Immigrati. Per un'accoglienza senza retorica e senza ipocrisia

Scritto da Antonia Vincenti on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Nessun popolo meglio di quello ebraico, che vive l’esperienza dell’emigrazione e dell’esilio per 400 anni, è riuscito a maturare una concezione più profonda dell’esperienza dell’essere stranieri. Come spiega don Fredo Olivero di Torino (Torino, settembre 2001), gli ebrei usano tre termini per connotare tre diverse possibili condizioni dello “straniero”: zar, lo straniero che viene da lontano e quindi l’estraneo o il diverso; nokri, lo straniero di passaggio non residente o irregolare o clandestino; gher  o toshav, lo straniero residente e stabilmente inserito nel tessuto sociale del paese ospitante. Nel primo caso, lo straniero è visto con paura come un soggetto di cui non si conosce nulla e virtualmente pericoloso ma anche come soggetto da illuminare attraverso la testimonianza della parola di Dio, dove quindi la paura o il pregiudizio può trasformarsi anche in impegno o missione; nel secondo caso lo straniero, in quanto irregolare o clandestino di passaggio che non manifesti alcuna volontà di delinquere contro le leggi del paese ospitante, è considerato come non particolarmente temibile e a lui viene riservata una normale e serena accoglienza che lo fa diventare ospite; nel terzo caso infine, quello dello straniero residente e ben inserito ormai nella comunità che lo ha accolto ed ospitato, egli gode anche di una protezione giuridica e religiosa giacché il Signore stesso «ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto» (Deuteronomio 10, 18-19) e questo ci obbliga ad amarlo e a riprodurre l’atteggiamento di Dio.

Nel Nuovo Testamento, tutte queste distinzioni sono conservate e superate ad un tempo, perché Gesù, senza negare che occorre una certa prudenza o una certa avvedutezza nel rapportarsi a chi non si conosce, esorta tuttavia ad aprire preventivamente il cuore a chiunque possa aver concretamente bisogno della nostra accoglienza e del nostro aiuto e dunque in primis verso le persone più lontane e più diverse da noi: “ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25, 35), e poi: « tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).  

Veniamo al nostro tempo. Lo straniero, l’immigrato, benché sia la figura per eccellenza dell’uomo biblico, del popolo di Israele e del cristiano in cammino verso il Regno di Dio tra mille incognite e difficoltà, oggi nella società occidentale, sino a quando non vi risulti perfettamente integrato, è una persona fondamentalmente emarginata e sola. Naturalmente, bisogna essere cristianamente consapevoli che «straniero non è solo colui che viene da fuori, l’extraterritoriale o il solito “extracomunitario”, ma anche chi si sente estraneo all’interno della propria comunità o gruppo di appartenenza», come è stato osservato una volta da un fratello protestante, anche se su questo aspetto non marginale dell’insegnamento evangelico non sempre i cristiani sono pronti a riflettere con la stessa sollecitudine con la quale sembrano volersi occupare, non senza purtroppo intenzioni talvolta velleitarie, del grande problema dell’immigrazione. In questo senso, lo straniero per eccellenza è Gesù che viene da un mondo radicalmente altro dal nostro e che vuole condurci ad un mondo totalmente altro da questo: egli non viene riconosciuto come il Salvatore dal suo stesso popolo, viene sbeffeggiato e tenuto sempre ai margini della vita religiosa istituzionale del suo tempo, e persino gli apostoli saranno veramente sicuri del suo potere salvifico solo dopo la sua resurrezione. E’ bene non dimenticarsene: se è stato possibile disconoscere e negare accoglienza a Gesù, sarà molto più facile disconoscere gli immigrati e negare loro la dovuta accoglienza. Quindi riflettiamo attentamente sui nostri sentimenti prima di esprimerli, per evitare che il nostro solidarismo sia solo impulsivo e dunque più apparente che reale.

