Fede e giustizia

Scritto da Agata Catanesi on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Il papa ha rilevato come sia illusorio pensare che la giustizia possa essere attuata attraverso una semplice rimozione di cause “esterne” al cuore dell’uomo tra le quali figura per esempio l’indigenza materiale che implica il relativo soddisfacimento di bisogni primari quali l’alimentazione e il sostentamento fisico. Non c’è dubbio che il papa ha ragione quando dice che «sono certamente utili e necessari i beni materiali - del resto Gesù stesso si è preoccupato di guarire i malati, di sfamare le folle che lo seguivano e di certo condanna l'indifferenza che anche oggi costringe centinaia di milioni di essere umani alla morte per mancanza di cibo, di acqua e di medicine -, ma la giustizia "distributiva" non rende all'essere umano tutto il "suo" che gli è dovuto. Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio» (La giustizia più grande è quella dell’amore, in “L’Osservatore Romano” del 4 febbraio 2010). Infatti, egli osserva, Gesù ci insegna che l’ingiustizia come il male non ha «radici esclusivamente esterne» ma «ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa convivenza col male»: «l'uomo», egli spiega, «è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l'altro. Aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri:  è l'egoismo, conseguenza della colpa originale» (Ivi).

Allora cos’è la giustizia in senso pieno, nel senso religioso più pregnante? La risposta è che essa consiste, da una parte, nella piena accettazione della volontà di Dio e quindi anche di tutti gli insegnamenti impartiti da Cristo, e dall’altra, ma si tratta di due aspetti di un unico processo spirituale, nell’attenzione e nella equità che noi siamo tenuti a manifestare nei confronti del prossimo e in particolare nei confronti del povero, del forestiero, dell’orfano e della vedova. 

Giustizia c’è se si ascolta Dio e si ascolta Dio se noi aderiamo al suo invito ad uscire dal nostro egoismo e da quella nostra chiusura in noi stessi che «è l’origine stessa dell’ingiustizia» (Ivi). Ma, per essere totalmente capaci di combattere contro il nostro naturale egoismo al fine di potenziare la spinta pure in noi presente all’amore verso gli altri, occorre fare “esodo” e liberare il nostro cuore per mezzo della fede nella giustizia di Cristo. E qual è la giustizia di Cristo se non «anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri» ma appunto Cristo che si immola espiando per noi, per liberarci dal peso delle nostre colpe (Ivi)? Il giusto è colui che riconosce e interiorizza questo, sentendosi sempre, anche quando riesca ad essere particolarmente caritatevole verso il prossimo e ammirevolmente fedele a Dio, più debitore (per l’amore ricevuto da Dio) che creditore (per l’amore riversato sui fratelli bisognosi).

Tuttavia, si può obiettare, rileva il papa, che proprio il sacrificio di Cristo può apparire ingiusto, perché non sembra che possa esservi giustizia nel fatto che il giusto debba morire per il colpevole e il colpevole debba ricevere «la benedizione che spetta al giusto» (Ivi). Si dice giustamente che la giustizia umana consistente nella giustizia distributiva assicuri unicuique suum, ovvero a ciascuno il suo, ma in questo modo non succede esattamente il contrario, cioè che ciascuno venga «a ricevere il contrario del suo» (Ivi)? Qui, è la risposta del papa, «si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante. Di fronte alla giustizia della Croce l'uomo si può ribellare, perché essa mette in evidenza che l'uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso. Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo:  uscire dall'illusione dell'autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza - indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia» (Ivi).  Solo in tal modo, solo attraverso una continua conversione all’amore di Cristo per noi e all’amore in Cristo per il nostro prossimo, solo riconoscendoci sempre bisognosi del perdono e dell’amore di Cristo, potremo veramente contribuire all’affermazione della giustizia nel mondo, di quella giustizia «vivificata dall’amore» che costituisce il vero e sano fondamento di «società giuste» seppure ancora imperfette. 

