Il sacerdozio tra celibato e matrimonio

Scritto da Francesco di Maria.

 

Voglio essere chiaro. Sono un uomo di sessant’anni sposato con figlia. E, come sa il vescovo della mia diocesi, sarei pronto a chiedere di essere ordinato sacerdote di Cristo, qualora santa madre Chiesa me lo consentisse. Quella che segue perciò vuole essere anche una testimonianza, giacché, quale che sia in questo caso la tradizione della Chiesa, chi, con umile e rigoroso sforzo di mente e di cuore e accompagnato dalla grazia di Dio, ritiene oggi di aver inteso correttamente le parole evangeliche e neotestamentarie, non può e non deve tacere su una verità che il regno di Dio esige sia resa quanto più manifesta possibile. E, poiché questa verità non tocca minimamente le convinzioni dogmatiche della Chiesa stessa, è del tutto comprensibile che questa testimonianza sia resa.

Bene. Ancora alla fine del secolo XII dopo Cristo, osserva il cardinale Stickler, «esistevano chierici maggiori che erano sposati prima di ricevere l’ordine sacro», in linea con la precisazione giuridico-canonica del grande Decretista Uguccio di Pisa, che, nella sua Somma (1190) al Decreto di Graziano (1140), comincia a trattare del celibato facendo riferimento alla «continentia clericorum quella cioè che essi», i chierici, vescovi presbiteri e diaconi, «debbono osservare in non contraendo et in non utendo contracto»1, vale a dire sia nel caso che non siano sposati, e di conseguenza non intendano più contrarre matrimonio una volta ordinati ministri di Dio, sia nel caso che siano già sposati e si impegnino dunque, al fine della loro perfetta continenza, a non usare più del loro matrimonio e, per essere più espliciti, ad astenersi da qualsivoglia tipo di rapporti sessuali con le proprie mogli. Quasi agli inizi del 1200, dunque, si riconosceva ancora apertamente quanto sembrava derivare in modo limpido dalla stessa Sacra Scrittura e dalla Tradizione apostolica: che fosse del tutto legittimo e rispondente alla divina volontà che anche uomini sposati (come lo era stato San Pietro), a determinate condizioni (la rinuncia non già alla propria moglie ma ai rapporti sessuali con lei precedentemente esercitati), potessero e dovessero essere ordinati presbiteri con funzione sacerdotale2.     

E’ altresí vero che, con e dopo Gregorio VII, la prassi della Chiesa, sia per motivi economico-patrimoniali sia per arginare gravi fenomeni quali la simonia e il nicolaismo, si sarebbe orientata a limitare l’accettazione di uomini sposati, giungendo poi, con il secondo Concilio Lateranense del 1139, a ritenere non solo illeciti ma anche invalidi i matrimoni contratti dai chierici maggiori e dai consacrati alla vita religiosa, ma è altrettanto vero che la Chiesa sarebbe venuta compiendo ciò attraverso una sua discrezionalità deliberativa, forse in parte comprensibile quanto alle intenzioni in essa racchiusa di un necessario risanamento della vita ecclesiastica e della vita religiosa in genere, e tuttavia errata, arbitraria ed incoerente rispetto alla lettera e allo spirito del Nuovo Testamento e a tutti i precedenti atti e documenti conciliari e pontifici, dai quali mai il matrimonio, in quanto tale, di un presbitero, di un sacerdote o ministro del culto, era stato ritenuto illecito ed invalido. Tant’è vero che, come ricorda lo stesso Stickler, non vi è dubbio che anche nei tempi successivi a quello della più antica Chiesa cristiana «venissero ancora scelti molti sacri ministri tra gli uomini sposati»3.