Ciò non toglie assolutamente e anzi a maggior ragione implica che dobbiamo sinceramente amare il diverso da noi, lo straniero, l’immigrato al meglio delle nostre possibilità e capacità, nei limiti e nelle forme in cui concretamente ci sarà possibile farlo, tenendo sempre presente che dalla qualità dell’accoglienza e del rispetto che noi sapremo offrire ai “lontani” da noi dipende il nostro destino eterno. In tal senso, è da ritenere di pessima qualità quell’accoglienza interessata che consiste nel dare una qualche ospitalità all’immigrato solo in quanto egli sia una possibile fonte di interesse e di guadagno per chi lo ospita: qui si ha a che fare con una forma senz’altro deprecabile d’amore, anzi con la sua più recisa negazione, dal momento che amare uno semplicemente per la ricchezza che può derivarci dal suo lavoro è qualcosa che contrasta in modo stridente con la logica evangelica. Di non buona qualità è la nostra accoglienza anche quando essa coincide in realtà con un semplice spirito di sopportazione, come se insomma avere a che fare con africani ed extracomunitari in genere fosse un male necessario, qualcosa che dobbiamo avere la forza di subire e di accettare “cristianamente”. Si spiega cosí che, se la loro presenza comincia ad intaccare gli equilibri o certi equilibri delle regioni ospitanti, essi vengano rispediti nei paesi d’origine. Esplodono in quei casi improvvise manifestazioni di xenofobia, in senso attivo o passivo, che “rivelano il volto anticristiano e antievangelico”, come si legge in alcuni siti facenti capo alla Santa Sede, “di comunità apparentemente cristiane e praticanti”.

Tuttavia, anche quando viene esercitato un corretto e veramente fraterno spirito di accoglienza, bisogna stare attenti a non invadere il campo della politica e del potere dello Stato, nel senso che leggi emanate in materia di immigrazione dallo Stato, per quanto restrittive e severe, a meno che non violino manifestamente la dignità umana della persona e i connessi diritti fondamentali, devono essere da noi rispettate sia in qualità di cittadini sia in qualità di cristiani, perché in ogni caso volte a garantire il bene comune ovvero il bene dei cittadini residenti e degli stessi immigrati. Cosí come vanno accolte serenamente e senza ingiustificati strepiti polemici, nel rispetto del libero dibattito democratico e parlamentare, le disposizioni governative sul numero di coloro che possono entrare in un paese diverso dal loro e sul modo di trattarli quando entrano illegalmente o si trovino a violare le leggi della nazione ospitante. Detto questo, il cristiano deve rimanere sempre pronto ad aiutare, per motivi realmente umanitari e di straordinario e oggettivo bisogno, chiunque si trovi nella condizione di essere soccorso anche al di là di quel che le leggi prevedono e consentono.

Ora però, se accade che uno Stato non rispetti integralmente le leggi da esso stesso emanate, o per negligenza o per impossibilità, e non provvede per esempio ad evitare che immigrati possano essere in qualche modo “ospitati” su territori dominati dalla mafia o da poteri delinquenziali cosí violenti che essi non sarebbero al riparo da probabili operazioni di sfruttamento o addirittura di “arruolamento” a scopi delittuosi, o non provvede ad accoglierli e sistemarli in strutture abitative adeguate ed igienicamente dignitose sí da poter essere realmente integrati in una determinata comunità civile e possibilmente cristiana, come si potrà accusare di razzismo o di intolleranza le popolazioni di quelle zone in cui, come nel caso recente di Rosarno, dovessero esplodere in forme violente certe tensioni a lungo covate e un disagio civile via via sempre più grave ed esasperante? Come si potrebbero accusare a ragion veduta quelle popolazioni di disprezzo verso il diverso, specialmente se esse fossero pesantemente condizionate dalle manovre violente e intimidatrici dei poteri mafiosi nelle sue diverse accezioni? E’ ragionevole pensare che la carità possa essere praticata nei confronti di chi viene posto praticamente in balía dei malvagi? Non sarebbe giusto isolarli i malvagi, catturarli, recluderli, prima di voler accogliere ed ospitare persone che vengono da molto lontano ed andrebbero rispettosamente onorati? Certo, all’interno poi di fatti sconvolgenti e drammatici ognuno può sempre esercitare la carità verso il prossimo secondo le sue possibilità e capacità, e nei consuntivi di stampa e di governo anche taluni ipotetici o reali episodi di abnegazione meriterebbero di essere citati e sottolineati. Ma, appunto per tutto questo, sarà lecito bollare con ipocriti marchi di infamia intere popolazioni?

