Un ebreo cristiano del novecento: Eugenio Zolli
E’ stato giustamente osservato che la Legge, l’Istruzione o l’Insegnamento dell’Antico Testamento non possono diventare fine a se stessi ma devono rimanere strumento di inesausta ricerca religiosa. Altrimenti l’ebraismo finisce per trasformarsi, suo malgrado, in una forma di camuffato e becero “fondamentalismo” oppure per essere ridotto a way of life ovvero a un semplice modo di vita. Per essere “veri ebrei”, è il punto di vista qui espresso, bisogna essere “veri cristiani” e i “veri cristiani” non possono non essere anche “veri ebrei”. In un’epoca in cui, con la caduta delle certezze tradizionali, ognuno si contenta della sua verità senza più preoccuparsi di conoscere la Verità, un ottimo rabbino come Eugenio Zolli ci mostra come il nuovo mondo annunciato dalle Scritture «sarà abitato unicamente da coloro che si amano contemplando l’amore di Dio» e di Dio rivelato –
E’ ormai invalsa l’abitudine di pensare che il dialogo tra le grandi religioni del mondo sia possibile a condizione che nessuna di esse pretenda almeno ufficialmente di essere più vera delle altre. Il dialogo religioso tende vistosamente, al di là delle smentite ufficiali, a risolversi in dialogo politico e diplomatico e a ridursi ad una questione di etichetta: tra la sinagoga, la chiesa e la moschea sembrano più importanti o prioritari i rapporti di potere che non le ancora evidenti differenze dottrinarie, e in ogni caso c’è una tendenza a valorizzare il progresso massmediatico delle trattative anche se quello strettamente etico-religioso è del tutto assente o insignificante. Sembra che gli incontri, le strette di mano, i sorrisi, i convegni e le tavole rotonde, amplificati e diffusi dai mezzi di comunicazione di massa, siano sufficienti a rasserenare gli animi delle diverse famiglie religiose circa l’attesa dell’evento ecumenico: la fraterna e solidale riappacificazione o riconciliazione nel segno della fede in un unico Dio, l’inizio di un’età dell’amore e dello spirito. Come se tutto il resto, ovvero la pietra angolare, ovvero la croce, ovvero Cristo, si potesse giungere a concordare, senza nessuna fretta, per altra via che non sia quella della conversione. Senonché, Cristo unisce ma Cristo divide ed è perfettamente inutile enfatizzare l’impegno sulle cose che uniscono o unirebbero se poi questo impegno non ha il suo vero scopo nell’avvicinamento a Cristo.
Anche i cattolici non sempre capiscono che la salvezza religiosa e lo stesso progresso spirituale dell’umanità non sono questione di “patteggiamento” ma solo di testimonianza e, appunto, di conversione. Convertitevi e credete al Vangelo: i cattolici questo esattamente devono testimoniare per primi in spirito di carità. Più sono estese la coerenza e la incisività della testimonianza, più essa serve a propagare e a radicare la voce di Cristo tra i popoli del mondo. Dopodiché spetta agli altri, agli ebrei e agli islamici, e agli stessi cristiani riformati, decidere se convertirsi o meno. L’ossessiva ricerca di un dialogo non giova, essendo essa dovuta il più delle volte a preoccupazioni di immagine o di natura politica.
Purtroppo, all’inizio del terzo millennio un programma spirituale di conversione alla verità appare alquanto problematico, giacché il concetto stesso di verità sembra essere storicamente in via di disfacimento e la tendenza generale delle Chiese, anche all’interno dell’universo cristiano, e dei diversi orientamenti religiosi, è quella di accontentarsi di una pacifica convivenza interconfessionale. Che ebrei, islamici e cristiani separati continuino dunque, senza eccessive preoccupazioni mondane, la loro ricerca: il vero credente cattolico sa che, se la loro ricerca è onesta, prima o poi non potrà non sfociare nella fede in quel Cristo che volle fondare la sua Chiesa sulla “roccia”, cioè su Pietro. In particolare il mondo religioso ebraico ha ottime possibilità di ricongiungimento al mondo religioso cristiano sia per le sue obiettive affinità con quest’ultimo, sia anche perché storicamente il popolo ebraico non ha conosciuto soltanto massacri, persecuzioni e conversioni forzate ma anche significative conversioni volontarie e disinteressate alla fede cristiana, come lo stesso novecento sta a testimoniare. In questo secolo, infatti, si hanno eclatanti casi di ebrei convertitisi al cristianesimo per motivi nobili e non ignobili, e tra questi fa spicco quello singolare di un intellettuale ebreo, Israel Zoller, che sarebbe stato rabbino capo della Comunità ebraica di Roma tra il 1939 e il 1945.