Quel che emerge è quindi che, sul piano storico e dottrinario, la conditio sine qua non posta dalla Chiesa per l’ammissione al presbiterato prima e al sacerdozio poi (in quanto al tempo della Chiesa antica erano nominati solo presbiteri e non sacerdoti) non risultò mai essere il celibato in senso generico quanto piuttosto la continenza, essendo sempre stato chiaro peraltro alla comunità ecclesiale, almeno per i primi sette secoli, e all’incirca sino all’avvento dell’impero carolingio, che una continenza presbiterale non celibataria fosse largamente da preferire ad un presbiterato celibatario non continente. L’evangelico “eunuco” di cui parla Gesù non è, in effetti, un uomo che non conosca passioni e pulsioni sessuali o che ne abbia esperienza in modo manifestamente distorto o abnorme, ma un uomo che, pur avendo una normale esperienza delle complesse dinamiche emotive sentimentali e sessuali della sua esistenza, sia poi capace non già di reprimere o soffocare ma di dominare, controllare, razionalizzare adeguatamente, quantunque non senza una faticosa lotta interiore, quelle stesse dinamiche biopsicologiche, al fine di renderle funzionali non al depauperamento ma al graduale arricchimento del proprio patrimonio spirituale.     

Gli uomini che si fanno eunuchi per il regno dei cieli sono uomini che, pur avendo sentito realmente la chiamata di Dio, conoscono bene non solo la forza ma anche le ambiguità e le perversioni dell’amore umano, e, dotati al tempo stesso di non mediocri risorse caratteriali e morali, decidono, di tutto ciò consapevoli, di seguire Cristo e di confidare nel suo aiuto misericordioso. Gli eunuchi predestinati a seguire da vicino Gesù, a rappresentarne sacramentalmente ed esistenzialmente la parola e la vita, non sono eunuchi di natura o di necessità, cosí come non sono soggetti sostanzialmente frustrati e spiritualmente tiepidi anche se aggressivi; non sono semplici anime belle, capaci sì e no di fare sermoni e di sputare moralisticamente giudizi da comodi pulpiti ma incapaci di esporsi realmente e di combattere nel nome e per conto di Cristo con uno spirito sempre nuovo ed inesausto di verità, di libertà e di giustizia. Gesù ha scelto Pietro come capo della Chiesa per la sua semplicità ma anche per la completezza della sua umanità e per la concretezza e l’energia della sua fede. Pietro è il simbolo di una umanità capace di amare integralmente il mondo, capace di affetti e di interessi profondi e legittimi per le persone e le cose di questa terra (egli, uomo sposato probabilmente con figlia, ama la sua famiglia e il suo lavoro e le cose semplici e normali del suo ambiente), e ad un tempo di una umanità che crede realmente in un Dio già pronto a soccorrere i suoi figli più poveri e a donare loro per sempre una felicità senza limiti. Pietro è altresì il simbolo di una umanità genuina e disinteressata, generosa e sinceramente religiosa che, dinanzi ad una chiamata non ipotetica e non opinabile ma certa e obiettiva di Dio, non esita a lasciare tutto – una famiglia, una casa, un lavoro, un sicuro guadagno – non per rinnegare tutto ciò ma per integrarlo nel processo di costruzione di un più ampio quadro di relazioni umane qual è quello della comunità ecclesiale ed in funzione della gloria sempre più grande di Dio stesso.

La Chiesa oggi, nel reclutare i ministri del Signore, questo soprattutto, opportunamente ispirata dallo Spirito Santo, deve tener presente: Pietro, il presbitero per antonomasia, è l’uomo cosí com’è, non l’uomo già definito o idealizzato dai codici e dai canoni, ma l’uomo trovato da Dio in un momento e in uno stato determinati della sua vita terrena, con un lavoro, con una moglie, con degli amici, con una fede granitica anche se immatura ed incompleta, con uno spirito intrepido anche se talvolta eccessivo di combattimento, con una straordinaria disponibilità, indotta o favorita dalla grazia divina, a dire: sí, Signore mio, Tu mi hai chiamato mentre io ardentemente ti aspettavo e ti chiamavo, ti sei fatto sentire, ti sei fatto conoscere, mi hai chiesto di seguirti, mi hai insegnato a chiederti di seguirti, ecco la mia vita, la metto al tuo seguito e nelle tue mani, con tutti i suoi limiti, ora e per sempre. Giovanni, il celibe, fu forse il discepolo più amato da Cristo per la purezza del suo amore, ma non è casuale che, per l’opera di evangelizzare e convertire l’umanità intera alla sua parola salvifica, Cristo pensasse ad un uomo già sposato e rotto al fuoco della passione coniugale, e anche ad un uomo più rozzo e più pauroso di Giovanni. La guida della Chiesa sarebbe toccata non a Giovanni ma a Pietro, a chi avrebbe sperimentato nella carne la continuità e la differenza tra l’amore sensibile e naturale e l’amore spirituale e sovrannaturale per testimoniare e predicare nella carne l’attraente ed irresistibile bellezza del Logos divino, e a chi, a causa della sua rozzezza e della sua viltà, della sua pochezza e della sua indegnità, avrebbe continuato a chiedere perennemente perdono al suo Dio, sentendone sempre più forte la mancanza e il bisogno e invocandone con una preghiera ed un’azione indefesse la misericordia redentiva. 

