Il giudizio degli ebrei sui cristiani

Scritto da Luigi Lucisani.

 

Il Talmud è l’insegnamento orale che gli ebrei si sono tramandati, in rapporto all’istanza di una sempre più approfondita comprensione della parola di Dio, di generazione in generazione da Mosé sino alla conquista romana e tale insegnamento, che consiste essenzialmente in una meticolosa interpretazione dei contenuti della Toràh o insegnamenti scritti e codificati, venne posto in forma scritta solo a partire dal momento in cui gli ebrei percepirono nel 70 d.C., con la distruzione romana di Gerusalemme e del secondo tempio che vi era stato costruito, il concreto pericolo che la religiosità stessa di Israele potesse estinguersi.

E poiché nella tradizione ebraica la Toràh scritta (coincidente con i primi cinque libri della nostra bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) non può essere applicata senza l’apporto di quella orale, ovvero senza il Talmud, ci si rende facilmente conto dell’importanza centrale che quest’ultimo riveste all’interno della vita e della cultura ebraiche. Ora, chi voglia sapere quale sia esattamente il giudizio che, al di là di una consolidata prassi diplomatica o di pura convenienza, gli ebrei esprimono sui cristiani, trova la sua principale fonte proprio nel Talmud. Il quale è vero che ospita una massa enorme di interpretazioni, di discussioni sempre aperte al confronto e al dubbio e alla stessa confutazione, per cui effettivamente il pensiero ebraico si caratterizza per la sua continua crescita e la sua estrema mobilità, donde anche l’illegittimità della tendenza ad assolutizzare certe posizioni pure frequentemente ripetute o ribadite nel quadro di tale mobilissimo processo di crescita, ma non si può certo ritenere che in determinate convinzioni che siano costantemente e pervicacemente affermate nella tradizione talmudica non si possa correttamente individuare un significativo indicatore delle tendenze mentali e spirituali di un popolo e, nella fattispecie, del giudizio del popolo ebraico sui cristiani.

Perciò anche se si vuole accreditare la critica ebraica di incompetenza e di antisemitismo viscerale che è stata rivolta all’opera del 1892 di monsignor Iustinus Bonaventura Pranaitis intitolata Christianus in Talmude iudaeorum sive rabbinicae doctrinae de christianis secreta, non si può tuttavia non procedere ad un’indagine priva di pregiudizio ma volta ad accertare seriamente se vi sia nel Talmud un’opposizione anticristiana sostanzialmente occasionale o contingente (dovuta cioè solo a motivi e a situazioni storiche particolari come lo spirito discriminante e ghettizzante di certo cattolicesimo gerarchico o la paura dell’ebreo di essere sottoposto a veri e propri processi di annientamento) oppure strutturalmente radicata nel pensiero e nel costume ebraici e tale da non potersi giudicare, almeno a breve termine, come suscettibile di apprezzabili cambiamenti.

E questa indagine la si può utilmente svolgere attraverso le parole stesse di un autorevole esponente della fede ebraica quale il rabbino Giuseppe Laras, il quale, nel corso di un suo intervento presso la pontificia università Gregoriana del 9 novembre del 2004, si richiamava alla posizione di un celebre maestro provenzale ebreo del XIII-XIV secolo, il Rabbi Menachem ben Shelomò ha-Meiri, il quale riteneva che «il cristianesimo non abbia nulla a che fare con l’idolatria», contrariamente a quanto sostenuto da altri maestri ebrei, «e che i divieti elencati nel Talmud a proposito degli idolatri non concernano i cristiani», perché essi, anche se a volte giurano nel nome di personaggi importanti defunti quali sono i santi, tuttavia non li considerano divinità per cui non c’è idolatria. Certo i cristiani su alcuni punti commettono errori nell’ottica della fede ebraica, come quando mettono a repentaglio la concezione monoteistica di Dio parlando di santissima trinità, ma nonostante ciò non si possono definire idolatri. Tuttavia, era costretto ad ammettere il rabbino Laras, per quanto «notevole ed autorevole», questo giudizio appare «piuttosto isolato» tra quelli dei numerosi rabbini che si sono espressi sulla religione cristiana e cattolica.

Ma, continua Laras, all’interno di «un simile contesto tormentato, di posizioni e pensieri contraddittori, orientati ora verso un giudizio moderato ora verso un giudizio critico nei confronti della religione cristiana», l’opinione ambivalente di Maimonide, che è negativa sul piano teologico ma molto positiva nella prospettiva messianica, «sembra essere il pronunciamento più chiaro e più netto sul coinvolgimento del cristianesimo in un ruolo provvidenziale di tipo messianico-universale. E quest’opinione continua a rappresentare una pietra miliare nel cammino che cristianesimo ed ebraismo percorrono insieme», anche se «lungo piani paralleli e distinti». Traduciamo: la parte più illuminata, più ragionevole e rappresentativa dell’ebraismo è quella che continua a ritenere la fede cristiana e i suoi corollari un errore e che tuttavia individua nel cristianesimo un fattore importante della dinamica storico-salvifica che porterà un giorno all’avvento del Messia nel mondo. Ecco: proprio questa posizione sarebbe «una pietra miliare nel cammino che cristianesimo ed ebraismo percorrono insieme» anche se su vie parallele e distinte. Capite? Agli ebrei della fede cristiana in quanto tale, degli insegnamenti di Gesù, non importa nulla, oggi come ieri, oggi non meno di duemila anni or sono; essi trovano interesse solo per un cristianesimo storicamente comprimario dell’ebraismo nel quadro di quello che sarà il manifestarsi di Dio secondo beninteso il messianismo ebraico che continua a disconoscere Cristo come messia e signore dell’universo. Il cammino sarà comune ma su strade “parallele e distinte”. Come può un cammino essere comune se si deve svolgere per forza su vie parallele, cioè destinate a non incontrarsi mai, e distinte, cioè destinate a non unificarsi mai?