Della storia di questa conversione, a distanza di oltre mezzo secolo, si continua a non parlare e a non scrivere sia in casa ebraica sia in casa cattolica. E’ come se fosse stata rimossa, è come se anziché favorire i rapporti tra ebrei e cristiani li ostacolasse. Il fatto è che la storia di questa conversione si colloca nella storia del pontificato di papa Eugenio Pacelli, ovvero di Pio XII, che rimane un papa molto contestato dagli ebrei per i suoi presunti “silenzi” sulle persecuzioni naziste degli ebrei. E si dà il caso che, sentendosi chiamato da Dio, Israel Zoller, che avrebbe italianizzato il nome in Italo Zolli, a causa delle leggi razziali del ’38, volle ricevere il battesimo della Chiesa cattolica il 13 febbraio del 1945 scegliendo come nuovo nome quello di Eugenio in segno di riconoscenza verso Eugenio Pacelli per tutto ciò che egli si era sforzato di fare a favore degli ebrei e della sua persona durante gli anni della persecuzione. Questa scelta sarebbe costata moltissimo a Zolli, sia dal punto di vista professionale in quanto, emarginato dal mondo ebraico nell’immediato dopoguerra, non potè più assolvere alcuna funzione religiosa e culturale, sia dal punto di vista umano perché costretto, seppur sostenuto da qualche amico cattolico, ad una vita decisamente povera.
Nei confronti di Zolli rimane ancor oggi un astio profondo quanto inconfessato nella sua originaria comunità di appartenenza. E’ difficile capire, per esempio, perché Riccardo Calimani, noto intellettuale ebreo ed autore di opere memorabili sull’ebraismo, non ritenga di inserirne il nome nell’elenco da lui stilato dei grandi intellettuali ebrei del XX secolo (Non è facile essere ebreo. L’ebraismo spiegato ai non ebrei, Milano, Mondadori, 2004, pp. 107-111). Lo stesso Calimani, nella “prefazione” a Gesù ebreo (Milano, Mondadori, 1998, p. 3), nel ricordare giustamente con una certa enfasi che l’affermazione «Gesù è ebreo e lo è per sempre» è contenuta nei Sussidi per una corretta interpretazione degli Ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, editi nel 1985 da quest’ultima e «frutto della dichiarazione conciliare Nostra Aetate del 1965», ignora forse che è molto probabile che «i documenti emanati dal concilio Vaticano II, soprattutto la Lumen gentium e il Nostra Aetate», per l’appunto, «relativi al legame che unisce il popolo del Nuovo Testamento con la stirpe di Abramo furono, secondo anche il parere» del padre cattolico Drezza, «largamente ispirati dall’opera del buon rabbino» (Judith Cabaud, Il rabbino che si arrese a Cristo, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2002, p. 101)?
Anche sul fronte laico non ci si è preoccupati di fare chiarezza sul ruolo non solo religioso ma etico e civile che Zolli svolse in difesa della comunità ebraica romana negli anni più gravi e cruciali della sua storia. E’ significativo che Renzo De Felice, uno degli storici contemporanei più acuti e spregiudicati, abbia completamente disconosciuto la presenza e l’opera di Zolli nella sua pur pregevole Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1961. Ma lo stesso silenzio della comunità cattolica non è che sia molto più comprensibile. Perché se, da una parte, si intuisce che il caso Zolli potesse e possa procurare un qualche disagio ai cattolici odierni che giustamente si guardano dal farne un uso strumentale e bassamente propagandistico o apologetico, dall’altra non è né ragionevole né giusto che essi si limitino a chiedere perdono agli ebrei per propri trascorsi presuntivamente o realmente deplorevoli continuando a tacere non solo su una delle figure più luminose della fede cattolica contemporanea ma su una delle personalità più insigni della cultura religiosa ebraica del novecento.