Chi segue Gesù dev’essere puro come Giovanni, ma anche chi non è puro come Giovanni è chiamato a diventare puro come lui per mettersi alla sequela del Maestro e per continuare nel mondo l’opera salvifica del Maestro. Perciò la volontà di Dio è che presbitero e sacerdote con Cristo, in Cristo e per Cristo, potesse essere tanto chi già si trovi nella condizione di poter imitare Giovanni quanto chi invece, come Pietro, si senta chiamato ad una nuova condizione di vita in cui possa magnificare il Signore per l’amore inatteso e sconvolgente da lui ricevuto. Se Giovanni è giustamente quello che rimarrà sino alla fine, Pietro è stato ed è colui che farà realisticamente ogni sforzo perché tutte le creature di tutte le generazioni della storia del mondo, con umiltà e fede sincera s’incamminino verso l’acquisizione di quel puro desiderio di Dio che costituisce l’elemento distintivo dello spirito giovanneo. In tal senso è auspicabile che la Chiesa riesca a vedere per tempo come in realtà il sacerdozio gradito a Dio si trovi non accidentalmente incastonato tra il presbiterato celibe e continente di Giovanni e il presbiterato uxorato ma non meno continente (dal punto di vista qualitativo) di Pietro.

In realtà, quel che accade nel secondo millennio, ovvero la progressiva espulsione dagli ordini sacri degli uomini sposati, non può essere letto, alla luce della più originaria predicazione cristiana, come correttivo di una prassi ecclesiale ormai indubbiamente troppo equivoca e corrotta, quasi che, da un certo momento in poi, le più gravi problematiche venissero alla Chiesa solo dai presbiteri sposati e non anche dai presbiteri celibi, ma deve essere piuttosto considerato come una deviazione operata dalla Chiesa rispetto al senso più profondo della parola di Dio e alla stessa Tradizione apostolica pur nel tentativo da essa forse sinceramente esperito di rendere più lineare e più limpido il proprio cammino nella storia. Certo, la materia era sempre stata molto delicata non solo e non tanto per motivi disciplinari ma soprattutto perché, a seconda dei modi in cui venisse trattata, non potevano non derivarne anche modi religiosi completamente diversi e opposti di concepire l’amore in rapporto all’uomo e a Dio stesso. Tuttavia, non erano mai mancati criteri abbastanza sicuri per occuparsi rettamente di quella materia. Nel Vecchio Testamento la continenza era prescritta ai sacerdoti solo per i giorni immediatamente antecedenti l’esercizio del culto religioso, mentre nel Nuovo Testamento, in cui si parlava del servizio religioso come di un servizio permanente a Dio, la continenza era prescritta ai presbiteri appunto permanentemente, nel senso che chi non fosse sposato e intendesse servire il Cristo dovesse rimanere celibe e naturalmente puro, mentre gli sposati che intendessero servire il Signore si dovessero astenere stabilmente da qualsivoglia tipo di rapporto sessuale. Che è ciò che, al di là di ogni sterile e oltranzistica volontà di cavillare circa l’esatto significato dei relativi testi neotestamentari e in particolare di quelli contenuti in alcune lettere paoline e negli Atti degli apostoli, ricalcava poi fedelmente la storia e lo spirito essenziale dei rapporti dei primi apostoli di Gesù con le loro compagne di fede o con le loro stesse mogli.    

