Elemosina: un pilastro della fede

Scritto da Egidio Conversi on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

L’elemosina è una particolare forma di carità, una manifestazione concreta dello spirito di carità il quale però non può essere ridotto ad elemosina. La sincera disponibilità personale verso chiunque si trovi in difficoltà, non accompagnata da vanagloria, è carità: verso chi ha oggettivamente bisogno di conforto non meramente economico, perché solo o malato o emarginato; verso chi, dotato di buone qualità umane e professionali, si aspetta legittimamente di essere adeguatamente utilizzato e valorizzato da un punto di vista sociale e produttivo; verso chi, pur non dotato di particolari qualità intellettive ed umane, non rinuncia a desiderare di sentirsi più rispettato ed amato da coloro che frequenta più assiduamente. Anche la disponibilità personale a mettersi operativamente a disposizione di tutto ciò che è vero, bello e giusto, nei limiti delle proprie possibilità e capacità, è carità: è carità mettersi al servizio della propria parrocchia, incoraggiare opere culturali o religiose realmente utili e degne di essere sostenute, impegnarsi gratuitamente in attività sociali ed assistenziali di sicuro valore etico e spirituale, resistere sempre e comunque a qualunque condizionamento storico-mondano pur di essere e rimanere semplici e intransigenti testimoni di Cristo anche se a rischio di perdere la propria tranquillità personale o la propria vita.

Ma la carità, certo, è anche fare l’elemosina, quella materiale e più esattamente quella monetaria, e pensare di eludere questo dovere spirituale (da compiere peraltro con gioia) nel nome di una carità molto più nobile e significativa significa semplicemente illudersi di essere capaci di agire con spirito di carità. Quando ci sentiamo dire, magari anche da qualche parroco, che “per carità non bisogna intendere la carità spicciola, anzi la vera carità non è il fare elemosina a questo o a quello, perché essa è ben altro”, senza ulteriori precisazioni, bisogna preoccuparsi perché è certamente vero che la carità non può ridursi all’elargizione di qualche misera mancia quotidiana a questo o a quel mendicante, ma è altrettanto necessario precisare che, non solo senza misere mance ma senza donazioni abbastanza cospicue e sia pure proporzionate alle proprie personali necessità, lo spirito di carità è ancora lontano dalla nostra coscienza e dalla nostra vita di cristiani.    

Tuttavia, il cristiano realmente caritatevole non può praticare l’elemosina senza riflettere, senza interrogarsi sulle ragioni o sul modo del suo atto e poi anche sul destinatario della sua elemosina. Egli deve essere cosciente delle ragioni per le quali fa elemosina: per un sentimento occasionale o saltuario di pena nei confronti di alcuni noti diseredati, per una sorta di atto scaramantico per cui dando qualcosa a qualche poveraccio pensa di tenersi lontano da qualche possibile guaio o maleficio, per farsi apprezzare dagli altri e vivere di onori e pubblici o privati riconoscimenti, per una specie di gratificazione psicologica che lo fa sentire più buono di quel che realmente è, per un’attitudine spirituale a sentirsi vicino in Cristo a coloro che hanno seri problemi di sopravvivenza. E’ sufficiente citare le sferzanti parole rivolte da Gesù ai farisei per capire che probabilmente esercita correttamente l’elemosina solo chi la fa con sincerità, senza secondi fini anche semplicemente di natura psicologica e pur sempre consapevole dell’inadeguatezza del suo gesto, e solo per riversare almeno in parte su altri fratelli e sorelle quella misericordia che si chiede a Dio per se stessi: «Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio» (Mt 16, 14-15).  

Ognuno deve dare secondo le sue possibilità ma sempre con molta generosità, anche se il Signore non prescrive misure precise di carattere catastale per le proprie donazioni affidandosi al buon senso, alla sensibilità, alla capacità di discernimento e di giudizio di ognuno. Già in Tobia (4, 7-11), il concetto è molto chiaro: «Compi opere buone in tutti i giorni della tua vita e non metterti per la strada dell’ingiustizia. Perché se agirai con rettitudine, avrai fortuna nelle tue azioni. A tutti quelli che praticano la giustizia fa’ elemosina con i tuoi beni e, nel fare elemosina, il tuo occhio non abbia rimpianti. Non distogliere lo sguardo da ogni povero e Dio non distoglierà da te il suo. In proporzione a quanto possiedi fa’elemosina, secondo le tue disponibilità; se hai poco, non esitare a fare elemosina secondo quel poco. Così ti preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, poiché l’elemosina libera dalla morte e impedisce di entrare nelle tenebre. Infatti per tutti quelli che la compiono, l’elemosina è un dono prezioso davanti all’Altissimo».  

