Diaconia e sacerdozio senza stellette
Qual è la specifica funzione ministeriale del diacono? A questa domanda ha dedicato un’efficace riflessione don Giovanni Giavini della diocesi di Milano. Ci si sente rispondere generalmente che egli è tenuto a servire (questo è infatti il significato della parola diaconia) nella Chiesa e nella società nel nome di Cristo re e servo. Questa risposta però non è per niente soddisfacente se si pensa che ogni cristiano, dal papa al fedele gerarchicamente meno considerato, è tenuto a servire nella comunità ecclesiale come in quella sociale nel nome e per conto di Cristo re e servo. C’è anche chi pensa di fare cosa utile precisando che il diacono è chiamato a servire come “martire” e dev’essere dunque pronto a morire per la sua fede, secondo quanto insegna l’episodio di santo Stefano. Ma, indipendentemente dalla particolare responsabilità che si ricopre nella comunità cristiana e cattolica, questa disponibilità ad offrirsi in sacrificio per amore verso Dio e verso gli uomini non dovrebbe essere di tutti i battezzati e i credenti in Cristo? Qualcuno poi ritiene di trovare lo specifico del servizio diaconale in qualche particolare servizio ecclesiale: «la Caritas, la cultura, l’apostolato della famiglia, impegno nel sociale o nel politico, dedizione alla sanità, uffici amministrativi, ecc.». Ma «quanti cristiani non lo fanno già senza essere ufficialmente diaconi? Quante donne, tra l'altro? Non parliamo poi di chi, in teoria o nella prassi, colloca lo specifico dei diaconi nei servizi liturgici e te li mostra rivestiti di paramenti solenni e a portare candelieri, croci e libri sacri: tutte cose che anche noi preti compiamo, anzi, per alcune di quelle attività, possono bastare anche chierichetti e chierichette. Tutto ciò non è uno svilire la figura tanto (retoricamente) declamata del diacono permanente?».
In realtà, stando ai testi del nuovo testamento, dice don Giavini, lo specifico del diaconato dev’essere individuato «nel servizio alla responsabilità pastorale, nella collaborazione ufficiale al ministero della guida pastorale delle comunità, al ministero della "presidenza" (tipico di noi presbiteri, dei vescovi, del papa). Ossia: anche il diacono dovrebbe essere investito -in modo ufficiale e per sé stabilmente- di una responsabilità nella guida di una chiesa, di una diocesi, di una parrocchia o di un quartiere o di un settore della vita ecclesiale da individuare a secondo delle situazioni, con libertà e senso della realtà. Senza qualche "responsabilità" pastorale di tale tipo, pur subordinata a quella dei "pastori", non vedo via d'uscita alla ricerca di un suo specifico. Anzi vedo il rischio di nullificare quel ministero. Investito invece di una qualche responsabilità -come, del resto, già avviene qua e là- allora avrà senso anche il suo apparire nelle liturgie (senza però sostituire inutilmente chierichetti e chierichette)».
Fin qui il bravo presbitero di Milano. Tuttavia, non si può non notare che i testi neotestamentari cui egli stesso fa riferimento per giustificare il suo pensiero sembrerebbero suggerire soluzioni diverse da quella da lui proposta. Infatti, in Atti 6 si legge che i diaconi erano persone innanzitutto colte e preparate spiritualmente diremmo oggi (“uomini di buona reputazione”, ma la buona reputazione in questo caso non ha nulla a che fare con quella “rispettabilità sociale” generalmente ipocrita o con certe forme non sempre lecite di semplice simpatia umana che vanno molto di moda nelle nostre parrocchie, e “pieni di Spirito e di sapienza”), e tenuti a svolgere incarichi di carattere pratico, assistenziale o amministrativo, come quello di amministrare i beni della comunità e distribuire pane e viveri alle mense. I diaconi, dunque, pur investiti dalla grazia divina, erano coloro che, sentendosi carismaticamente predisposti ad incarichi per cosí dire operativi, collaboravano all’organizzazione e alla gestione della Chiesa per renderla quanto più possibile efficiente e consentendo agli apostoli di Gesù di dedicarsi esclusivamente “alla preghiera e al servizio della Parola”, ivi compresa ogni attività di insegnamento o catechetica.