Questa regola, spirituale più che disciplinare, sarebbe stata correttamente recepita dalla Chiesa occidentale e, per un certo periodo di tempo, da quella orientale, a partire dal primo decennio del IV secolo. E’ infatti in questo periodo che si tiene in Spagna il celebre Sinodo di Elvira, il cui canone 33 prescriveva solennemente che vescovi, sacerdoti e diaconi già sposati prima di essere ordinati agli ordini sacri dovessero astenersi dalle loro mogli e dal generare figli, pena l’esclusione dallo stato clericale. Lo stesso concetto era ribadito in ripetute e documentate testimonianze della Chiesa africana, tra la fine del secolo quarto e l’inizio del secolo quinto, circa l’obbligo celibatario da intendersi come obbligo per i ministri sposati del culto di astenersi sessualmente dalle proprie mogli. Ma è importante precisare che questa ribadita astensione sessuale dei presbiteri dalle proprie mogli non venisse mai fatta coincidere dai giuristi ecclesiastici e dai papi con una sorta di ripudio delle mogli stesse, con una rinuncia ad avere con esse, ben al di là della relazione sessuale, qualsiasi altro rapporto umano. Emblematico è, al riguardo, il pensiero, riportato da Stickler, di papa Leone Magno (456): «Affinché…il matrimonio carnale diventasse un matrimonio spirituale è necessario che le spose di prima non già si mandassero via ma che si avessero come se non le avessero, affinché cosí rimanesse salvo l’amore coniugale ma cessasse allo stesso tempo anche l’uso del matrimonio»4.

Restava peraltro il problema dell’opportunità o meno di consentire ai mariti, dopo l’ordinazione, di continuare a coabitare con le mogli, e in effetti la coabitazione sarebbe stata permessa solo nei casi in cui si potesse escludere il pericolo di violare l’impegno assunto, ma, in senso generale, attraverso la posizione espressa da papa Leone, la Chiesa avrebbe manifestato chiaramente la sua volontà di non intendere l’obbligo di continenza sessuale dei suoi ministri come atto di abbandono delle proprie consorti, anche perché, di lì a poco, un altro pontefice, Gregorio Magno, si sarebbe mostrato almeno implicitamente convinto che «la continenza degli ecclesiastici veniva sostanzialmente osservata nella Chiesa Occidentale»5.

Proprio o soprattutto i papi, nota ancora Stickler, avrebbero avuto il merito di far sí che «il celibato ecclesiastico fosse rettamente inteso e si conservasse nella sua coscienza di origine e di tradizione antica in tutta la sua chiarezza e nonostante tutte le difficoltà sempre e dappertutto risorgenti»6. D’altra parte che sin dalle origini il celibato ecclesiastico prevedesse che i ministri sposati fossero tenuti alla continenza sessuale ma non al ripudio delle mogli fu cosa nota alla grande maggioranza dei grandi Padri della Chiesa, tra i quali svettano figure come quella di Sant’Ambrogio e di Sant’Agostino o di San Girolamo ed Epifanio di Salamina. Poi, con la riforma gregoriana dell’XI secolo le cose cambiano, non, come più sopra si è detto, con un atto di continuità rispetto al passato e alla tradizione della Chiesa, ma di evidente ed innaturale discontinuità, ed è attraverso una tendenziale, graduale alterazione dell’originaria verità teologica sul celibato ecclesiastico, che si giunge infine, con il Concilio di Trento, ad identificare tassativamente il celibato stesso con la proibizione sic et simpliciter di sposarsi e a fissare l’impossibilità per chi sia già sposato di accedere al sacerdozio. E anche nel caso in cui si conceda che il Concilio di Trento, come scrive ancora Stickler, «ha creato, attraverso la definizione dei sacramenti dell’ordine e dell’eucaristia, i presupposti di una mistica del sacerdote riportandola alla mistica di Cristo»7, non è tuttavia meno vero che questa operazione, in sé lodevole, non sarebbe stata più effettuata nel pieno rispetto della volontà di nostro Signore Gesù Cristo e della più santa tradizione della Chiesa cattolica. Quello che sorprende nella dotta ed esauriente ricostruzione storico-dottrinaria di Stickler è la sua adesione acritica all’odierna e non più convincente posizione ufficiale della Chiesa, all’attuale teologia del celibato sacerdotale, quella per l’appunto che era stata elaborata dal Concilio di Trento. E’ proprio la valutazione teologica conclusiva di Stickler a fare da nota stonata e a non sembrare per niente coerente con la sua attenta e brillante disamina critico-storico-teologica.

