Sulla rivalutazione del Vangelo di Marco

Scritto da Maurizio Alessandro Guerra on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Fino ad alcuni decenni or sono il vangelo di Marco, pur essendo il più antico dei quattro vangeli canonici, è stato considerato come il più rozzo, il più breve, il meno raffinato e il meno “diplomatico” di essi, per cui la Chiesa lo ha sempre tenuto piuttosto ai margini della sua attenzione. Cosí inizia il discorso tenuto ad Assisi da padre Alberto Maggi sull’interessante rivalutazione del vangelo di Marco quale è venuta delineandosi attraverso gli studi più recenti (“Alberi che camminano”. Brani difficili del vangelo di Marco, Assisi 4-6 settembre 2009). Per certi aspetti, quello di Marco è il vangelo più scandaloso, non nel senso che sia di inciampo alla fede ma nel senso che costringe a ripensare la propria fede in Cristo alla luce di un “annuncio” meno convenzionale e più diretto degli altri pur vigorosi e schietti “annunci” evangelici.

Intanto, spiega Maggi, in Marco la parola “legge”, la parola “sacro” non compaiono, e il motivo è che qui si vuole sottolineare come il nocciolo della buona notizia sia costituita non da un amore verso Dio e gli uomini costretto ancora a passare attraverso l’osservanza della Legge e delle leggi ma esclusivamente attraverso opere che comunichino vita: quindi non più un Dio “sacro” e amante del “sacro” ma un Dio-amore vicino e talmente vicino all’uomo da farsi egli stesso uomo nell’uomo Gesù: il Dio-con-noi. Dio-Cristo anzi, nel vangelo di Marco al pari degli altri vangeli, appare come un irriducibile avversario del “sacro” in tutte le sue forme e i rapporti più difficoltosi non li ha con i peccatori in genere ma proprio con i massimi rappresentanti del “sacro” ovvero dell’istituzione religiosa. E Marco, che già al terzo capitolo mostra come le autorità religiose insieme a quelle civili decidano di togliere di mezzo Gesù, ci fa capire subito, come gli altri evangelisti ma più rapidamente e più incisivamente di loro, che «tra Dio e l’istituzione religiosa c’è assoluta incompatibilità». Maggi ritiene anche di affermare che Gesù non sia morto perché questa fosse la volontà di Dio «ma perché questa era la convenienza della casta sacerdotale al potere», dove però è possibile anzi doveroso osservare che “la convenienza della casta sacerdotale” nel far fuori Gesù non è altro dalla volontà di Dio ma è in essa compresa anche se non giustificata.

Questa rottura di Gesù (che aveva osato nientemeno violare il sabato sacro a Dio stesso) con le autorità religiose, che lo definiscono “un bestemmiatore”, induce i suoi stessi familiari a pensare non che egli sia quel che dicono i sommi sacerdoti e gli scribi (in quanto lo conoscono bene) ma che sia uscito di senno e si danno da fare per riportarlo a casa e sottrarlo alla violenza istituzionale e materiale dei suoi persecutori. I familiari e lo stesso popolo non capiscono ancora il senso di quel regno di Dio predicato da Gesù ovvero l’amore universale di Dio, un amore da estendere anche ai pagani e ai nemici. Infatti, quando i familiari vanno per riprenderselo egli è circondato dalla folla, da una folla di persone impure, che non osservano la legge, esattori delle tasse, prostitute, peccatori comuni. La reazione negativa che Gesù ha nei loro confronti significa che essi, ivi compresa la madre, non hanno ancora compreso cos’è venuto a fare nel mondo e più esattamente che egli è venuto a salvare gli uomini peggiori ancor più di quelli migliori. Ecco: questo episodio, precisa il teologo, «nella sua crudezza, è riportato soltanto da Marco». 