L’elemosina, pur non esaurendosi in essa lo spirito di carità, non è una cosa marginale della vita cristiana perché Gesù la indica come pilastro della vera vita religiosa (Mt 6, 1-18) e chi invece la considera marginale corre il serio rischio di essere escluso dal regno dei cieli. Bisogna anzi sottolineare che Gesù vuole che la nostra elemosina sia totalmente disinteressata, senza aspettare alcunché in cambio (Lc 6, 35) e persino senza misura (Lc 6, 30), anche nel senso che va fatta non solo e non tanto in rapporto al proprio “superfluo” ma anche e principalmente a ciò che ci è “necessario”. Ma non è difficile rimanere cosí attenti e scrupolosi per tutta una vita, non è comprensibile e inevitabile che ci siano momenti di stanchezza, cadute di tensione spirituale? Sí, è vero, ma non bisogna dimenticare che ognuno di noi è povero, con le sue preoccupazioni, i suoi momenti di crisi, i suoi affanni morali ed esistenziali, e che quindi ognuno di noi, lungi dall’essere perfetto, ha continuamente bisogno del soccorso divino, dell’elemosina di Dio. Anche noi, sul piano esistenziale e spirituale, siamo costantemente costretti a chiedere l’elemosina dell’amore divino. Per cui, se talvolta non si è in grado di esplicare al meglio il proprio sentimento di pietà (si ricordi che elemosina viene dal greco eleèo che significa “ho compassione”), non ci si deve abbattere, ma, coscienti dei propri limiti, ci si deve sempre rivolgere al Signore perché ci perdoni e continui a darci la forza di manifestare il nostro affetto a chi, nonostante i nostri problemi o i nostri drammi, è rimasto verosimilmente più indietro di noi.

Però, come si diceva più sopra, il cristiano deve interrogarsi anche sui destinatari della sua elemosina. Bisogna infatti che i poveri che egli è chiamato a soccorrere siano tali e non semplicemente mendicanti o accattoni che non abbiano mai preso in considerazione la possibilità di lavorare e di guadagnarsi il pane in modo più onorevole e che, per giunta, litighino spesso tra loro a causa della loro stessa avidità. Il vero povero, che certamente sta anche tra i mendicanti o gli accattoni, è colui che, vivendo appunto di elemosina in quanto tutti i suoi sinceri tentativi di vivere diversamente sono falliti, è capace di condividerla (poca o molta che sia) anche con altri poveri qualora questi si trovino in uno stato di necessità pari al suo o ancora più grave del suo (vedi la vedova povera che viene esaltata da Gesù in quanto quasi dimentica per generosità del suo stato di povertà).

Dunque il cristiano deve stare attento a fare l’elemosina a chi veramente, pur avendo fatto o facendo di tutto per vivere attraverso una qualche occupazione o una qualche attività lavorativa sia pure modestamente retribuita, non riesca ad assicurare a sé e alla propria famiglia neppure un livello minimo di sopravvivenza, dove la funzione specifica dell’elemosina, come dissero i francescani del trecento, è per l’esattezza quella di «aiutare a sopravvivere ma non a vivere», perché altrimenti l’idea di elemosina si caricherebbe di un significato assolutamente irrealistico e come tale sarebbe impraticabile. Il cristiano è perciò tenuto a preoccuparsi in particolare di casi di stringente necessità, nei quali la dignità delle persone interessate è violata indipendentemente dai loro sforzi reali di conservarla. Egli, naturalmente, sul piano più generale della carità, potrà occuparsi anche di casi più lievi se ne avrà la forza e l’opportunità. Ma, per ciò che riguarda l’atto specifico del far elemosina, egli, dove gli sia possibile, dovrà cercare di saperne a sufficienza sulla vera identità dei suoi destinatari giornalieri, o sulla base di intuizioni sicure o sulla base di notizie certe o almeno probabili e soprattutto invocando lo Spirito Santo per riceverne la dovuta illuminazione, al fine di operare conseguentemente.  

Qui, a dire il vero, si tocca un punto molto delicato. Un tempo, probabilmente, era più facile stabilire chi fossero realmente i poveri da assistere con l’elemosina, oggi invece, nella società globale e multimediale, è molto più complicato. Nel 2008, nel presentare il tradizionale messaggio del papa alla vigilia del tempo quaresimale, l’arcivescovo tedesco Paul Cordes (presidente del Consiglio pontificio Cor unum), riferisce un’articolo di Bruno Bartoloni che è un vaticanista dell'Agence France Presse (articolo di cui non ricordo più la data), lanciò «un'accusa senza precedenti contro la carità con ritorno di immagine oggi in gran voga, ironizzando anche con “tombole, gala di beneficenza di attori, sportivi e politici”, divenute manifestazioni “all' ordine del giorno. Il mercato delle istituzioni benefiche è in piena fioritura”. Anzi, le stesse “multinazionali investono nelle azioni caritative. Far del bene al prossimo è diventato insomma un vero e proprio business. In un mondo in cui il dare è diventato una moda, con le donazioni si possono ottenere gloria e grandezza, se solo si trascurano deliberatamente le parole di Gesù: ‘quando fai l' elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra’. Il clima filantropico rende possibile addirittura fare della solidarietà un business; e poi, al di là dei buoni scopi, c' è sempre la possibilità per chi amministra di ritagliarsi una quota sostanziosa per i propri bisogni». Lo stesso articolo riferisce che anche il sottosegretario Alfredo Mantovano si è soffermato su alcune forme contemporanee di “carità equivoca” nel denunciare «la preoccupante diffusione in Italia del fenomeno dell' accattonaggio dei minori, sfruttato sia dai genitori che da organizzazioni criminali».