Zolli è autore di notevoli opere di esegesi biblica come Israel, Studi storico-religiosi del 1935, Il Nazareno del 1938 e Christus del 1946, Antisemitismo del 1945, il Salterio del 1951, I salmi e l’ebraismo del 1953, Guida all’Antico e Nuovo Testamento del 1956. Non è pensabile che uno studioso di tale fatta, che fu anche professore universitario dell’università di Padova sino al ’38, meriti di essere ancora tenuto nell’oblio degli uomini e delle generazioni, anche se a dire il vero un omaggio gli è stato reso recentemente dall’Osservatore Romano. Zolli resta un esempio paradigmatico di quelli che dovrebbero essere i rapporti tra ebraismo e cristianesimo, nel senso che, per entrare nella Chiesa, non si deve per forza disconoscere la Sinagoga: non spiritualmente in senso lato, ma certo storicamente e teologicamente il cristianesimo presuppone la Sinagoga, come la Sinagoga promette ed implica il cristianesimo.
La Chiesa di Cristo è un coerente e sobrio prolungamento della Sinagoga ebraica. Secondo la tradizione talmudica, «il sale è sempre associato alla virtù della saggezza». E, quando Gesù dice ai suoi discepoli «voi siete il sale della terra» (Mt 5, 13), intende sottolineare che la loro missione «è quella di purificare la terra e di rigenerarla con la loro sapienza». E quando poi dice loro che devono essere come il sale che dà sapore, intende evidenziare, in un senso spirituale prettamente ebraico, «la grandezza della loro missione: una rinnovata coscienza del mondo» (J. Cabaud, Il rabbino che si arrese a Cristo, cit., p. 50).
Zolli è una mirabile conferma del fatto che l’incontro tra religioni diverse è possibile solo se vi sia uno sforzo reale e congiunto di tendere alla verità oggettiva, sia pure nei limiti di una ricerca che è sempre necessariamente soggettiva ed intersoggettiva; egli è stato testimonianza vivente del fatto che tra ebraismo e cristianesimo sussiste un rapporto di continuità, sebbene nella diversificazione di temi comuni ad entrambi, e non quella totale rottura sostenuta dalle autorità religiose ebraiche anche per poter rivendicare la superiorità gerarchica della Sinagoga sulla Chiesa cristiana e cattolica.
Eugenio Zolli consacrò tutta la sua vita, e ben prima naturalmente della “conversione ultima”, alla preghiera e allo studio, approfondendo il nesso tra i due testamenti e conservando per lungo tempo in perfetta buona fede la convinzione che si potesse rimanere ebrei pur credendo che Gesù fosse proprio il Messia annunciato dalle antiche scritture ebraiche. Non volle convertirsi, per comprensibili motivi etici, sino alla fine della guerra e delle persecuzioni, ma egli, nella decisione di seguire Cristo, non si sentì mai finito o rinnegato come ebreo ma al contrario si sentì un ebreo profondamente coerente e realizzato. A lui apparve sempre chiaro che, ai fini di un vero dialogo tra le religioni, il problema non dovesse mai essere quello di una loro assimilazione e di una loro integrazione necessariamente fittizia ma quello di combattere l’ignoranza e l’errore. Ma i suoi correligionari non gli hanno evidentemente perdonato né allora né oggi proprio la franchezza con la quale, prendendo bene per tempo le distanze dalle simpatie politiche che le principali autorità della sua comunità avevano inequivocabilmente per il governo fascista, non volle condividerne le pesanti responsabilità storiche per dare invece atto con coraggio alla Chiesa tanto vituperata di Pio XII di essersi impegnata a più riprese a favore del popolo ebraico.
Quale che sia la complessiva verità storica al riguardo, non c’è motivo di dubitare della legittimità della percezione personale di Zolli, e ci si deve chiedere piuttosto perché ancora non esista un soddisfacente studio storico sul rapporto a più livelli fortemente compromissorio che gli ebrei romani e italiani ebbero con il fascismo sino al momento in cui la situazione sarebbe precipitata a loro danno. Quando un simile studio verrà scritto e pubblicato si potrà capire con quale impegno Zolli avrebbe tentato, quale capo della comunità ebraica, di disperdere (anche con la distruzione dell’elenco degli iscritti alla Sinagoga) e rendere meno soggetti ai controlli nazisti gli ebrei romani per salvare loro la vita. Né si può dimenticare che egli, in quanto ormai ebreo e cristiano, tra il 45 e il 56 avrebbe chiesto, non per ragioni politiche ma per disinteressate ragioni spirituali, che «la Chiesa sconfessasse il nazionalismo e i regimi totalitari con i quali era venuta a patti tra il 21 e il 45» [ Presentazione di Enrico de Bernart in E. Zolli, Prima dell’alba (Autobiografia autorizzata), 1954, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2004, pp. 10-11].