Altro episodio alquanto “scomodo”, non riportato dagli altri evangelisti, è quello di cui Marco tratta nel capitolo 7 dove si parla del rapporto tra Gesù e la Sacra Scrittura. A quegli scribi e a quei farisei venuti da Gerusalemme (una vera e propria commissione teologica di alto rango!) per inquisire Gesù, il Signore ad una loro contestazione di tipo rituale (perché i suoi discepoli non si lavassero le mani prima di mangiare) risponde chiamandoli ipocriti, cioè commedianti, teatranti, persone colte che però usano Dio per innalzare e celebrare se stessi, che confondono la Parola e la vera volontà di Dio con le false e gratuite interpretazioni che ne hanno dato i predecessori e che essi continuano ad avallare, e che nel nome di una tradizione fatta essenzialmente di “precetti umani” rendono culto a Dio senza capire che Dio non il culto si aspetta quanto il loro cuore, la loro sincerità, la loro lealtà. Essi si avvicinano a Dio solo per sentirsi più potenti degli altri e costringere gli altri a sottostare ai loro desideri e alle loro aspettative personali ben più che ai veri e non mistificati comandamenti di Dio.

La tradizione che essi invocano quindi non è una tradizione che si richiama fedelmente a Dio ma una tradizione manipolata a fini esclusivamente umani, una tradizione che è semplicemente la loro erronea ed ingannevole tradizione, valida forse in un determinato tempo e per un particolare contesto ma non generalizzabile e non suscettibile di essere estesa anche a tutte le generazioni successive. Questo dice Gesù anche perché nella comunità stessa dei suoi discepoli e nella sua futura Chiesa non si ripetano questi stessi errori e abusi. E, benché quella attuale sia pur sempre la Chiesa di Cristo, dunque una Chiesa che geneticamente e istituzionalmente nasce e vive in opposizione allo spirito di scribi e farisei, è bene non dimenticare questo episodio e queste parole di Gesù e non abdicare al proprio diritto-dovere spirituale (“state attenti a come ascoltate”, dice Gesù a tutti indistintamente) di verificare al meglio delle proprie possibilità e conoscenze che ciò che ci viene trasmesso dai nostri attuali pastori sia effettivamente un fedele riflesso del pensiero e della volontà di Cristo.  

Altro punto originale del Vangelo di Marco è quello che si riferisce alla seconda moltiplicazione dei pani (Mc 8, 1-10), fatta a favore dei pagani, mentre la prima era stata fatta a favore degli ebrei (Mc 6, 31-44). Qui Maggi mette in risalto come in Marco i discepoli, pur cosí vicini a Gesù, in realtà siano molto lontani da lui avendo un’immagine di Messia che non corrisponde a quella impersonata da Gesù. Essi infatti non si accorgono che la folla ha fame e non ha niente da mangiare: solo Gesù se ne accorge e, prima di operare il miracolo, invita i suoi a darsene pensiero e a condividere con essa tutto quel che hanno. Gesù non aspetta che la folla gli chieda di essere sfamata, agisce per primo concedendo ciò di cui essa ha bisogno. Questo, per Maggi, significa che il rapporto tra Dio e gli uomini in Marco è radicalmente cambiato rispetto alla religione ufficiale o tradizionale, in quanto qui l’uomo non deve chiedere niente a Dio, non deve supplicare Dio, ma è Dio che anticipa ogni richiesta. Cambierebbe completamente il senso della preghiera: l’uomo non deve chiedere più niente a Dio, perché lui sa già tutto, e quindi vede e provvede spontaneamente. Anche in questo caso, però, l’interpretazione di Maggi, pur stimolante, risulta piuttosto opinabile, perché è vero che Gesù provvede spontaneamente a soddisfare i bisogni della gente ma è altrettanto vero che quella gente non è lí per caso, ma è lí per lui, per la fiducia che in lui ha riposto di poter ricevere quell’amore e quei benefici che non ha trovato e non trova altrove: quella gente, che “viene da lontano” in senso geografico e spirituale (come recita il vangelo di Marco), va da Gesù perché spera in lui, perché in cuor suo chiede a Gesù di non deludere le sue aspettative e Gesù non le delude ben al di là di quello che essa potesse immaginare.