Stupisce che ancor oggi i vertici della Chiesa gerarchica – lo dico con tutto il rispetto evangelico che ad essi si deve (anche perché essi sono in realtà ben consapevoli della veridicità di quanto qui sostenuto) – si accontentino di affermare senza adeguatamente spiegare che «ciò che nel passato era la continenza per i ministri sposati diventa nel nostro tempo il celibato di quelli che non lo sono»8, senza per l’appunto preoccuparsi di chiarire perché sia accaduto storicamente, sulla base di quale criterio teologico, di quale speciale illuminazione sovrannaturale, che l’obbligo della continenza si trasformasse in modo definitivo nell’obbligo del celibato ministeriale per la Chiesa cattolica e anzi per la sola Chiesa cattolica latina e non anche per altre chiese che di quella cattolica pure fanno parte. E stupisce ancora di più che tali vertici non ritengano di doversi dare da fare per assicurare uno sviluppo coerente e un concreto compimento a quanto riconosciuto dall’articolo 16 del Decreto Presbyterorum ordinis del 7 dicembre 1965, ovvero che il celibato non è richiesto «dalla natura stessa del sacerdozio».     

E’ strano che dal seno stesso della Chiesa istituzionale, che non è né sciocca né impreparata, non si sia ancora levata una domanda chiara e provocatoria: ma, in definitiva, cosa potrebbe essere oggi, nel nome di Cristo, più salutare per la Chiesa? Un celibato senza continenza e scelto magari per non lecite e non confessabili ragioni personali di convenienza psicologica, sociale ed esistenziale oppure una continenza senza celibato, ovvero faticosamente voluta e acquisita, sia pure in virtù della grazia santificante di Dio, attraverso una casta esperienza matrimoniale di vita? Perché mai un prete celibe dovrebbe essere necessariamente più affidabile e più santo di un prete sposato che si impegni solennemente a vivere in stato di perfetta continenza? Il vero problema, alla fine, non è e non resta la continenza piuttosto che il celibato? Certo, «il celibato», come scrive il cardinale Hummes, «è l’esempio che Cristo stesso ci ha lasciato. Egli ha voluto essere celibe»9. Cristo su questo e su tante altre cose, ha lasciato un esempio di perfezione: chi mi vuol seguire da vicino lasci tutto, ma proprio tutto, la propria sicurezza o la propria conscia o inconscia ipocrisia per esempio, e mi segua! Il presbitero-sacerdote più amato da Dio è colui che, senza reprimere o soffocare la sua affettività e la sua stessa energia sessuale, sappia educarle e convogliarle, attraverso una risposta puntuale e diligente alla grazia divina, verso un amore capace di trascendersi al di là delle sue forme più consuete e terrene onde gli sia consentito di essere ad un tempo più vicino a Dio e agli esseri umani. Se già a vent’anni un tale presbitero-sacerdote esiste, è bene e auspicabile che egli eserciti convenientemente e senza ripensamenti questo dono e questo carisma sino alla fine della sua vita. Se, invece, la speciale chiamata di Dio giunge quando si sia già contratto matrimonio e siano stati generati dei figli, è bene che si sia comunque pronti ad ottemperare alla volontà del Signore, che invita tutti i suoi figli a vivere in un modo sempre più perfetto, e a non ostacolare in nessun modo i suoi piani, con un comportamento che da quel momento in poi sia esattamente simile a quello di un perfetto sacerdote di Cristo.

