L'ebraismo non è un affare
L’ebraismo è sempre più frequentemente una parola con cui si tende a qualificare quel rutilante e variopinto mondo di iniziative editoriali, mostre fotografiche, musei da restaurare, seminari e convegni nel corso dei quali la condanna reiterata della terribile banalità del male tende a coincidere con una giustificazione di nuove forme di violenza e di un rinnovato e più sottile spirito di sterminio. In questo modo l’ebraismo, in quanto si tenti di farlo rivivere essenzialmente in quanto evocazione storica e teorica di olocausto e discriminazione, non solo rinnega e tradisce le proprie nobili origini spirituali ma diventa persino una cosa oscena –
Confesso di non sapere se sia mai stata scritta una storia radicalmente obiettiva e spregiudicata degli ebrei dalle origini ad oggi. Ma, nel caso in cui già questa storia esista, sono sicura, e non necessariamente a causa di un preconcetto antiebraico, che, accanto alla narrazione delle terribili persecuzioni e delle reiterate discriminazioni subite dal popolo ebraico, in essa si trovi anche una scrupolosa descrizione dei pregiudizi di questo popolo e degli errori anche disumani da esso commessi. Solo per venire alle cose che in genere interessano maggiormente il grande pubblico, non sarebbe per esempio possibile, in questa ipotetica storia, respingere come illegittima una recente ricerca storica volta a dimostrare che gli ebrei non furono solo tra le vittime ma anche, in una certa misura, tra i carnefici o tra i complici dei carnefici del nazismo e dell’olocausto. Alludo ad uno studio abbastanza ponderoso di Bryan Mark Rigg, I soldati ebrei di Hitler, Roma, Newton&Compton, 2004, in cui si «esplora il fenomeno storico degli ebrei e delle persone di parziale origine ebraica, chiamati “ebrei Mischlinge”…che combatterono nelle forze armate tedesche durante la seconda guerra mondiale» e si sostiene che «decine di migliaia di uomini di origine ebrea prestarono servizio militare nella Wehrmacht durante il regime di Hitler. Sebbene non possa essere determinato con esattezza il numero di Mischlinge che combattè per la Germania durante la seconda guerra mondiale, una sua stima si aggira intorno alle 150.000 unità» (Ivi, p. 11).
Questo dato, fondato su atti e documenti politici, militari e amministrativi incontestabili, «è tanto sorprendente quanto importante per quello che dice riguardo a come fosse considerata, costruita e contestata l’identità ebraica da parte dei cittadini tedeschi, dai leader nazisti, dai comandanti militari e dalla comunità ebraica all’interno dei confini della Germania, e per quello che ci dice su come queste convinzioni e questi atteggiamenti salvarono alcuni, condannando invece altri ai campi di concentramento» (Ivi, pp. 11-12). Si legge ancora testualmente: «In modo ancora più sorprendente, questa ricerca dimostra che Hitler ricoprì un ruolo diretto nel permettere ai Mischlinge di prestare il servizio nella Wehrmacht. Egli permise anche ad alcuni di loro di diventare ufficiali di alto rango. Generali, ammiragli, colonnelli, piloti di aerei da combattimento e molti soldati semplici prestarono il servizio militare con la personale approvazione di Hitler» (Ivi, pp. 12-13).
Dunque, questi ebrei, nati da madre ebrea o i cui bisnonni fossero ebrei, prestarono il loro servizio nell’esercito dello Stato nazista. E non di malavoglia ma, nella stragrande maggioranza dei casi, con il desiderio di servire lealmente il nazismo. Anzi, non infrequenti risultano i casi di persone “mezze ebree”, di “sangue misto”, che avvertono un profondo fastidio per la loro origine e la cui identità ebraica procura loro un forte disagio all’interno della società tedesca: «le leggi razziali costrinsero i Mischlinge a cambiare drasticamente il proprio stile di vita, portandone molti a vivere senza fiducia in se stessi (Ivi, p. 48), e perciò essi fecero anche di tutto per «essere considerati ariani» e per essere quindi «reputati normali» (Ivi, p. 52). E’ altresì vero che la maggior parte dei Mischlinge «non era a conoscenza dello sterminio sistematico di milioni di ebrei», cioè «non era consapevole della reale entità dell’Olocausto» (Ivi, p. 14), anche se non c’è dubbio che in tutti i paesi europei occidentali vi furono ebrei che si misero contro altri ebrei per salvare la vita (cfr., per esempio, Z. Bauman, Modernità e olocausto, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 181-188).