Più in generale, si può affermare che il cristiano non viola lo spirito evangelico del soccorrere i bisognosi tutte le volte che si astenga dal fare elemosina valutando subito o nel tempo, con onestà e con cuore già pronto a soccorrere il prossimo, che le sollecitazioni di soccorso siano obiettivamente sospette o manifestamente illecite, giacché come spiega anche la cistercense Carta Caritatis del 1098, “il bisogno di chi chiede aiuto deve essere valutato con intelligenza”, ovvero vanno “comprese le ragioni per le quali un povero è tale”, e inoltre “la beneficenza” (la parola elemosina viene qui inclusa nel termine beneficenza, da bonum-facere) “non deve incentivare la pigrizia nel bisognoso”. Questo non può non valere anche nei confronti di quel pullulare di associazioni, di istituzioni, di riviste, di opere caritative di varia natura, facenti tutte capo allo stesso mondo cattolico, dalle quali ci si sente chiedere, a mezzo posta, con insistenza e con una ossessiva frequenza, contributi o offerte in denaro, senza peraltro saper nulla di coloro cui si rivolgono, delle loro reali condizioni economiche o di salute, delle loro problematiche esistenziali e via dicendo. Mi spiace, ma anche questo va detto e denunciato con forza. A volte, per il loro modo pressante di porgersi, si è tentati di dubitare persino della buona fede di alcuni di questi enti o soggetti religiosi, che sanno benissimo di sottoporre a notevoli ed ingiustificati condizionamenti psicologici i destinatari peraltro generosi delle loro richieste. Non è possibile che i cristiani e in particolare i cattolici speculino sullo spirito di carità dei loro stessi fratelli di fede per perseguire obiettivi non sappiamo sino a che punto evangelici.

Pertanto anche in questo caso vale il monito evangelico alla vigilanza. Non sempre è facile distinguere poveri veri da poveri falsi, poveri realmente disperati da cialtroni che si fingono poveri ma che sono dediti alla poltroneria o all’ubriachezza o anche a qualche cosa di peggio e che non provano alcun disagio morale per l’attività a cui si sono ridotti soprattutto per mancanza di impegno. Ci sono poveri che nessuno conosce e soccorre solo per il fatto che essi hanno la dignità di tenere il più possibile celata la propria dignità e altri che, esponendo senza ritegno i propri figlioletti alle intemperie e a tutta una serie di disagi ambientali, pongono in essere astuzie e tecniche disoneste volte a garantire loro o ai loro vili mandanti quel pane, poco o molto che sia, che potrebbero procurarsi per altre vie meno umilianti e indecorose. I bisognosi ci sono sicuramente e non si vuole affatto ignorare che il loro reale stato di povertà non è solo un loro problema ma un problema di tutti noi che professiamo la fede in Cristo. Ma che tra essi si nascondano anche furfanti e truffatori è altrettanto vero (non è cioè un semplice pregiudizio) e i cristiani non devono crearsi inutili e dannosi scrupoli di coscienza se tirano dritto per la loro strada allorché siano sicuri che di furfanti e truffatori si tratta.

Tuttavia, queste considerazioni non pretendono di avere un valore assoluto. Esse possono forse servire a meglio orientare il giudizio e la condotta dei cristiani, i quali però non possono correre il rischio di trasformarsi in quei farisei che discettando di tutto e su tutto finivano sempre per trovare il modo di giustificare il loro egoismo e la loro avidità. Per cui sarà bene, sia pure con la dovuta prudenza e saggezza, esercitarsi sempre a maneggiare quattrini da donare a chiunque ce li chieda nella misura in cui volta a volta sentiremo interiormente di doverli donare. In fondo, tutti i cristiani potrebbero e dovrebbero condividere di buon grado l’abitudine personale di Pietro Citati: «Confesso di praticare ancora l’elemosina», scriveva qualche anno fa, «perché cosí, molti anni fa, mi è stato insegnato; e non mi preoccupo se chi tende la mano è un vero o un falso mendicante» (I mendicanti cuore nascosto della religione cristiana, in “La Repubblica” del 15 novembre 2007). Ecco: riserviamo elemosine cospicue per i casi di povertà conclamata e concediamo elemosine di media o bassa o minima entità per tutti quegli altri casi di povertà di cui non possiamo onestamente valutare o giudicare l’effettiva rilevanza umana, sempre ricordandoci naturalmente di essere prudenti e generosi ad un tempo, intelligenti e insieme misericordiosi a dismisura. Forse, anche cosí, continueremo a commettere qualche errore, ma potremo sperare a ragion veduta di essere perdonati più facilmente dal Signore.