I cattolici e l' "etica senza Dio"

Scritto da Francesco Di Chiara.

 

La preoccupazione espressa da Eugenio Lecaldano nel suo “Un’etica senza Dio” (Laterza 2006) è che i cristiani non cerchino di imporre la propria fede a chi la pensa diversamente da loro. Poi però appare subito chiaro che ben altri sono i suoi assunti : 1. la riflessione filosofica degli ultimi 300 anni avrebbe chiaramente dimostrato che la fede in Dio non è compatibile con l’etica, con una concezione etica del mondo e della vita, perché, egli dice, l’etica cristiana in quanto non autonoma ma eteronoma o meglio eterodiretta (cioè fondata sulla credenza in qualcosa che è esterno alla coscienza e alla concreta esperienza morale) è un’etica precostituita o preconfezionata che si sottrae alla riflessione razionale e al confronto con gli altri (che sono le cose che renderebbero la scelta morale una scelta veramente personale), donde la proposta di un’etica (etica dei miscredenti) fondata sulle “emozioni” temperate e regolamentate dalla riflessione razionale di contro all’etica religiosa e cristiana rigidamente e astrusamente razionalistica oppure incontrollatamente sentimentalistica; 2. la fede in Dio, sempre secondo la tradizione filosofica moderna, non sarebbe compatibile con la ragione o meglio con un esercizio critico della ragione, perché, se si sceglie la fede, non sarebbe più possibile un’analisi accurata e critica della realtà (quindi, verrebbe da chiedere, un Galileo, un Pascal, un Kant, tutto avrebbero fatto tranne che un’analisi accurata e critica della realtà?). Infatti, Lecaldano scrive testualmente: «non solo non è vero che senza Dio non può darsi l’etica, ma anzi è solo mettendo da parte Dio che si può veramente avere una vita morale». E continua: «L’ateismo è la cornice intellettuale più favorevole all’affermarsi di una moralità». Quindi, in sostanza, il cristiano sarebbe un soggetto costitutivamente privo di senso etico; non un soggetto, si badi, provvisto di una tensione spirituale proiettata anche oltre un normale senso etico ma un soggetto proprio incapace di interagire con realtà e valori etici scaturienti da concreti processi empirico-storici.

Lecaldano cosí comincia con l’apparente umile richiesta che i cristiani non pretendano di imporre la propria fede agli altri, ma finisce con un’affermazione oltremodo dogmatica che collide con la sua dichiarata professione di pensatore laico, ovvero che il credente e il cristiano in particolare, dal momento che muovono dalla fede, non possono avere un valido e fecondo rapporto né con la razionalità né con la stessa etica. La fede religiosa, è il ragionamento, si nutre o di pura e semplice emotività o di astratto e fumoso intellettualismo spiritualistico: in entrambi i casi l’etica che ne consegue non può non presentare difetti incolmabili. Ma è sin troppo semplice cogliere l’unilateralità e la superficialità di tale ragionamento. Non meno inconsistente è l’argomentazione di Lecaldano là dove afferma che l’etica cristiana è un’etica assoluta mentre l’etica atea o laica è un’etica priva di «quei caratteri di assolutezza, eternità e universalità tipici dei princípi morali derivati dai comandi eteronomi di Dio». Un'etica senza Dio, è opportuno fissare bene questo punto, non potrà quindi possedere «quei caratteri di assolutezza, eternità e universalità tipici dei principi morali derivati dai comandi eteronomi di Dio».

Già, perché qui la morale atea o laica è anche una morale aperta e tollerante, rispettosa dell’individuo e di tutti gli individui, salvo poi a non astenersi dallo svalutare completamente l’etica cristiana ritenendola un’etica astratta, eterodiretta, assolutistica, infondata, avulsa dalla vita empirica reale, puramente irrazionale e volta a coartare la libertà e l’autonomia delle persone. Lecaldano prospetta un'etica vicina all'effettiva esperienza dell'uomo, basata innanzitutto sul rispetto dell'individuo, prospetta un’etica senza Dio che ammetta il pluralismo etico. Ma, allora, perché accanirsi tanto con il credente e con chi non sia disposto a sottoscrivere il suo punto di vista e la sua morale?

Infine, quel che proprio non si riesce a capire è perché, sul piano etico, ai comandi divini ovvero evangelici bisognerebbe preferire altri comandi, perché dove non c’è il comando di Dio ovviamente non possono non esserci comandi di altra natura, comandi la cui origine e finalità, in quanto puramente umane e soggettive, appaiono spesso ben più parziali, ambigui e discutibili dei precetti cristiani. D’altra parte, se l’etica cristiana nasce e quindi si assume muovendo da altro, cioè da testi sacri e da autorità per cosí dire indipendenti dal nostro vissuto personale, anche l’etica atea e laica o meglio laicista trova la sua origine in testi e messaggi forse non “rivelati” e non “sacri” ma altrettanto importanti e vincolanti per chi ritiene di doverli acquisire come base delle proprie convinzioni e in autorità filosofiche non necessariamente più attendibili e credibili di quelle religiose.   