Ma l’elemento più scandaloso del racconto dovrebbe essere costituito da quella condivisione dei pani con la folla pagana cui sono invitati i discepoli, perché in essa viene anticipata l’eucaristia, la cena eucaristica cui partecipano non persone “pie”, non persone “devote”, non persone “per bene” che si sentono a posto con la coscienza, ma solo pagani e peccatori, in quanto la cena eucaristica è la cena dei peccatori e non dei benpensanti, dei reprobi che hanno bisogno d’amore per riscattarsi spiritualmente e non delle persone “pulite” che identificano la fede con la scrupolosa ritualità religiosa e con una quiete interiore terribilmente simile ad un sostanziale disimpegno spirituale.

E perché poi Gesù ordina a tutte quelle persone, come recita Marco, di sdraiarsi sulla terra per ricevere da mangiare? Perché esse, solitamente costrette a patire e a servire, in quel caso fossero trattate come persone da servire e dunque come persone che riacquistassero la coscienza della propria dignità e della propria libertà. Per cui si capisce anche che i discepoli (oggi vescovi e sacerdoti) non sono i padroni di quel pane di cui è proprietario solo Dio e che va distribuito, ma i servi di quel pane che essi non possono distribuire arbitrariamente o discrezionalmente ma devono distribuire a tutti indistintamente. Gesù insegna ad aver fede non attraverso discorsi teologici ma con gesti semplici e concreti, con opere che comunicano vita.

 Nell’eucaristia, nota Maggi, «si fa l’esperienza di un Dio che comunica vita attraverso gli elementi essenziali delle persone». Tuttavia, è sempre opportuno precisare che questa massa di peccatori che partecipa alla cena beneficiando della infinita compassione del Signore Gesù non è, non può essere una massa di peccatori impenitenti ma una massa di peccatori che si sono recati da Gesù riconoscendo la sua signoria messianica (anche se non è ancora loro ben chiara la natura di questa messianicità), avendo fiducia in lui ed essendo pronta a seguirlo e ad osservarne gli insegnamenti e i comandi, salvo naturalmente possibili ripensamenti successivi. Perciò, sarebbe bene non far passare l’idea che la partecipazione alla cena eucaristica sia presentata in Marco come totalmente priva di condizioni: i pagani, i peccatori, per parteciparvi, devono credere che Gesù è il figlio di Dio, colui che è venuto per soccorrerli anche nei loro bisogni materiali ma  allo scopo di rimettere loro i peccati e di convertirli alle cose del cielo, alla verità e alla carità, e in sostanza alla giustizia di Dio. Da quei peccatori che Gesù accoglie a braccia aperte senza discriminare aprioristicamente nessuno, egli si aspetta pur sempre che, protetti dal suo amore infinito, cambino vita anche se poveri e oppressi, che perseguano il bene pur ricevendo tanto male da altri uomini, allo stesso modo di come si aspetta che i presunti non peccatori, i “buoni”, i “giusti”, i “puri”, lo amino non già con preghiere abitudinarie e pratiche religiose indolori e tranquillizzanti ma con una coraggiosa e non scontata integrità di atti quotidiani, con la fatica appassionata di un impegno spirituale attivo e costoso, con un inesausto desiderio di servire sempre più umilmente e degnamente il Signore.

L’analisi di Maggi naturalmente si estende a diversi altri punti o aspetti del vangelo di Marco ai quali si rinvia. Qui si voleva solo segnalare, esemplificando attraverso la presa in considerazione di qualche spunto esegetico particolarmente interessante e significativo della relazione del teologo marchigiano, che vale la pena di leggere integralmente quanto da lui scritto sulla rivalutazione del vangelo in parola, benché la sua disamina non appaia priva di qualche forzatura e di valutazioni non sempre convincenti.