La psicologia e il sacerdote

Scritto da Emilio Santoro on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Qualche anno fa un mio amico già avanti negli anni andò a parlare con un sacerdote accademico della Gregoriana di Roma. Ad un certo punto, rivolgendosi a tale insigne personaggio, disse: “se mi riuscisse di diventare presbitero, cercherei di essere utile agli altri al meglio delle mie possibilità senza aspettarmi niente al di fuori di un po’ di comprensione e affetto da parte della Chiesa stessa. Chiedo troppo?”. La gelida risposta del dotto accademico fu: “sí, chiede troppo”. Risposta appena mitigata da un’aggiunta: “Fino agli anni sessanta-settanta, quando la Chiesa era fondata più sui carismi, sulla valorizzazione spirituale ed ecclesiale di doni carismatici particolari e personali, quel che lei dice forse sarebbe stato possibile e un’aspettativa sia pure minima come la sua avrebbe potuto essere soddisfatta, ma oggi a contare non è tanto una Chiesa carismatica quanto una Chiesa istituzionale basata principalmente sull’organizzazione e su un’efficiente esecuzione di precise direttive ecclesiastiche”. Non è il caso di commentare queste parole. Ho voluto ricordare questo episodio solo per dire che sono molto felice che oggi sull’“Osservatore Romano” qualcuno scriva: «Oggi più che mai si sente il bisogno di recuperare il senso carismatico del sacerdozio» (G. Crea, Patologia psichica e normalità del prete, Bisogna vigilare sulla propria storia, in “L’Osservatore Romano” del 18 febbraio 2010). 

Donde anche l’avvertita necessità che il presbitero non sia un semplice funzionario, un semplice esecutore di organigrammi ecclesiastici, ma un uomo libero di testimoniare ed esplicare il suo ministero sacerdotale e la sua missione pastorale in conformità alle esigenze spirituali più profonde della sua anima e del suo desiderio di servire Cristo. Come diceva Carlo Borromeo ai presbiteri della sua diocesi: «"Eserciti la cura d'anime? Non trascurare per questo la cura di te stesso, e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi avere certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso"» (Ivi). Il prete non deve farsi sommergere da troppe richieste, non deve trovarsi nella condizione di fare troppe cose contemporaneamente, non deve rinunciare a coltivare adeguatamente la propria preparazione spirituale o a preparare bene le proprie omelie, come non deve né affrettare la celebrazione eucaristica né dilatarla a dismisura con prediche prolisse o sconclusionate, né infine può sottrarsi al compito di passare ore e ore in un confessionale per concedere ai penitenti il perdono di Dio e partecipare loro la sua misericordia. 

Ad un presbitero non si può chiedere di celebrare due o tre messe al giorno, innanzitutto perché non è normale celebrare più di una messa al giorno, salvo ricorrenze speciali ed eventualità funerarie, ma poi anche e soprattutto perché egli è tenuto ad assecondare i tempi normali della sua vita spirituale e sacerdotale e non i tempi burocratici e impersonali della vita ecclesiastica. Bisogna che sia la Chiesa a sforzarsi di seguire i tempi dello Spirito più di quanto lo Spirito possa adattarsi a seguire i tempi spesso meccanici ed aridi della Chiesa.

Cosí, ad un presbitero non si può chiedere di svolgere compiti prevalentemente amministrativi o contabili, anche quando abbia doti naturali che gli consentano di assolvere compiti di tale natura, perché i compiti che egli è tenuto a svolgere sono e devono essere di natura eminentemente spirituale, né il presbitero dovrà essere troppo propenso a presenziare a tutta una serie di manifestazioni civili (conferenze o inaugurazioni, partecipazione a parate militari, commemorazioni o premi, e via dicendo) che possono fare benissimo a meno di lui, o anche a correre da un convegno all’altro magari per conoscere “gente che conta” e che potrebbe favorire una sua ascesa nelle gerarchie della Chiesa. Un presbitero, invece, che sia molto dedito allo studio e all’approfondimento della Parola di Dio e sia capace di raccogliere buoni frutti in seno alla sua parrocchia e alla sua diocesi, o che passi molto tempo tra i malati e le persone più deboli, o che stia molto vicino a chi ha continuamente bisogno di una parola di conforto e di un vero sostegno psicologico e spirituale, o che assuma un atteggiamento intransigente là dove abbia a che fare con persone disoneste o furbe o addirittura violente anche se coperte di rispettabilità sociale, deve essere rispettato e incoraggiato dalla Chiesa, dal vescovo, dai confratelli, perché è principalmente di siffatti presbiteri che la Chiesa ha bisogno.

