona? Oppure, senza avvedersene, hanno finito per invocare il Padre celeste «nelle preghiere ufficiali dentro gli edifici sacri» e, rendendo «muto e sterile lo stesso Vangelo…, per adorare Mammona nella vita di ogni giorno»? Dal momento stesso in cui il cristianesimo diventa religione di stato, non è vero che esso comincia a fungere essenzialmente da elemento di coesione sociale e che il vangelo «si trasforma in “religione civile” carica di onori, basiliche sontuose, possedimenti, forza»? Non è anche per questo che, se il vangelo nel corso dei secoli è rimasto «una fonte di valori ufficiali, i valori reali nella comune mentalità dei cristiani» sono diventati e «sono ben altri, sono smaccatamente pagani»? E che il regno di Dio, sempre meno prioritario nell’agenda esistenziale di tanti fedeli,  stenta sempre più ad essere vissuto e ad essere incarnato nella quotidianità esistenziale e storica?

A questo punto la lezione, interessante e coinvolgente, del gesuita tende a sua volta a ideologizzarsi e a politicizzarsi e ad assumere toni polemici forse troppo aspri e inopportuni, per cui è preferibile non raccontare come prosegue e come si conclude: era però utile ascoltarne una parte essenziale e provocatoria per riflettere ancora una volta sul vero senso della nostra fede e sul valore reale della nostra speranza in quel regno che non è di questo mondo.