D’altra parte, ammesso che gli ebrei di “sangue misto” fossero stati informati di quanto accadeva nei campi di sterminio, come si sarebbero comportati? Avrebbero forse smesso di collaborare col nazismo o sarebbero diventati collaborazionisti delle forze angloamericane e magari comuniste? Avrebbero raggiunto volontariamente i propri connazionali e correligionari nei campi tedeschi di concentramento? Come mai un grande studioso di cose ebraiche come Riccardo Calimani interrompe la sua storia degli ebrei, per molti versi precisa ed esaustiva, ai primi due decenni del novecento, dopo aver dato alla sua opera in modo un po’ equivoco il seguente sottotitolo: Dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme al Novecento (Storia dell’ebreo errante, Milano, Mondadori, 2002-2003), e più esattamente dopo aver fatto riferimento al novecento per escluderlo dalla trattazione e non, come sarebbe stato naturale aspettarsi, per includerlo in essa?
Si può porre una domanda di carattere più generale: gli ebrei sarebbero stati in quel frangente della loro storia complessivamente migliori o peggiori di tutti gli altri tedeschi, gli ebrei sono diversi da tutti gli altri uomini del mondo o sono esattamente eguali a loro? Una volta l’umanità europea ha ucciso o ha lasciato morire gli ebrei, ma è lecito far vivere gli ebrei di oggi tenendo l’umanità europea sotto un permanente giudizio di condanna e di biasimo? Qual è stato il ruolo effettivo degli ebrei negli Stati dittatoriali e totalitari di tutta Europa prima della loro emarginazione e persecuzione? E se anche il loro ruolo fosse stato esemplare, qual è il risarcimento morale e politico che oggi si può continuare a pretendere per gli ebrei di questo tempo e in particolare per gli ebrei dello Stato di Israele?
Non è vero che bisogna distinguere doverosamente tra quegli ebrei che, tenendo sul petto il Talmud, «perfino nei momenti estremi della Shoah, riuscirono a mantenere intatta la loro integrità morale, e seguendo l’halachah rifiutarono qualsiasi collaborazione con i loro oppressori» rendendo «testimonianza del proprio Dio e della propria fede» e quegli altri ebrei che furono assai meno risoluti, per cui alla fine molti «furono vittime, ma non tutti furono martiri» (N. Solomon, Ebraismo, Torino, Einaudi, 1999, p. 113)? Che cosa possiamo e dobbiamo fare veramente perché quella tragedia della famiglia umana oltre che della famiglia ebraica non si riveli un semplice precedente di una catena di olocausti nel quadro della storia contemporanea dell’umanità? Dobbiamo metterci, vogliamo metterci o rimetterci tutti responsabilmente in cammino non accanto agli ebrei ma tra gli ebrei, in mezzo agli ebrei, mescolandoci con essi, confondendoci con essi, fratelli non solo con essi ma fra essi, anche tenendo conto del fatto che in «un mondo che vuole e deve sopravvivere c’è bisogno di tanti uomini erranti, non profughi nel mondo, ma dotati di una nuova qualità, l’erraticità dell’animo e del pensiero» (Ivi, p. 475).
L’Olocausto nazista c’è stato, e ormai solo i ciechi e i sordi non lo sanno o non lo riconoscono compiutamente. Ma la vera lezione che se ne può trarre non dipende dalla capacità di ristabilire questo tragico evento «come un oggetto di indagine razionale», definitivamente sottratta ad eccessive pressioni emotive e soprattutto ad assai cospicui interessi economici e politici? (N. G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Milano, Rizzoli, 2002, p. 223 e sgg. ). Si può ancora ragionevolmente sostenere l’unicità assoluta di un evento come l’Olocausto, il suo essere culmine dell’odio viscerale ed eterno di tutta l’umanità verso gli ebrei? Si può identificare l’Olocausto con «il male assoluto» o non sarà più veritiera e saggia la sua identificazione, per riprendere l’analisi di Hannah Arendt (La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 1964), con la banalità di un male commesso da uomini assolutamente comuni e, per dirla con Primo Levi, mediamente intelligenti e mediamente malvagi? Insomma, ciò che è avvenuto non può avvenire di nuovo? Anzi, siamo proprio sicuri che nel frattempo non sia già accaduto, benché pochi se ne siano accorti?
D’altra parte, a volerla dire tutta, ma senza astio polemico, quante volte gli ebrei, al di qua e al di là dell’Olocausto, hanno costituito nel novecento un fulgido esempio di altruismo e di abnegazione? Non è vero, per esempio, che nel ghetto di Varsavia, mentre la comunità ebraica resisteva alla repressione nazista, i tedeschi sarebbero riusciti ad ottenere la collaborazione di elementi ebraici, e che pertanto «gli ebrei avrebbero condotto alla morte altri ebrei» (Finkelstein, cit., p. 222)?