Cari amici ebrei, non è davvero questo il nostro compito: quello di parlare con voi, di dialogare con voi, solo per un bisogno quietistico nostro e della comunità cattolica, solo perché voi possiate sentirvi incoraggiati a perseverare nella vostra acritica fede in Dio e continuiate quindi a credere imperterriti in un Dio che ancora deve venire a liberarci e a salvarci, e solo perché magari nel frattempo, con il concorso cristiano, veniate acquisendo sempre maggiore visibilità storico-politica. Può darsi che umanamente e moralmente siate migliori di noi (anche se noi cristiani non siamo una realtà omogenea e indifferenziata come talvolta si crede): non lo so, un giorno lo sapremo; ma la consapevolezza dei nostri difetti e dei nostri limiti non ci impedisce e non ci deve impedire di proclamare anche in mezzo a voi che il regno di Dio è il regno di Cristo e che al di fuori di quest’ultimo regno non ci sono altri possibili regni divini. Possiamo incontrarci, possiamo discutere di pace, di giustizia, di libertà, se lo desiderate, con voi come con tutti gli altri uomini che desiderino onestamente perseguire questi valori, ma noi non potremo non annunciarvi quotidianamente che Cristo-Dio è venuto per salvare tutti i suoi figli dal peccato e dalla morte e che voi potrete incontrare Dio, conoscerlo perfettamente e vivere per sempre con lui, solo se o quando direte “benedetto colui che viene nel nome del Signore”.

Cerchiamo di capirci una volta per tutte senza finzioni: non dovete cercare il dialogo con la Chiesa cattolica per fini strumentali, cosí come anche la nostra Chiesa auspichiamo francamente non ceda alla tentazione di perseguire più fini mondani non dichiarati che fini extramondani continuamente ribaditi sul piano dottrinale. Non dovete indispettirvi se noi preghiamo per voi, per la vostra conversione e per la vostra salvezza. Noi preghiamo per la nostra continua conversione, perché non dovremmo pregare anche per la vostra? Cercate di non fare torto né alla vostra intelligenza né alla vostra fede e a quella dei vostri padri che vi fa obbligo di convertirvi incessantemente e che vi spinge a conoscere Dio là dove voi potreste anche non essere disposti a conoscerlo.

Per tutto questo noi non possiamo concedere che i frutti del cosiddetto dialogo interreligioso non possano arrivare presto ma anzi richiedano tempi lenti e lunghi. Mi dispiace per alcuni fratelli cardinali che, pur dotati di intelligenza acuta e sottile, troppo spesso indulgono a concetti generici e fumosi di questo tipo, ma altro è la pazienza evangelica, altro è l’attendismo vile o opportunistico che è funzionale semplicemente al conseguimento di benefici temporali peraltro non necessariamente di lunga durata, altro ancora l’enfatico intellettualismo religioso e teologico sterilmente dedito a disegnare scenari escatologici completamente sganciati dalla logica evangelica dell’agire hic et nunc. La pacificazione come termine di un lungo e difficile processo di confronto storico è certo possibile e comprensibile; ma noi, ognuno di noi ha avuto mandato da Gesù di pacificare e pacificarsi con il suo prossimo oggi nel suo nome, di amarvi oggi in virtù del suo sacrificio perenne anche se non lo amate e non ci amate, pregando e pregandovi oggi di credere in lui Signore e Giudice di tutta l’umanità. Noi non possiamo assecondare i tempi lunghi della storia perché il regno di Dio va testimoniato e costruito oggi hic et nunc sebbene i nostri sforzi possano apparire inutili o addirittura dannosi. 

Vogliamo fare «un cammino di amicizia e di riconciliazione», vogliamo metterci insieme «per realizzare iniziative concrete di carità, di servizio, di giustizia e di pace», vogliamo aiutarci reciprocamente per aiutare tutti gli esseri umani e tutti i popoli della terra, secondo quanto auspica il cardinale Martini? Noi vogliamo farlo nel nome di Gesù Cristo, senza vergognarci di lui e chiedendovi di non serbare i vostri sputi spirituali né per lui né per la sua santissima madre né per i suoi odierni rappresentanti in terra santa; senza temere la vostra ira o il vostro disappunto solo perché vi riteniamo responsabili di reiterato genocidio in Palestina e di aver troppo spesso trasformato la bibbia «da testo spirituale a ufficio del catasto inzuppato di sangue» (come ha scritto il vostro e nostro fratello ebreo Gilad Atzmon); senza indulgere a compromessi fasulli e ad attendismi di sorta solo per via delle sorti del rapporto bilaterale tra lo stato del Vaticano e lo stato d’Israele; e infine senza accettare trattative puerili circa la possibilità che mondo ebraico e mondo cristiano possano coesistere in pace e in spirito di verità. Noi vogliamo un amore generoso e flessibile ma generato dalla verità e non dall’ipocrisia. Costi quel che costi secondo la volontà del nostro Dio. E tu popolo d’Israele in questo modo sarai più libero di avere rapporti politici con il cosiddetto occidente cristiano senza che tu abbia più bisogno di fornire a questi rapporti una falsa copertura religiosa.