Maria: la Parola tra l'"io" e il "noi"
Il papa ha detto: «san Luca presenta Maria proprio come donna dal cuore in ascolto, che è immersa nella Parola di Dio, che ascolta la Parola, la medita (synbàllein) la compone e la conserva, la custodisce nel suo cuore. I padri della Chiesa dicono che nel momento della concezione del Verbo eterno nel grembo della Vergine lo Spirito Santo è entrato in Maria tramite l'orecchio. Nell'ascolto ha concepito la Parola eterna, ha dato la sua carne a questa Parola. E così ci dice che cosa è avere un cuore in ascolto» (Per un cuore che ascolta, in “L’Osservatore Romano” del 28 febbraio 2010).
Ora, non c’è dubbio che Maria ascoltasse la Parola di Dio attraverso la lettura e lo studio delle sacre scritture, attraverso gli insegnamenti di alcuni saggi sacerdoti ebraici, attraverso la percezione non solo spirituale ma fisica della Parola di Dio (giacché lo Spirito Santo, nel momento in cui concepisce nel proprio grembo verginale il Verbo eterno, entra in lei attraverso l’orecchio non in senso metaforico ma proprio in senso fisico-organico impiantandosi stabilmente nel suo essere umano di donna e di madre del Creatore), e infine attraverso una sua incessante ed autonoma meditazione personale. Per Maria, le cose andarono cosí: un percorso cui padri e madri della Chiesa si sarebbero sempre ispirati e che avrebbero sempre cercato di interiorizzare nella propria esistenza pur essendo e restando un percorso irripetibile. Solo in questo senso Maria sarebbe stata «circondata…dalla comunione dei santi», come ha osservato papa Benedetto.
Però è da precisare che il grosso, per cosí dire, dell’ascolto di Maria avviene in un suo rapporto personalissimo e assai ravvicinato con il Creatore in persona, sia prima che lo concepisse sia dopo averlo concepito, e quindi il suo ascolto della Parola di Dio cui ella avrebbe dato la propria carne, pur esercitandosi all’interno della sua comunità religiosa di appartenenza, non venne da essa reso possibile trovandosi fondamentalmente fondato su una relazione certo privilegiata ma diretta con il Signore medesimo.
Cosí, quando il pontefice afferma che, nel considerare quel che capitò a Maria, «vediamo e abbiamo capito proprio in questi giorni che non nell’io isolato possiamo realmente ascoltare la Parola: solo nel noi della Chiesa, nel noi della comunione dei santi» (Ivi), forse occorre essere ben consapevoli del fatto che il rischio sempre incombente dell’individualismo religioso non è ancora scongiurato da un qualsiasi comunitarismo religioso ed ecclesiale ma solo da un comunitarismo che favorisca la comprensione autonoma e personale, sia pure a livelli diversi, della Parola di Dio, e che pertanto in quanto tale sia capace di valorizzare le diverse esperienze carismatiche che vi sorgono e un ascolto interpersonale certo basato sulla autorità gerarchica ma fatto anche di effettiva fraterna e responsabile reciprocità.
Il noi della Chiesa non può quindi sopprimere l’io della retta coscienza religiosa ma semmai sostenerlo ed ispirarlo in modo tale che ogni io possa a sua volta arricchire la sostanza spirituale e religiosa di quel noi di cui peraltro nessuno può sentirsi esclusivo e definitivo interprete e garante. La Chiesa ha certo un autorevole garante di quel noi nella figura del papa ma il papa tanto più legittimamente eserciterà la sua funzione di garante quanto più sarà in grado di recepire, con l’aiuto dei suoi ministri, il significato e il valore oggettivi delle diverse esperienze spirituali collettive e individuali e di far confluire il buono che esse esprimono in una sintesi spirituale cui non può mancare naturalmente la stessa elaborazione teologica e spirituale del vicario di Cristo.
Se il noi garantito dal papa non può annullare l’io, l’io non può ergersi orgogliosamente contro il noi o sul noi, foss’anche l’io umano più autorevole e venerato della terra, mentre esso deve umilmente sottomettersi alla volontà del Signore prima che alla volontà della Chiesa, qualunque sia il prezzo da pagare, se il Signore decida tangibilmente per lui che la via da seguire si incroci solo in parte con la via seguita dalla comunità ecclesiale o meglio da una comunità ecclesiale storicamente determinata. Il che, da Maria in poi, mi pare non sia accaduto infrequentemente nella storia della Chiesa.
Tuttavia, se l’io è sinonimo di «ripiegamento su noi stessi», di «accaparramento», di «strumentalizzazione», come ha specificato don Enrico Dal Covolo (Il primato della contemplazione sull’azione in “L’Osservatore Romano” del 28 febbraio 2010), non c’è dubbio che l’io è malato e deve essere pazientemente assistito e talvolta tollerato con spirito di carità dal noi ecclesiale senza però cedere alla tentazione del facile giustificazionismo etico che quasi sempre implica quella di un certo permissivismo. D’altra parte, anche il noi ecclesiale può manifestare difetti e limiti che possono essere corretti o rimossi da pratiche individuali di spiritualità o di santità particolarmente ispirate e sostenute dall’Alto.
Anche il noi ecclesiale può essere usato indebitamente o ipocritamente, sia pure in modo inavvertito, per coprire gli audaci suggerimenti dello Spirito Santo il quale di rado esercita immediatamente il suo influsso su un intero popolo o su una intera comunità preferendo consegnarsi alla sensibilità di singole persone per manifestarsi poi mediatamente all’interno di tutta la Chiesa. Naturalmente, nessuno di noi può pretendere di stabilire aprioristicamente chi siano i prescelti da Dio, i più adatti a veicolare o a trasmettere nella Chiesa la sua volontà e i suoi santi progetti salvifici. Qui le gerarchie non valgono nulla, o meglio continuano a valere come gerarchie che hanno unicamente il potere di servire e far servire al meglio l’umanità secondo i desideri e le finalità dell’eterno Padre.
Allora l’io da una parte presuppone il noi come il singolo credente presuppone la Chiesa, e dall’altra sia l’io che il singolo credente sono sempre potenzialmente funzionali ad una crescita qualitativa e all’espansione spirituale della santa Chiesa di Cristo. Proprio come è accaduto con Maria che, da una parte, si trovò inserita nella sua comunità religiosa condividendone norme e valori, ma dall’altra non rinunciava a cercare un rapporto diretto o personale con quel Dio onnipotente che ella sapeva non volersi limitare alla conservazione delle cose esistenti bensí esercitarsi con infinita generosità in un continuo rinnovamento di tutte le cose e gli esseri creati.