Succede che molti sacerdoti non fossero già all’inizio della loro scelta sacerdotale realmente capaci di dedicarsi assiduamente ad un’attività eminentemente spirituale, priva di mansioni, di onori o di riconoscimenti, di attività molto simili a certe tipiche attività mondane, e in tal caso si può capire per quale motivo la Chiesa abbondi di tanti manager, di tanti accademici, di tanti specialisti, di tanti organizzatori di incontri e di eventi, ma non riesca a trasmettere a tante coscienze inquiete quella forza e quella pace spirituale di cui hanno bisogno e di cui sentono sinceramente l’urgenza. Succede, al contrario, che molti sacerdoti fossero capaci in origine di vera, umile e profonda spiritualità e che, pressati o martellati per troppo tempo da richieste ed esigenze non consone ai veri obblighi della loro vocazione, finiscano per cedere o assoggettarsi ai condizionamenti, per ammalarsi nella psiche e per indebolire la propria spiritualità. Bisogna quindi che la Chiesa stia sempre e intelligentemente vicina ai suoi sacerdoti ma innanzitutto bisogna che essa si preoccupi di salvaguardare un’idea e un modello di sacerdote sganciati da preoccupazioni fondamentalmente “curiali”, da preoccupazioni legate soprattutto al “fare” e molto meno al “contemplare”, da preoccupazioni servili più che di vero servizio evangelico, badando in pari tempo a ridurre il numero di opportunisti e carrieristi e ad incentivare quello di spiriti liberi e forti

In particolare, la Chiesa dovrebbe preoccuparsi di rivedere il suo tradizionale concetto di clero per arricchirlo di nuove figure presbiterali, di nuove presenze spirituali, di nuove e vitali risorse umane e carismatiche, in ossequio alla sua più antica ed originaria tradizione che tra sacerdozio universale e carismatico da una parte e sacerdozio ministeriale e gerarchico dall’altra operava una distinzione molto più sfumata di quella formulata dalle attuali gerarchie cattoliche.         

Quando comincia a serpeggiare il dubbio che la Chiesa al suo interno possa essere più malata di quel mondo che essa è chiamata a guarire, sarebbe irresponsabile limitarsi a stigmatizzare i sempre più numerosi episodi di malcostume e di corruzione che in essa vengono ogni giorno alla luce, emanando in continuazione comunicati ufficiali di censura e richiami più paternalistici che paterni al rispetto di un ordine evangelico che per essere ripristinato avrebbe forse bisogno di ben altre misure e di una più ispirata e sapiente vigilanza apostolica e, diciamo pure, di una capacità tanto creativa quanto evangelicamente necessaria di suscitare un nuovo e più profondo entusiasmo nella comunità tutta dei fedeli. 

Peraltro, bisognerebbe guardarsi dal favorire un ingresso eccessivo della psicologia nella Chiesa specialmente per ciò che concerne i criteri di selezione dei preti, perché se è giusto e doveroso accertarsi che un aspirante prete non sia affetto da particolari turbe di carattere emotivo ed affettivo, sarebbe d‘altra parte insensato pretendere una sorta di normalizzazione del comportamento del prete sulla base di fattori standard e socialmente condivisi come il fatto che egli sia sempre e comunque gradito dalla maggioranza dei suoi parrocchiani o sia sempre ossequioso di determinate abitudini sociali o istituzionali persino quando esse confliggano manifestamente con la carità, la giustizia e la pace evangeliche.

In realtà, gli uomini di Dio, i sacerdoti di Cristo, pur tenuti ad essere irreprensibili sotto il profilo morale e comportamentale, non possono e non devono essere troppo condizionati dalla preoccupazione di non creare conflitto nel cuore della comunità e dei singoli parrocchiani, perché, se il loro compito è come deve essere quello di guidare, di educare, di formare il gregge, oltre che quello di confortarlo e di aiutarlo nei momenti più difficili del suo cammino e della sua esistenza, essi non possono esimersi sistematicamente dal rimproverare e dall’ammonire quanti siano riluttanti a lasciarsi trasformare costantemente e definitivamente dalla grazia salvifica di Cristo, e soprattutto non possono esimersi dal dire cose o compiere atti che potrebbero costare loro anche molto caro. L’importante è naturalmente che essi, nell’usare talvolta la frusta, siano ben sicuri di farlo esclusivamente nel nome e per conto di Cristo e non a causa o in funzione di interessi e passioni del tutto personali. 

Perciò la psicologia è sempre benvenuta a condizione che essa riconosca la legittimità della follia della croce e sappia tenerla sempre distinta da altri tipi di follia e dalle patologie in genere.