Non si intende svuotare di senso l’Olocausto ma liberarlo dai suoi sensi deteriori e mistificanti. Purtroppo, c’è l’Olocausto e c’è l’industria dell’Olocausto, vale a dire il suo sfruttamento economico e finanziario, ideologico e politico, accademico ed editoriale. Uno dei motivi ispiratori più abietti di questa struttura elefantiaca e capillare dell’industria dell’Olocausto è che quest’ultimo possa essere usato «per giustificare la politica criminale dello Stato d’Israele e il sostegno americano a tale politica» (Ivi, p. 15), è che possa essere strumentalizzato «per proteggere Israele dalle critiche e, in epoca più recente, per ricattare l’Europa» (Ivi, p. 259). Finkelstein non riesce a trattenere il suo sdegno: «Troppe risorse pubbliche e private sono state investite nella commemorazione del genocidio e gran parte di questa produzione è indegna, un tributo non alla sofferenza degli ebrei, ma all’accrescimento del loro prestigio. E’ da tempo che dobbiamo aprire il nostro cuore alle altre sofferenze dell’umanità: questa è la lezione più importante impartitami da mia madre…Di fronte alle sofferenze degli afroamericani, dei vietnamiti e dei palestinesi, il credo di mia madre fu sempre: siamo tutti vittime dell’Olocausto» (Ivi, pp. 15-16). Bisogna capire, bisogna capire, bisogna capire: senza odio e senza demagogia. Solo cosí l’Olocausto, per ebrei e non ebrei, non prestandosi ad essere più fonte di speculazione e di profitto per nessuno, riacquista la sua sacralità, il suo preciso senso umano e religioso.
Uno dei maggiori sociologi contemporanei, vale a dire Zygmunt Bauman, che è di origini ebraico-polacche, dopo aver decisamente negato che l’Olocausto possa considerarsi «semplicemente un problema ebraico» o un semplice «evento della storia ebraica», ha lamentato con precisa cognizione di causa che il «messaggio che l’Olocausto contiene sul nostro modo di vivere oggi – sulla qualità delle istituzioni a cui affidiamo la nostra sicurezza, sulla validità dei criteri con cui giudichiamo la correttezza della nostra condotta e dei modelli di interazione che accettiamo e consideriamo normali – viene messo a tacere, resta inascoltato e non arriva a destinazione. Esso viene sí decifrato dagli specialisti e discusso nel circuito delle conferenze, ma difficilmente giunge a farsi sentire altrove e rimane un mistero per tutti i non iniziati. A tutt’oggi non è entrato a far parte della coscienza contemporanea (in ogni caso non in modo serio). E, quel che è peggio, non ha ancora inciso sul nostro modo di agire» (Z. Bauman, Modernità e olocausto, cit., p. 11 e p. 13).
E cosí questo sociologo ha concluso la sua pregevole indagine: «Il significato attuale dell’Olocausto è dato dalla lezione che esso contiene per l’intera umanità. La lezione dell’Olocausto sta nella facilità con cui la maggior parte degli individui…prende le distanze dalla questione del dovere morale…adottando invece i precetti dell’interesse razionale e dell’autoconservazione. In un sistema in cui la razionalità e l’etica spingono in due direzioni diverse, l’umanità subisce i danni maggiori. Il male può svolgere il suo sporco lavoro, sperando che la maggior parte degli individui si astenga dal compiere gesti avventati ed imprudenti; e resistere al male è avventato e imprudente…C’è poi un’altra lezione che troviamo nell’Olocausto, e di non minore importanza. Se la prima lezione contiene un avvertimento, la seconda offre una speranza; è la seconda che rende la prima meritevole di essere ribadita. La seconda lezione ci dice che non è affatto scontato o inevitabile porre l’autoconservazione al di sopra del dovere morale. Si possono subire pressioni in questo senso, ma non si può essere costretti a farlo, e di conseguenza non si possono scaricare le proprie responsabilità su coloro che esercitano le pressioni. Non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalità dell’autoconservazione, ciò che importa è che qualcuno l’abbia fatto. Il male non è onnipotente. E’ possibile resistergli. La testimonianza di coloro che effettivamente gli hanno opposto resistenza scuote la validità della logica dell’autoconservazione. Mostra ciò che essa è, in ultima analisi: una scelta. Ci chiediamo quante persone debbano sfidare questa logica affinché il male sia ridotto all’impotenza. Esiste una soglia magica di resistenza al di là della quale la tecnologia del male cessa di funzionare?» (Ivi, pp. 279-280). Di questa duplice lezione, che è, almeno in una certa misura, singolarmente in linea con un’impostazione cristianamente ispirata, è sperabile che ognuno di noi, non escluso Israele, si avvalga proficuamente.
(articolo aggiornato ma pubblicato in “Bucinator” , 7, 2005)