Si cita probabilmente a sproposito quel celebre passo evangelico in cui Gesù parla di coloro che “si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli” (Mt 19, 1-12), tutte le volte che con esso si vuole dimostrare come solo i non sposati possano essere ordinati presbiteri. In realtà, quel passo è inserito in un discorso che Gesù svolge con i discepoli sul “ripudio” o, come più impropriamente si suole dire, sul “divorzio”. Egli, dopo aver ribadito ed elogiato l’indissolubilità del matrimonio, agli stessi discepoli che si mostrano recalcitranti rispetto all’idea che, una volta sposati, non sia consentito di ripudiare la propria moglie per sposare un’altra donna, osservando di conseguenza che allora sarebbe meglio non sposarsi (e sarebbe meglio non sposarsi, essi sottintendono chiaramente, per non essere tentati di violare la fedeltà coniugale), Gesù dà una risposta articolata e in parte indiretta con cui cerca di far capire loro che l’unico motivo per il quale è possibile lecitamente rinunciare al matrimonio e al suo uso, dovendosi escludere che ci si possa riservare di usare liberamente della propria sessualità in assenza di un vincolo matrimoniale, è quello per cui ci si senta nitidamente chiamati da Dio nello stato di uomini ancora celibi a non fruire della propria sessualità in vista di un impegno cosí assorbente qual è quello di lavorare “per il regno dei cieli”.

In altri termini, la decisione di non usare della propria sessualità (il farsi eunuco, dove è utile notare che l’eunuco che tale si fa è non già colui che non si sposa ma colui che, ancora fuori del matrimonio o già dentro il matrimonio, decide appunto di non fare uso della propria sessualità ovvero di castrarsi spiritualmente) è legittima in un solo caso: quello in cui, avendone ricevuto da Dio la capacità o il dono effettivo, si finisca per sacrificare il proprio ancora egocentrico desiderio-bisogno di soddisfacimento sessuale alla propria volontà di appartenere totalmente a Dio attraverso una radicale spiritualizzazione della propria vita. Gesù cioè, escludendo implicitamente che si sia liberi di usare la propria sessualità al di fuori del matrimonio e di un matrimonio indissolubile, afferma che la scelta di non avere rapporti sessuali, già dentro il matrimonio o ancora fuori di esso, è possibile e legittima solo se sia subordinata ad una più piena offerta di sé e delle proprie energie spirituali al Signore e ai suoi piani salvifici.

I discepoli, nel lamentare che se “questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna non conviene sposarsi”, dimostrano di non aver ancora compreso, col cuore più che con la mente, come il matrimonio non debba essere inteso e vissuto in termini di edonistica utilità (la “convenienza”) ma in termini di obbedienza alla volontà di Dio e al relativo progetto per cui gli sposi siano e restino per sempre reciprocamente fedeli indipendentemente dalle particolari contingenze della vita, cosí come Dio resta sempre fedele alle creature che ama anche e soprattutto nelle circostanze più dolorose o meno gradevoli della loro esistenza.

Il matrimonio non fu concepito da Dio per il godimento degli sposi ma per un rapporto d’amore che andasse ben al di là di esso e sino al punto di poterne fare anche a meno, proprio come del godimento fanno a meno gli eunuchi. Ora, osserva Gesù, ci sono eunuchi dalla nascita o per volere degli uomini: voi che vi lamentate, cari discepoli, se siete già sposati diventate “eunuchi a motivo del regno”, accettate cioè la originale bellezza e la spirituale radicalità del matrimonio. Non vedete quanti fratelli, per dono del Signore e a motivo del regno dei cieli, sono diventati eunuchi totali sino al punto di rinunciare persino al santo matrimonio? Dunque, chi è sposato e sente di essere stato chiamato da Dio a testimoniare in modo esemplare e radicale la propria fede prenda esempio da essi, si faccia eunuco per il regno dei cieli rimanendo fedele alla propria sposa. La conclusione è quindi che Gesù non ha negato e non intende negare che nello stato di uomini già sposati si possa essere chiamati da Dio a servirlo conducendo una vita casta e che suoi discepoli, proprio in senso presbiterale e ministeriale, possano essere anche persone castamente sposate e dunque assolutamente capaci di continenza.