Ciò non toglie, naturalmente, che i diaconi, al pari dei presbiteri e dei vescovi, come raccomanda san Paolo, non debbano essere «persone degne e sincere nel parlare, moderati nell’uso del vino e non avidi di guadagni disonesti» (1 Tm, 3, 8) e non possano collaborare a servir messa e ad amministrare alcuni sacramenti o ancora non possano assistere gli ammalati e i carcerati, portare conforto ai sofferenti e speranza agli emarginati e ai disperati, o infine diffondere la parola evangelica, che sono tuttavia tutte cose che anche un semplice laico può compiere. Ma il punto è che la specificità storica originaria del loro ministero non riguarda in misura preponderante la prassi liturgica della Chiesa di cui, per disposizione degli apostoli di Gesù, dovevano farsi carico solo quest’ultimi e tutti coloro che, nel rispetto dei carismi e delle vocazioni missionarie di ciascuno, fossero stati preposti in special modo alla preghiera, all’annuncio della Parola, alla conversione delle anime e alla celebrazione eucaristica. E, in effetti, non è per puro caso che il diaconato, per usare le parole del testo della Commissione teologica internazionale sul diaconato del 30 settembre 2002 (autorizzato dall’allora cardinale Joseph Ratzinger), «entrato in declino nel Medioevo,…è scomparso come ministero permanente, sussistendo solamente come transizione verso il presbiterato e l'episcopato».
Mantenerlo come ministero permanente avrebbe potuto comportare il rischio di fare concorrenza al ministero presbiterale, che invece si riteneva fosse nato come ministero più consono alla sequela di Cristo e dovesse rimanere ai vertici della pur poliedrica missionarietà della Chiesa, oppure avrebbe potuto ingenerare il sospetto di poter essere equiparato sostanzialmente al sacerdozio vero e proprio: meglio declassarlo in modo deciso togliendogli l’autonomia istituzionale ad esso conferito dalla Chiesa delle origini e lasciarlo come semplice ministero transitorio ovvero come momento preparatorio al presbiterato vero e proprio. E’ avvenuto cosí che quel diaconato, che all’inizio della storia cristiana era stato concepito non come un grado di servizio subordinato ad un più alto grado di servizio ecclesiale, finisse dopo circa due millenni, col Concilio Vaticano II, per essere ripescato, un po’ per rimediare al fatto poco comprensibile e giustificabile che fosse stato abbandonato dalla Chiesa stessa quel ministero che era stato istituito dal primo collegio apostolico della Chiesa cristiana e cattolica, un po’ e forse soprattutto per rimarcare una presunta differenza “ontologica” e una reale differenza di potere gerarchico tra il diacono e il prete. D’altra parte, bisogna osservare che la decisione conciliare di ripristinare l’antico ministero, pur trasformato e depotenziato rispetto alle sue funzioni originarie, non fu probabilmente estranea alla forte pressione che già nel corso degli anni sessanta veniva esercitata nella Chiesa e sulla Chiesa circa la richiesta e la possibilità di concedere ad uomini anziani e sposati con figli il ministero presbiterale, che era stata anch’essa una prassi del tutto normale nella Chiesa delle origini. Quella decisione avrebbe potuto mitigare o ridurre la veemenza con cui si voleva introdurre da parte di settori minoritari ma non ininfluenti della Chiesa il sacerdozio uxorato, ma in effetti le cose sarebbero andate diversamente, tanto che papa Benedetto oggi ha ritenuto di dover rimarcare, con un vigore e un tono forse irrituali ma comunque significativi, il concetto per cui il diacono postconciliare non potrà mai esercitare le stesse funzioni del presbitero. In altri termini, diacono e prete non potranno mai essere la stessa cosa e la loro dignità sacerdotale resterà diversa. Implicitamente, anche il loro “potere” di influire sulla Chiesa resterà diversa.
Pertanto, non sembra realistica l’interpretazione del sacerdote milanese don Giavini che vorrebbe assegnare ai diaconi, su base biblica, una più piena funzione di collaborazione nell’ambito delle stesse attività liturgico-pastorali assegnate ai presbiteri, funzione che peraltro, entro limiti ben precisi, la Chiesa in verità consente loro di svolgere, e che, entro limiti ancora più ristretti, una diffusa prassi parrocchiale già autorizza. A rigor di logica evangelica, come si è visto, il compito dei diaconi dovrebbe essere quello di assistere il prossimo in opere pratico-caritative di grande rilievo evangelico nel quadro delle complessive attività missionarie riconosciute dalla Chiesa. Ma se ciò fosse riconosciuto, allora i presbiteri non resterebbero ancora una volta soli, non dovrebbero farsi aiutare solo dai chierichetti e chierichette comuni, dai soliti laici, dalle solite pie donne sempre cosí solerti e affaccendate specialmente nelle cose più appariscenti della vita liturgica?