Zolli servì dunque con intelligenza e dedizione il suo popolo sotto l’aspetto civile, cosí come ne fu sempre degno dal punto di vista religioso. Infatti, come ha notato giustamente Vittorio Messori, la sua “conversione” può e deve essere intesa come un “approdo”, «come il riconoscimento che, studiando senza pregiudizi la Scrittura, proprio un ebreo può riconoscere in Gesù il Messia annunciato dai suoi antichi profeti» e scoprire cosí che «non vi è frattura…tra giudaismo e cattolicesimo, ma profonda continuità» (Prefazione a J. Cabaud, Il rabbino che si arrese a Cristo, cit., p. 9 e p. 10). Al tempo stesso, cristiani e cattolici non possono essere indifferenti al «percorso di uno dei maggiori biblisti ebrei del secolo, condotto irresistibilmente dai suoi studi a riconoscere la verità della lettura cristiana dell’Antico Testamento» (Ivi, p. 10).
Sempre a Roma, nel 1842, un altro ebreo, Alfonso Ratisbonne, sino ad allora molto ostile al cristianesimo, si era convertito, come lui stesso racconta, a seguito di un’esperienza mistica imprevista e traumatica (l’apparizione della Vergine nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte), intraprendendo subito dopo la vita sacerdotale. Una misteriosa visione del Cristo, di cui parla Zolli, avrebbe indotto quest’ultimo a chiedere il battesimo cattolico, ma, diversamente da quanto accaduto per Ratisbonne, l’esperienza mistica di Yom Kippur (il giorno del digiuno ebraico per il perdono dei peccati e il giorno, appunto, in cui Zolli riferisce di aver visto il Cristo), fu per lui «il punto di arrivo di una ricerca condotta sulla Scrittura, di una riflessione approfondita, dell’impegno di un erudito universitario» (Ivi, pp. 10-11). Egli avrebbe amato Cristo già in quanto ebreo e non solo in quanto cristiano. Ed è proprio la lunga e approfondita ricerca spirituale zolliana a costituire la lectio religiosa più interessante per la stessa fede cristiana e cattolica che ha senso solo se è costantemente alimentata da una ricerca inesausta del senso della Parola di Dio e da uno sforzo di obbedienza alla sua volontà.
Nell’itinerario spirituale di Zolli trova espressione l’anima migliore di Israele, quell’anima che «non è portata verso l’indagine minuta, verso l’esame critico-analitico caratteristico per lo scienziato e il filosofo, ma si protende disperatamente verso la comprensione dell’assieme, verso la penetrazione del grande mistero della vita in tutta la sua tremenda, in tutta la sua grandiosa, terribile maestosità. Iddio chiama colui che da gran tempo lo cerca, lo invoca e l’uomo risponde: “Eccomi!”» (E. Zolli, Prima dell’alba, cit., p. 113). E, grazie a quell’anima, tutti gli uomini del mondo, indipendentemente dalla loro cultura di appartenenza, possono e potranno sempre imparare in che modo la vera religiosità sia impegnativa ricerca di Dio (Ivi, pp. 116-117). Il rabbino Zolli capisce che «l’obbedienza alla Legge, il compimento dei riti, offre all’uomo un dono pericoloso, cioè il senso dell’autosufficienza. Nell’amore per Dio va infiltrandosi l’amore per la Legge. La quale è Dio, ma non è Iddio, allo stesso modo in cui l’opera d’arte è l’espressione del genio dell’artista, senza essere l’artista medesimo» (Ivi, p. 118). «La Legge insegna, cioè segna la via; in quanto al percorrere la via, bisogna farlo per impulso proprio. Conoscere significa amare e si ama col cuore e non attraverso le nozioni che provengono dal di fuori» (Ivi, p. 119). Sul significato del “conoscere” si legge un’interessante annotazione di Zolli: il «termine ebraico che esprime l’azione di conoscere si rende con il verbo jada‘. Tuttavia questo verbo in ebraico ha come significato più proprio il conoscere in senso profondo e complessivo, che implica l’interiorità al pari della corporeità, e quindi per accezione l’azione di amare, anche nel senso dell’intimità sessuale (Ivi).