Si sente dire spesso che non bisogna avere paura dell’altro. E’ un bel dire, ma in realtà si fa molto male a trattare con leggerezza e gioconda ironia questo sentimento che è invece del tutto naturale e non va rimosso a colpi di retorica, ma analizzato, capito e gradualmente superato per via di ragione e di esperienza: la carità non può essere esercitata in astratto o senza prima capire lo specifico delle situazioni umane, ma, ove voglia essere fruttuosa, segue sempre le indicazioni della ragione e dell’esperienza. Anche lo straniero ha paura di me: è del tutto ovvio ma il problema è proprio quello di incontrarsi, ascoltarsi, conoscersi, fidarsi e amarsi come veri fratelli che poco per volta scoprono di essere realmente, intimamente e non solo propagandisticamente eguali.

Anche la Chiesa deve stare più attenta a non divulgare messaggi generici ed astratti sia pure in ossequio all’ideale dell’amore cristiano. Occorre che le parole siano soppesate e non semplicemente usate in modo paternalistico e vagamente moralistico, e per essere soppesate esse devono muovere dalla consapevolezza di come stanno realmente e globalmente le cose. Non solo per non contribuire a gonfiare a dismisura le prese di posizione polemiche di tanti non cristiani e non cattolici affetti da isterismo umanitario o pseudoumanitario, ma anche per non deprimere oltre misura tanti cattolici che si sforzano di fare quello che possono a livello personale.  

Alcuni anni or sono, Enzo Bianchi scriveva parole a mio giudizio molto sagge: «C’è una tentazione, diffusa anche in certi ambienti del volontariato cattolico impegnati in prima fila sul difficile fronte dell’accoglienza degli stranieri, di pensare alla perfetta uguaglianza dell’altro, al criterio dell’accoglienza sempre e in ogni caso di tutti quelli che bussano alle nostre frontiere. Ora,…siamo sempre più coscienti della radicale uguaglianza di tutti gli esseri umani di fronte a Dio e dell’universalità dei loro diritti, ma questo non può tradursi automaticamente e acriticamente in un’accoglienza passiva e illimitata degli immigrati. Che senso ha accogliere qualcuno senza poter fornire loro casa, pane, vestito e soprattutto una soggettività e una dignità nella nostra società? Occorre riconoscere che esistono dei limiti nell’accoglienza: non i limiti dettati dall’egoismo di chi si asserraglia nel proprio benessere, ma i limiti imposti da una reale capacità di “fare spazio” agli altri, limiti oggettivi, magari dilatabili con un serio impegno e una precisa volontà, ma pur sempre limiti» (Con quella faccia da straniero, in “La Stampa” dell’8 febbraio 2003).

Se alla base di questi limiti ci sono ragioni ideologiche o inconfessabili ragioni politiche, questo è male, come è male selezionare eventualmente gli immigrati da accogliere solo in base alle loro appartenenze religiose e alla somiglianza di queste rispetto alla fede religiosa di quei cittadini o di quelle comunità che li accolgono. Però vi sono dei limiti oggettivi che non devono essere usati né come alibi per il nostro istintivo egoismo né come reiterata occasione di sterile polemica ideologica e politica o, più semplicemente, di prediche meramente moralistiche e demagogiche. Non ultimo tra questi limiti è quello connesso al fatto che i cristiani hanno l’obbligo di dare accoglienza agli immigrati solo nel nome di Cristo e non nel nome di una malintesa e strombazzata civiltà del dialogo, con tutte le conseguenze pratiche che questo atto di fede e d’amore comporta.