Resta forte la sensazione che Lecaldano non interloquisca tanto con i credenti quanto, al massimo, con una caricatura dei credenti. Peraltro, il suo tentativo di dimostrare che solo un’etica atea sia un’etica razionalmente fondata è in realtà solo una pretesa illegittima, perché egli sa bene che vale per l’etica quello che vale per la filosofia, ovvero che non si dà né filosofia né etica prive di presupposti e di presupposti in qualche modo extrarazionali. Come cristiano, certo, muovo da un presupposto preciso, che tuttavia ho acquisito nel corso della mia concreta esperienza di vita, quindi di un’esperienza di vita in parte simile a quella di tutti i miei simili ma in parte unica e irripetibile appunto perché mia. Questo presupposto è che il nostro Dio, il mio Dio di cristiano e cattolico, non è un deus ex machina (non è un’illusione, una finzione o una mistificazione) ma è una Persona, è un Padre onnipotente, infinitamente misericordioso e infinitamente giusto, che darà ad ognuno di noi secondo quello che realmente avremo seminato su questa terra. Questo è il mio presupposto, ma bisognerebbe vedere quale sia esattamente il presupposto degli amici atei, intendendo per amici atei coloro che percepiscono Dio, la fede e via dicendo come un problema reale e non fittizio, coloro che non negano pregiudizialmente l’inesistenza di un tale problema. Giacché non c’è dubbio che è utile dialogare sino a quando non sia in discussione la buona fede e la stessa correttezza argomentativa dei dialoganti, mentre, almeno per i cristiani, non è indispensabile né dialogare né cooperare laddove sussistano buone ed evidenti ragioni per diffidare di quanti, perseguendo in realtà (magari a loro insaputa) solo fini  malvagi o perversi,  accusano i cattolici di chiudersi in una torre d’avorio.  

Già alcuni campioni di ateismo, nel quadro dell’illuminismo francese, diedero prova di grande onestà parlando di Dio in termini e con toni talmente toccanti e suggestivi da suscitare ammirazione persino nell’animo dei credenti più fervidi e integri. Mi limito qui a citare qualche passaggio di due philosophes: il barone D’Holbach e colui che viene generalmente considerato come le philosophe per eccellenza ovvero Denis Diderot. L’ateismo del primo, per quanto evidente, forse non si può ancora definire “radicale”, perché nel rapporto con Dio, che viene a profilarsi in una preghiera sia pure ipotetica da lui messa in bocca al suo ateo galantuomo o più esattamente onest’uomo, traspare significativamente qualche incertezza e qualche significativo indizio di nostalgia e di disperazione: «O Dio Padre», scrive D’Holbach, «che non ti sei mostrato al tuo figlio…perdona se la mia limitata intelligenza non è riuscita a conoscerti in una natura in cui tutto mi appariva necessario. Perdona se il sentimento del mio cuore non è riuscito a distinguere la tua sublime fisionomia da quella di quel feroce tiranno che il superstizioso adora pieno di terrore…Come avrebbe potuto il mio debole cervello giudicare da solo del piano della tua Provvidenza, della tua Sapienza, della tua Intelligenza, quando il tuo universo mi si presentava come una mescolanza di ordine e di disordine, di bene e di male, di inizio e di fine? Avrei forse potuto rendere omaggio alla tua giustizia quando io vedevo tanto spesso trionfare il delitto e piangere la virtù?…Ma, o Dio, se tu ami le creature, anch’io le ho amate altrettanto; nella sfera in cui io vivevo ho cercato di farle felici. Se tu hai creato la ragione, io l’ho sempre ascoltata e l’ho sempre seguita. Se a te piace la virtù, il mio cuore l’ha sempre rispettata; io non l’ho disprezzata e, per quanto le mie forze me l’hanno permesso, l’ho anche praticata: sono stato un marito e un padre premuroso, un amico sincero, un cittadino fedele e zelante. Ho porto la mia mano all’infelice per aiutarlo, ho consolato gli afflitti; se qualche volta le debolezze della mia natura hanno nuociuto a me stesso o sono state di peso agli altri, non ho però mai scaricato sugli infelici le mie ingiustizie e non ho mai tolto ai poveri il loro; non ho guardato le lacrime delle vedove senza compassione; non ho udito il pianto dell’orfano senza commozione…Se ho pensato male di te, è perché il mio intelletto non poteva comprenderti; se ho parlato male di te, la ragione è che il mio cuore troppo umano si è ribellato contro l’immagine troppo odiosa che di te gli veniva tracciata». E’ una preghiera ipotetica non ancora pervasa da spirito evangelico ma già funzionale ad una sincera ricerca di Dio.

Anche Diderot, autore dell’Encyclopédie con il matematico D’Alembert, è sulla stessa linea. Basta citare un frammento della parte iniziale della sua “Prière”: «O Dio non so se tu esisti; ma io penserò come se ti vedessi nella mia anima, mi comporterò come se tu fossi davanti a me…». Gli atei intelligenti e probi, forse senza saperlo, sono i migliori alleati dei veri credenti in Cristo.