La cultura, la politica e la fede
A ridosso dello scorso ferragosto il “Corriere della Sera” ha ospitato alcuni interventi su un tema classico ma sempre attuale specialmente in periodi storici di pochezza culturale com’è quello che stiamo vivendo: quello del rapporto tra politica e cultura. Osservava preliminarmente e giustamente Ernesto Galli Della Loggia che la parola “cultura” «è una parola da adoperare sempre con estrema cautela dal momento che tra il pronunciarla e sciacquarsene con sussiego la bocca ce ne corre pochissimo»; tuttavia, egli aggiungeva, non c’è dubbio che ad «un qualsiasi rapporto tra la politica e la cultura il nostro Paese sembra aver rinunciato ormai da molto tempo. Vi hanno rinunciato con spensieratezza innanzitutto i partiti nuovi della cosiddetta Seconda Repubblica. Nessuno di loro mantiene più un centro studi, una rivista di qualche spessore, una fondazione, una casa editrice, uno straccio di istituzione culturale propria. Alcune di queste cose esistono, semmai, come emanazioni dirette di questo o quel leader, ma fin troppo strumentale ne risulta allora lo scopo: e cioè farsi una sorta di corrente personale, costruirsi una sede dove radunare il proprio seguito ristretto, e, usando quindi il tutto per cercare di assumere una caratura politica, darsi un’aria di pensoso statista, e partecipare con un apposito convegno ogni sei mesi, allo stucchevole dibattito che ci delizia da qualche lustro su “le riforme”, “il federalismo”, “la legge elettorale” o qualche altro appassionante argomento del genere» (Una politica senza cultura, in “Corriere della Sera, 9 agosto 2009).
Nei trascorsi decenni, aggiungeva Della Loggia, memori di quel che era stato il fascismo e del totale o quasi totale assorbimento della cultura nella politica fascista, né i partiti né i governi né i movimenti culturali ritennero generalmente che politica e cultura dovessero avere punti di contatto e ciò al fine di evitare i pasticci del passato. Bisogna precisare che, almeno nella cultura e nella stessa cultura politica italiana più avvertita e aggiornata, accademica e non, non mancò affatto la preoccupazione di spiegare come si potessero e dovessero coniugare in modo fecondo politica e cultura e come per cultura non si potesse e dovesse intendere qualcosa di «frigidamente conservativo-museale» ma proprio qualcosa «di vivo e attuale» (Ivi). Che poi, nonostante questo apprezzabile sforzo, che gli odierni intellettuali di solito non compiono più, «lo Stato e la politica», decidessero allora e continuino ancor più oggi a decidere «che nel campo della cultura tutto in Italia debba lentamente appassire tra micragna, grigiore burocratico, e un po’ di sottogoverno che non fa mai male» (Ivi), è certamente vero, ma solo nel senso che oggi, molto più di ieri, non solo “lo Stato e la politica” ma, in misura almeno uguale, anche l’università e le istituzioni ed il sapere accademici, nelle loro forme pubbliche e private, specialmente per ciò che attiene le cosiddette scienze umane etiche e religiose, non sono per niente in grado di alimentare una significativa attenzione e un reale interesse spirituale circa l’ineludibilità di un nesso tra politica e cultura, non genericamente e retoricamente dichiarato in linea di principio ma adeguatamente spiegato, motivato, vissuto e partecipato sul piano delle sue molteplici articolazioni pratico-esistenziali.
Anzi, per essere più chiari, se il livello culturale medio del nostro popolo è men che mediocre e la preparazione culturale della popolazione giovanile italiana è in moltissimi casi sciatta o incolore, non dovranno essere chiamate in causa principalmente scuola e università che, popolandosi di decennio in decennio di docenti più improvvisati ed ambiziosi che capaci e meritevoli, non hanno saputo far tesoro della loro “autonomia” trasmettendo sempre di meno vero sapere critico, formando ed educando in misura sempre più inadeguata e insignificante? Della grande cultura laica, magari anche un po’ “aristocratica” ma onesta, di un tempo, non sembra essere rimasta quasi più traccia nel mondo accademico e nel panorama culturale italiano, e la stessa valutazione deve darsi sulla cultura religiosa, che è piena anche nelle pontificie università di professori quasi sempre impegnati a proporre discorsi complicati e noiosi ma sostanzialmente priva di gente capace di coinvolgere mente e cuore di chi ascolta e di sollecitare ad un’appassionata e personale ricerca intellettuale e spirituale. Scuola e università statali da una parte, scuola (ivi compresi i seminari per la formazione del clero e gli istituti di scienze religiose) e università cattoliche dall’altra, reclamano da sempre e insistentemente per sé un aumento di finanziamenti, affinché possano espandere i loro spazi e la loro influenza nella società civile, anche se in realtà e più accentuatamente in ambito cattolico, i servizi formativi ed educativi offerti, tranne rare eccezioni, lasciano molto a desiderare.
