Idee per un'economia cristiana

Scritto da Louis Rubillo on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

L’economista coreano Thomas Hong-Soon Han, al servizio della Santa Sede per quanto riguarda gli affari economici e amministrativi, ha detto papale papale, è proprio il caso di dire, che i cristiani non possono perseguire semplicemente “la logica del profitto più alto al più basso costo possibile”, una logica quindi che ad esigenze di giustizia e carità anteponga la convenienza economica (Dalla Chiesa nessun appoggio a logiche economiche ingiuste, in L’Osservatore Romano, 22 agosto 2009). Esempio: «poniamo il caso che un ente ecclesiastico indica un appalto per costruire un edificio. Io dico che le offerte non devono essere valutate soltanto in base alla convenienza economica. Bisogna vedere che cosa c'è dietro i costi di realizzazione proposti da una determinata ditta:  quali sono le condizioni di lavoro, qual è il livello dei salari, insomma come viene realizzata concretamente la giustizia nell'organizzazione dell'attività produttiva. Se per esempio si verificano situazioni di sfruttamento dei lavoratori, è evidente che accettare l'offerta vorrebbe dire per la Chiesa rendersi corresponsabile - sia pure solo indirettamente - di quella logica ingiusta.

Perciò un'offerta del genere va bocciata. Del resto, questo è l'unico mezzo di pressione che abbiamo per convincere i responsabili di un'impresa a rispettare le condizioni della giustizia e della carità». A volte i cristiani ragionano in modo capzioso: se risparmiamo in un settore possiamo investire di più nelle attività sociali e umanitarie. Essi cioè tendono a dimenticare che la carità non può nascere da comportamente illeciti e da una violazione della giustizia e della stessa verità perché è la verità che impone di agire sempre e soltanto nel rispetto della dignità umana (caritas in veritate).

Non è che i cristiani, la Chiesa stessa, debbano aver paura di maneggiare denaro, di investirlo e farlo fruttare. Il problema che essi devono porsi è invece come e perché, come e perché stiamo usando questo denaro. Se guadagno e accumulo del denaro senza frodare ed imbrogliare nessuno, né singoli né enti comunitari e statuali, nel limpido rispetto delle leggi vigenti e delle esigenze etiche derivanti dalla mia fede, e a favore di iniziative che possono concorrere in qualche modo al bene comune, allora la mia attività economica non solo è del tutto lecita e utile ma è anche in tutti i sensi apprezzabile. Bisogna in altri termini «rimanere fedeli all'insegnamento evangelico senza lasciarsi irretire dalla logica del mondo. Penso che sia molto eloquente in proposito l'ammonimento di Gesù: "Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe"» (Ivi). Naturalmente, il compito non è facile, perché nella Chiesa c’è sempre qualcosa che va migliorato o fatto meglio (Ecclesia semper reformanda), ma è doveroso e anche necessario se si desidera davvero lavorare ad un’economia efficiente innanzitutto perché giusta e volta da una parte a mettere nella condizione di produrre chi ancora non produce non perché incapace ma perché impossibilitato da politiche sociali e governative inique, e dall’altra ad assistere adeguatamente tutti coloro che incolpevolmente, per i motivi più diversi, non sono o non sono più nella condizione di contribuire al bene pubblico.

Ma questo non significa puntare ad un superamento del sistema capitalistico? Se il modello americano di produzione e di sviluppo rischia di implodere in modo clamoroso, vuol dire che il capitalismo di nostra conoscenza è fallito o almeno fallimentare. Chi dice che bisogna introdurre nel mondo economico e finanziario nuove regole e più severi controlli, già ammette implicitamente che «non si può più parlare di capitalismo allo stato puro o di libero mercato in senso stretto» (Ivi). D’altra parte, pur volendo ipotizzare un radicale cambiamento di sistema, è difficile dire in concreto quale potrebbe essere l’alternativa a questo sistema. Tuttavia, per le indicazioni precedentemente date, si può convenire con l’intellettuale cattolico Ernst-Wolfgang Böckenförde (L’uomo funzionale. Capitalismo, proprietà,ruolo degli stati, in “Il Regno”, 2009, n. 10) che il capitalismo ha un “carattere disumano” ineliminabile e che spetta proprio alla Chiesa ormai elaborare una “radicale contestazione” di questo sistema nel nome della sua stessa fede: «cominciamo col riconoscere onestamente che lo spirito del capitalismo non va d’accordo con quello del Vangelo. Il cuore del cristianesimo è l’amore per gli altri. Il nucleo del capitalismo, invece, è la competizione, che è l’antitesi dell’amore» (Ivi). 