Ma, si potrebbe controbattere con un tono non necessariamente malizioso, anche cosí i presbiteri non sono aiutati abbastanza, anzi troppo, e non sono già abbastanza “importanti”? Semmai, ironia a parte, la questione è un’altra: quella di consentire ad uomini sposati, in possesso di determinati requisiti spirituali e teologici, in ottemperanza alla volontà del Signore quale è manifestata nei vangeli e in perfetta linea con la più antica tradizione della Chiesa, di essere “ordinati” sacerdoti, ovvero di essere legittimati sacramentalmente quali persone dedite esclusivamente alla preghiera e al servizio della Parola di Dio e alle annesse e connesse pratiche liturgico-sacramentali e spirituali, qualora sinceramente lo desiderino. Una norma canonica assolutamente priva di origine divina, seppur comprensibile e giustificabile solo alla luce di particolari contingenze storiche, non può continuare ad interferire nelle cose realmente volute da Gesù che chiamò a sé, in qualità di discepoli e di apostoli, senza distinzioni di sorta, celibi e sposati, ponendo come uniche condizioni, nell’uno come nell’altro caso, quelle di una fede incrollabile e di una perfetta continenza in funzione del regno dei cieli.
Saremo sempre obbedienti a papa Benedetto, ma sentiamo nitidamente che il celibato ecclesiastico obbligatorio non potrà sbarrare per sempre la strada a tutti coloro che, pur trovandosi in una diversa condizione umana e civile, si sentano chiamati dal Signore a seguirlo e a testimoniarlo come sacerdoti anche in senso ministeriale con una vita casta umile e onesta. Non penso che quel giorno, quando per l’ennesima volta verrà compiendosi la sua volontà attraverso la prodigiosa regia dello Spirito Santo, i príncipi della Chiesa proveranno rincrescimento nel dover accogliere i nuovi arrivati come dei pari grado nell’unica signoria di Cristo Gesù. Se la gerarchia della Chiesa di fatto non fosse funzionale alla progressiva ma reale attuazione di una comunità umana e spirituale fondata su un vicendevole e amorevole spirito di servizio, sarebbe perfettamente illusorio o ipocrita continuarla a chiamare santa gerarchia. Bisogna fare ancora tanto per renderla davvero santa e, tanto per cominciare, qualcosa si potrebbe cominciare a fare subito proprio da parte di quei fratelli vescovi e cardinali che hanno le maggiori responsabilità nella conduzione delle cose ecclesiali: se la Chiesa di Cristo dev’essere una Chiesa di eguali nello Spirito di Dio, una Chiesa di reciproco servizio fraterno, una Chiesa in cui le diverse funzioni di governo non si riducano a puro e semplice (e spesso arbitrario) comandare, allora perché non cominciamo a purificare il nostro linguaggio ancora cosí pomposamente pieno di “eccellenze” ed “eminenze”, di “padri” e “maestri”, riservando umilmente ad ognuno il rispetto che gli è dovuto in quanto fratello dotato di determinati carismi e in quanto testimone più o meno attendibile di Cristo con quella semplicità e sincerità che sono richieste dal vangelo e indipendentemente dai ruoli ufficiali ricoperti nella gerarchia della Chiesa?
Non sono dettagli inutili o ricercatezze formali di nessun conto, o speculazioni maliziose volte a depotenziare non solo titoli spirituali evangelicamente non dovuti ma anche le persone che se ne fregiano magari solo per gli evidenti condizionamenti derivanti da un costume storico-religioso mai messo in discussione, perché al contrario la volontà e la capacità di salvare su tutti i fronti del rapporto interpersonale le forme della buona educazione, senza prevaricazioni ed eccessi di sorta, è il presupposto e il primo passo di una sana e corretta spiritualità. E’ vero: troppo spesso istanze di questa natura si affacciano nella Chiesa sotto la spinta nichilistica della superbia e della provocazione, ma questa pur giusta considerazione che deve indurre ad un’attenta vigilanza non deve tuttavia comportare un irrigidimento altrettanto immotivato dei principali reggitori della Chiesa i quali sono tenuti semplicemente a stabilire ogni volta in spirito di verità se e come si possa meglio aderire agli insegnamenti evangelici anche e soprattutto in presenza di istanze e sollecitazioni che si levino alte e chiare dalla stessa assemblea ecclesiale. Cominciamo, senza retorica e senza malcelata ipocrisia, a riconoscerci tutti diaconi e tutti sacerdoti di Dio dotati di uguale dignità e ad operare tutti, nella nostra quotidiana pratica ecclesiale ed umana, come diaconi e sacerdoti senza stellette o gradi da portare sul petto e nell’anima e l’“amore cristiano” tornerà ad essere più facilmente riconoscibile e più frequentemente simile a quello che sgorgò dalla bocca e dal cuore di Cristo.