Sono queste le osservazioni fatte parzialmente anche, per la parte che riguarda soprattutto la cultura laica, da Luigi Covatta, direttore di “Mondoperaio”, il quale però, rilevando che se proprio nell’attuale periodo di decadenza politica e culturale italiana, non si riesce a creare uno spazio adeguato «per il rifiorire della cultura politica…, la colpa non è solo degli intellettuali, distruttivi o costruttivi che siano, ma innanzitutto di un sistema politico il cui spirito costituente finora non è andato oltre l’escogitazione di espedienti di ingegneria elettorale, buoni per rinsaldare ulteriormente un oligopolio ma non per ridare un senso allo Stato ed alla sua capacità di rappresentare la comunità nazionale» (Se gli intellettuali non suonano il piffero, in “Il Corriere della Sera”, 10 agosto 2009), dove non si può negare che ci sia una parte di verità che però, a mio avviso, va integrata con le osservazioni e le critiche sino ad un certo punto pertinenti dell’onorevole Sandro Bondi, attuale ministro dei beni e delle attività culturali, il quale a Galli della Loggia che scrive “politica senza cultura”, senza idee, senza ideali, senz’anima in definitiva, risponde che è vero anche il contrario, vale a dire che “la cultura è senza politica”, nel senso che «l'atteggiamento degli intellettuali in questi ultimi sessant’anni è stato o di sudditanza oppure di fiera opposizione, quasi mai di comprensione e collaborazione. E una cultura incapace di farsi politica rischia di volgersi al velleitarismo o farsi inutile e pedante piagnisteo» (La cultura? Incapace di farsi politica rischia di diventare inutile piagnisteo, in “Il Corriere della Sera”, 10 agosto 2009).
Come non convenirne, benché il governo di cui Bondi fa parte sia sempre generosissimo verso le istanze cattoliche, spesso a prescindere dalla effettiva qualità dell’offerta formativa che attraverso di esse viene propagandata? Anche se, subito dopo, si scopre che, secondo Bondi, la sola cultura italiana capace oggi di “comprendere” e di “collaborare” sarebbe quella promossa dalle fondazioni politiche che fanno capo per lo più a politici di destra quali Fini, Brunetta, Frattini, Gelmini e via dicendo. Ecco: queste iniziative, sostiene Bondi, «sono espressioni della migliore cultura politica nel senso vero del termine, cioè think tank che danno un sostegno alla politica, criticano l’esistente, producono progetti per il futuro» (Ivi), il che francamente, per diversi motivi, a molti non sembra né vero né augurabile. Ma che gli intellettuali italiani in genere abbiano avuto e soprattutto abbiano il malvezzo di darsi arie di prime donne, sempre criticando o giustificando l’esistente non tanto per “comprendere” e motivati da una umile e seria spinta interiore a trasformare la realtà morale del mondo e della stessa politica (e naturalmente di se stessi) ma più che altro per un incontrollato bisogno narcisistico di esibire la propria presunta cultura ed originalità di pensiero, è, temo, malgrado lo stesso Bondi, assolutamente vero anche se non facilmente verificabile.