 Ciò è vero, anche se la Chiesa sinora, pur usando concetti e toni non sempre identici ma significativamente diversificati, non ha mai condannato in forma esplicita il capitalismo in blocco ma solo su punti o aspetti specifici. Ma allora non si potrebbe riprendere in considerazione un’alternativa di tipo socialista? Qui il nostro bravo e onesto economista esita perché, egli argomenta, i sistemi socialisti sono miseramente falliti e la stessa esperienza di vita comunitaria della Chiesa primitiva, esperienza basata «sulla condivisione dei beni», «non ha avuto seguito» (Ivi), anche se, per dire la verità, bisognerebbe chiedersi sia per quali ragioni hanno fallito quei sistemi socialisti e comunisti, che non erano affatto fondati su criteri di giustizia e di efficienza, sia soprattutto perché la primitiva esperienza cristiana di una vita comunitaria a base egualitaria non abbia avuto più seguito storicamente in seno alla Chiesa stessa: non si potrebbe parlare per caso di un’opportunità di giustizia e di amore evangelici storicamente perduta o smarrita? Non si potrebbe pensare eventualmente di recuperarla nella coscienza cristiana e cattolica contemporanea?

Certo, c’è il peccato, c’è l’egoismo naturale dell’individuo, e bisogna dunque che siano innanzitutto i singoli a convertirsi al bene. D’accordo, ma convertirsi singolarmente e personalmente al bene non deve poi implicare necessariamente il desiderio di donare agli altri, di condividere con gli altri, pregando e operando insieme, ognuno secondo le proprie capacità e i carismi ricevuti da Dio, e promuovendo cosí fattivamente la crescita quantitativa e qualitativa della comunità sociale, il progresso materiale e spirituale di ciascuno e di tutti? Perché c’è ancora tanta resistenza tra i cristiani a comprendere concetti e prospettive cosí semplici e cosí rigorosamente evangelici?

 I cristiani non possono limitarsi a fare appello al buon cuore dell’imprenditore o del datore di lavoro ma devono impegnarsi affinché cambino radicalmente i princípi, le regole, i valori, le norme del mondo del lavoro e della produzione, devono impegnarsi affinché, pur non potendo trasformare l’attuale sistema economico con un colpo di bacchetta magica, in esso dei nuovi modi di pensare e di fare economia, delle nuove forme di produzione, nuove esperienze di lavoro collettivo e una regolamentazione completamente nuova dei rapporti tra imprenditori e lavoratori comincino ad essere sempre più frequenti e ad avere un peso sempre più incisivo e talmente incisivo da portare inevitabilmente ad una legislazione del lavoro più emancipata sotto l’aspetto etico e giuridico e più efficace e proficua anche sotto l’aspetto squisitamente economico e sociale. A tale processo, qualora lo si volesse davvero favorire, si opporrebbero inevitabilmente fortissimi interessi privati e particolarismi di ogni genere, ma ciò non dovrebbe scoraggiare i migliori cristiani che sanno bene come sia difficile nel mondo conquistare beni leciti e soprattutto beni conformi a giustizia.

Si dirà che oggi è difficile che un imprenditore cattolico possa pensare di rischiare in proprio, imboccando una via diversa da quella attuale, perché all’interno del sistema in cui tutto si tiene e di cui egli fa parte la sua decisione di cambiare stile di vita e di reimpostare i suoi affari e i suoi guadagni, secondo una nuova ottica in cui la massimizzazione a qualunque costo del profitto non sia più preponderante rispetto ad altri interessi, molto probabilmente porterebbe al fallimento. Intanto, bisognerebbe vedere se un siffatto imprenditore sia un cattolico “spirituale” o un cattolico “carnale”, secondo la distinzione agostiniana; in secondo luogo questo ipotetico imprenditore non sarebbe lasciato solo nella sua scelta di modificare i modi della sua azione economica in quanto i fratelli di fede, nei diversi ambiti sociali e politici della loro attività, ne dovrebbero sostenere gli sforzi con prese di posizione altrettanto coraggiose e limpidamente finalizzate a diffondere socialmente una concezione del lavoro, del profitto, del bene pubblico e privato profondamente difforme da quella ancora dominante nella società occidentale; in terzo luogo, egli non sarebbe certamente il primo a cominciare perché c’è sempre chi (non solo ipoteticamente ma proprio di fatto) ha cominciato prima di noi, sia pure in misura contenuta, a dare un esempio di concreta e fattiva “responsabilità sociale” e di ammirevole testimonianza cristiana.

 Giustamente il nostro economista osserva che soprattutto i consumatori possono contribuire a rendere più sobria ed essenziale l’economia del mondo, perché le loro scelte in ogni caso non sono neutre ed incidono sempre sulla formazione e sulla distruzione dei modelli di sviluppo: « non vale nulla obiettare:  "Io sono solo uno dei sei miliardi di persone che vivono sulla terra, il mio gesto non conta niente". Sta proprio a noi iniziare per primi, perché ciascuno nel suo piccolo può cambiare il mondo» (Ivi).

Ma sono tutte cose che i cristiani più avveduti e responsabili sanno bene: il problema è solo quello di voler trasformare questa economia in un’economia più umana e più giusta: «chiamiamola come vogliamo:  economia di comunione, per esempio. Alla fine non è questione di etichette ma di fatti. Bisogna agire concretamente, non limitarsi a discussioni teoriche. La Chiesa e i cristiani devono essere i primi a farlo» (Ivi). Ecco: di questo pensiero facciamo un punto fermo