Dio più si ama più si conosce, più si conosce più si ama. E’ il Signore stesso che dona all’uomo un cuore, «ciò che per l’Antico Oriente significa intelletto, intelligenza, capacità affettiva, volontà, per comprenderLo e per seguire le Sue vie e per adempiere i Suoi precetti. Comprendere per amare. E san Giovanni? Amare per comprendere» (Ivi, p. 164). L’uomo è un pellegrino di Dio e Dio gli dice: «Il tuo compito è il compito che io affido a tutte le anime, è quello di andare lontano, di seminare dapperttutto sapienza e carità» (Ivi, p. 133). Con sapienza e carità si può altresí comprendere che «le Legge offre soltanto la conoscenza, la conoscenza teorica del peccato; ma non difende dal peccato. La Legge si risolve cosí in un atto conoscitivo, senza produrre giustificazione davanti a Dio…Non valgono neppure le opere della legge…Perché le opere della legge non sono che la legge tradotta freddamente, senza la cooperazione del cuore» (Ivi, p. 180). Con sapienza e carità si può e si deve capire che «chi vive della fede nelle opere attende la mercede per le opere. Chi vive di fede spera, attende cioè tutto non già dalle opere compiute (con ciò non si annullano le opere perché una fede senza opere è una primavera senza fiori, un autunno senza frutti) ma dalla grazia di Dio. Opera chi non spera, ma attende la mercede; opera pure chi non attribuendo valore alle opere proprie, pur tuttavia spera; attende pur egli, ma attende la Grazia di Dio» (Ivi, p. 181).
Non è che la «Legge, e in particolare il Deuteronomio», sia «priva di grazia e verità, né la Grazia e la Verità rinnegano la Legge. Il Vangelo è un potenziamento della Legge e della Verità a mezzo della Grazia. La Grazia arricchisce, accresce; non toglie, non annulla. La conversione è un atto di grazia di Dio e allo spirare dello Spirito Santo della Grazia, si compie ogni conversione onesta…Giunta l’ora della grazia», scrive candidamente Zolli, «mi sono convertito» (Ivi, p. 260). Egli si converte al cristianesimo da ebreo per rimanere ebreo, anzi per diventarlo pienamente in Cristo. Da ebreo può ora accostarsi a quella Cena Eucaristica di cui tratta scrupolosamente la Dottrina dei dodici apostoli (Didaché), libro della fine del I° o del II° secolo d.C. e libro «sinceramente ebraico» che rappresenta «il rituale ebraico dell’Eucaristia» (Ivi, p. 188), caratterizzato da un invito iniziale «fatto in aramaico: chiunque abbia fame, venga e mangi» dopo essersi liberato dei propri peccati per rendere puro il proprio «sacrificio» (Ivi, pp. 190-191).
Chi, partecipando a quella santa Cena, è ricco dell’amore di Dio, lo dia anche agli altri, non lo tenga per sé; se Dio ci ama molto, è perché vuole che noi doniamo questo amore a chi ne ha di meno: quindi mangiamo il pane e beviamo il vino della Cena Eucaristica, ma essendo pronti a dare del nostro pane e del nostro vino a chi ne è ancora privo. Imitiamo san Francesco d’Assisi, che «in pieno inverno si leva il mantello per offrirlo al povero che trema. Al compagno che vorrebbe opporsi, il santo fa comprendere che la proprietà è un…furto. Non è la proprietà di cui uno si trova in possesso, come fu insegnato in tempi a noi vicini, a costituire un furto, ma la proprietà che non viene adoperata, spontaneamente, per obbedienza alla voce del cuore, per lenire le sofferenze altrui» (Ivi, p. 250).
Non c’è modo migliore di concludere che usare le parole di Cabaud: «con la vita e l’esempio, Eugenio Zolli lancia un invito sia ai cristiani che agli ebrei; i cattolici, “semiti secondo lo spirito”, dovrebbero sentirsi stimolati dalla sua esperienza a studiare e capire la missione affidata da Dio alla Chiesa. In altri termini, devono accettare pienamente la religione di Cristo tenendo conto della sua radice ebraica. Per gli ebrei, il popolo testimone di Dio fra gli uomini, la vita di Eugenio Zolli dovrebbe essere un punto di partenza, un invito al superamento di sé e anche al superamento della Legge, diventata per loro uno schermo davanti agli occhi della fede. Non si tratta di un rinnegamento del Dio d’Israele, ma, al contrario, di un compimento della promessa fatta ai padri dell’Antica Alleanza. Cosí la fedeltà di Israele a Dio, unico e trino, supera la terra, la nazione, la razza e tutte le idolatrie del tempo presente» (Il rabbino che si arrese a Cristo, cit., p. 108).
(articolo aggiornato ma pubblicato in “Bucinator”, 7, 2005)