In sostanza, a prescindere dal valore effettivo delle loro capacità intellettuali, abbiamo ancora intellettuali troppo invaghiti di se stessi da una parte e troppo moralisti dall’altra. Soprattutto il moralismo sembra qualcosa di insopportabile ad un intellettuale come Angelo Panebianco che, per dimostrare come moralista lui non lo sia affatto, dichiara tranquillamente che è totalmente sbagliato considerare la politica in senso moralistico, ovvero come «luogo del confronto tra luce e tenebre» (La politica non è lotta tra bene e male, in “Il Corriere della Sera”, 14 agosto 2009), che è una bella frase ad effetto, anche se essa lascia intendere che la politica deve essere la migliore possibile e che però non le si può chiedere di essere perfetta, ma che non è seguita da una frase altrettanto bella con cui si spieghi chiaramente ed esattamente cosa sia allora la politica e se essa per caso non abbia ancora a che fare con una buona amministrazione della cosa pubblica e dunque anche con una lotta per tutto ciò che sia ritenuto il bene dei cittadini contro tutto ciò che venga invece identificato con il male dei cittadini stessi. Ed è indubbio che «c’è una cosa che stupisce molto nell’intervento di Angelo Panebianco su moralismo e riformismo…. E’ la sicurezza con cui afferma che chiunque ponga al dibattito politico una questione morale si rende responsabile “di una immagine farsesca della politica, come luogo del confronto fra luce e tenebre”. Stupisce, perché filosoficamente la questione dei rapporti fra morale e politica è talmente aperta che non è veramente legittimo liquidarla con un paio di battute, mi perdoni Panebianco, tanto sbrigative quanto sprezzanti, neppure nello spazio di una polemica. Tanto più se è vero, come è vero, che è soltanto una fra le posizioni filosofiche in gioco anche la posizione dell’autore: un realismo politico apparentemente associato a un relativismo valoriale e morale, presumibilmente fondato su uno scetticismo radicale (l’“ineliminabile ambiguità, anche morale” del mondo) in materia di oggettività dei giudizi di valore e/o di fondazione delle norme» (Roberta De Monticelli, La vita pubblica ha bisogno di un’etica, in “Il Corriere della Sera”, 14 agosto 2009). Con un’osservazione conclusiva che appare assolutamente ineccepibile: «che la politica abbia le sue proprie regole e i suoi propri meccanismi nessuno che io sappia lo mette in dubbio: ma da questo a dire che non possa essere etica la motivazione per le proprie prese di posizione, scelte e perfino proposte di riforme politiche, ce ne corre troppa, di distanza» (Ivi).
Il credente cattolico, benché la sopra citata Roberta De Monticelli abbia rotto l’anno scorso con la Chiesa cattolica, non può non trovarsi su questa stessa lunghezza d’onda, anche se egli sa che la sua fede, in sé considerata, non è cultura, non è «proposta di una cultura nuova», come pare dicesse don Giussani, ma riconoscimento di una presenza misteriosa e tuttavia reale, ovvero Cristo, nella propria vita (nella propria vita personale cosí com’è, in tutte le sue specifiche componenti bio-psichiche, intellettive e culturali) e nella vita del mondo; e, in questo senso, «proprio in quanto diventa principio di una percezione, di una conoscenza nuova del mondo, della realtà» (Autore anonimo, Fede e cultura secondo don Giussani, nel sito “Senza patria”, 5 Agosto 2009), la fede tende a diventare cultura, capacità di rappresentare la realtà approfondendone continuamente il senso e il valore alla luce di una persona, dell’incontro con una persona, con la Persona, Cristo; alla luce di colui senza il quale nulla può essere fatto dall’uomo, nulla di vero, di giusto, di grande.
La fede dunque genera, se non una cultura o una cultura nuova, sicuramente un nuovo sguardo culturale che, quali che siano i nostri dati di partenza, le nostre esperienze personali, i dati psicologici e culturali che abbiamo acquisito, la forma mentis che abbiamo assunto nel corso della nostra vita, agisce su tutto ciò, senza cancellarlo, ma rinnovandolo e trasformandolo alla luce dell’incontro d’amore (perché se l’incontro non produce nel nostro intimo amore e amore non equivoco, non sentimentalistico né erotico, ma amore puro anche se non disincarnato, amore dedito al bene altrui sino all’estremo sacrificio di sé, è evidente che l’incontro stesso è stato o è del tutto illusorio) con Cristo Gesù.
Ecco perché ogni cristiano, pur potendo sentirsi legittimamente tale nel professare determinate idee in campo economico, sociale e politico, non può al tempo stesso ritenere che la sua fede sia inattiva sulle sue stesse idee e possa perciò tranquillamente coesistere con esse lasciandole totalmente immutate. La fede non agisce accanto alla cultura e alla politica, ad una determinata cultura e ad una determinata politica, ma agisce sempre nella cultura e nella visione politica (indipendentemente dal fatto che possano essere rozze o ben sviluppate), come nei pensieri più intimi e profondi, di ciascun uomo. La fede, cioè, se non è mera abitudine spirituale ma stimolo effettivo ad una ricerca spirituale sempre più rigorosa ed aperta del volto e del cuore di Dio, è lievito che costringe l’uomo a “riposarsi” e a realizzarsi in una volontà di rivedere e trasfigurare costantemente, con l’aiuto di Dio, tutto ciò che ha costituito e segnato la sua esistenza.