I primi cristiani, proprio riconoscendosi peccatori e sempre e comunque confidando nella misericordia di Dio, ha osservato il cardinale Paul Josef Cordes, si facevano «carico delle necessità dell’uomo» (Carmen Elena Villa, Il cardinale Cordes invita a vivere la giustizia dei primi cristiani, in “Zenit” del 4 febbraio 2010), difendevano «gli oppressi davanti ai potenti», e durante il Medioevo «gli uomini di Chiesa mettevano al sicuro i beni della gente semplice di fronte alla nobiltà» promuovendo altresí «il desiderio entusiastico di una convivenza pacifica» (Ivi). Ma i cristiani, pur impegnandosi a fondo a favore della giustizia nelle cose di questo mondo, non possono non tenere gli occhi puntati verso una prospettiva più ampia di quella strettamente storica, per cui cristianamente parlando il problema della giustizia «non può essere risolto soltanto con interventi mondani», andando esso «oltre le categorie politiche» (Ivi), appunto nel senso che, benché gli uomini si affannino a fare cose buone e giuste per se stessi e per coloro che soffrono, inutilmente essi potrebbero aspirare alla giustizia e ad essere giusti essi stessi se non si sentissero ugualmente poveri e debitori davanti a Dio e al suo amore infinito.

In questo senso, la giustizia di Dio, che non prevede un assoluto depotenziamento della forza coercitiva e repressiva delle leggi di Cesare ovvero dello Stato in rapporto alla tendenza umana a perpetrare delitti o crimini  e non si oppone acché “il violento sia punito ed isolato” purché realmente violento e colpevole di atti gravemente eversivi o trasgressivi, e che pone d’altra parte la giustizia e il diritto alla base del trono di Dio stesso (Alexandre Ribeiro, Affrontare la violenza richiede una prospettiva di fede, Dichiarazioni del Cardinale Eugenio de Araujo Sales, in “Zenit” del 4 febbraio 2010) sollecitando i credenti ad aver coraggiosamente fame e sete di giustizia sino all’immolazione della vita e se necessario anche in contrasto con le convenzioni sociali e la mentalità benpensante di ogni epoca storica, obbliga chi in Dio sinceramente confida a sottrarsi a quelle molteplici forme di ingiustizia interiore come vanità, gelosia, invidia, prevaricazione, superbia, arroganza e via dicendo che rischiano in ogni momento di vanificare quanto di buono e giusto si venga meditando e cercando di realizzare con l’intaccarne in misura più o meno grande il significato e il valore sia nella società umana sia innanzitutto agli occhi di Dio.  

Va altresì ricordato che, come ha giustamente mostrato un dotto religioso italiano (pure talvolta non esente da errori), «l’ottica degli evangelisti…non è tanto di denunciare l’ingiustizia che c’è nella società…quanto un severo monito verso la possibile ingiustizia che c’è all’interno della comunità. Voi sapete che una delle immagini che Gesù ha adoperato per la comunità dei credenti è quella di essere il ‘lievito’ che fa lievitare la massa», ma «se in questo lievito c’è l’impurità dell’ingiustizia, e quindi non c’è la pace», la comunità stessa non potrà trasmettere nulla di buono. Le parole di Gesù, rivolte proprio ai suoi discepoli, sono tremende: se, con la vostra presunzione, con la vostra ambizione, con la vostra vanità e la vostra arroganza, mi scandalizzate “uno di questi piccoli”, cioè disorientate e turbate la coscienza di uno di questi fratelli semplici, indifesi, bisognosi solo d’amore sincero e di essere assistiti da persone assolutamente limpide ed integre, io non vorrò avere niente a che fare con voi.

L’ingiustizia nel pensiero di Gesù ha un significato più ampio di quello che questo termine ha generalmente per molti di noi: quando all’interno stesso della comunità si rinuncia ad ogni forma di ingiustizia, ovvero a ogni forma di ambizione e di vanità, allora in essa comincia a germogliare la pace che da essa tende a trasferirsi verso tutta la società umana. Non è quindi, in primis, l’ingiustizia esterna della società ma l’ingiustizia interna della comunità ad essere presa di mira dagli evangelisti e, attraverso la loro testimonianza, da Gesù stesso (A. Maggi, Esiste la pace senza giustizia?, Macerata, 13 gennaio 2010). Anche di questo bisogna tener conto.  

A proposito di giustizia e di pace, non è inopportuno segnalare un’ulteriore nota del biblista citato: quando Gesù proclama “beati” i costruttori o gli operatori di pace, questi, egli dice, non sono i pacifici, quelli che per la propria tranquillità o il proprio comodo personale evitano accuratamente ogni situazione di conflitto, ma sono coloro che, per la pace degli altri, sono disposti a perdere la propria dando inevitabilmente qualche fastidio agli oppressori.