Purtroppo, il teologo Nicola Bux, membro autorevole della curia romana e pontificia, in un recente articolo che appare largamente inattendibile perché gravemente omissivo e distorsivo sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista esegetico e teologico10, si guarda bene, parlando di celibato sacerdotale, dal cimentarsi in sede interpretativa su questo che è l’unico passo evangelico usato ancora da buona parte della gerarchia ecclesiastica per dare sostegno alla tesi per cui sarebbe Cristo stesso a precludere la possibilità dell’ordinazione sacerdotale anche a chi, già sposato ma ormai continente, si candidi per l’appunto al sacerdozio. Egli si richiama, anche in questo caso, al magistero e alla santa tradizione cattolica. Già, ma non è forse evidente, sempre su questo specifico punto, la discontinuità tra il magistero e la tradizione del primo millennio e quelli del secondo millennio? Quale magistero e quale tradizione dovranno essere dunque invocati per intendere correttamente la parola di Dio? E’ poi ben strano che, nel momento in cui si celebra l’“anno paolino”, Bux e tutti coloro che sono sulle sue posizioni, si astengano dal citare il grande “apostolo delle genti”, dal rilevare proprio con Paolo che “gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Pietro” avevano “il diritto di portare” con sé “una moglie credente”11  e dal condividerne il seguente inequivocabile e stringente pensiero: “Ecco una parola sicura: se qualcuno desidera avere un compito di pastore nella comunità, desidera una cosa seria. Un pastore deve essere un uomo buono, fedele alla propria moglie, capace di controllarsi, prudente, dignitoso, pronto ad accogliere gli ospiti, capace di insegnare. Non può essere un ubriacone, un violento o uno che litiga facilmente: sia invece gentile e non si mostri attaccato ai soldi. Sappia governare bene la sua famiglia, i suoi figli siano obbedienti e rispettosi. Perché, se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?” 12 .

Non si può infine e naturalmente dimenticare che Cristo ha voluto essere celibe, per ritornare alla precisazione del cardinale Hummes (che però, poco prima di insediarsi in vaticano come prefetto del clero, aveva affermato pubblicamente che “molti apostoli di Gesù erano sposati”). Bisogna tuttavia capire che, fermo restando l’incontestabile esemplarità dell’ideale di perfetta e assoluta verginità lasciato da Gesù, egli, in quanto Figlio di Dio, volle contrarre nozze non con una determinata o particolare creatura umana, ma con l’intera umanità che avrebbe avuto nella madre sua Maria, anch’ella verginalmente sposata con un uomo puro e pio, l’espressione più perfetta e compiuta. Per cui, pur figlio di Maria, in senso eminentemente spirituale avrebbe avuto e continua ad avere in Maria, al pari del Padre, la sua unica e fedele sposa, dalla quale, si noti, si dovette in qualche modo separare, dopo ben trent’anni di vita in comune, per adempiere la Scrittura e assolvere correttamente la sua opera di salvezza. Proprio per essere totalmente al servizio del Padre, Gesù volle rendere la sua opera completamente libera da vincoli di carne e di sangue, non per rinnegarli ma per integrarli all’interno della famiglia più allargata e più universale di Dio. Che Maria, figlia e madre e sposa del nostro unico Dio, faccia sí che la santa Chiesa di Cristo, concorde e assidua nella preghiera, riesca ancora una volta a comprendere e ad onorare la volontà del suo divino fondatore.   

NOTE

 1 Alfons M. Stickler, Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, Libreria Editrice Vaticana, 1994, qui citato dal sito Haerent animo, p. 3. Ma uno studio meritevole di considerazione e citato dallo stesso sito è anche quello di Alfredo Marranzini, Il celibato nella Chiesa antica, in “L’Osservatore Romano”, 16 gennaio 1998, che si richiama esplicitamente allo studio di Stickler e a quello di Christian Cochini, altrettanto famoso, Origines apostoliques du célibat sacerdotal, Le Sycamore, Lethellieux Namur-Paris, 1981. Da segnalare, infine, il recente articolo di C. Hummes, L’importanza del celibato sacerdotale, sempre in Haerent animo, 16 febbraio 2007.                   

  2 1 Tm 3,2; 3,12; Tt 1,6 e poi Lc 18, 28,30; Mt 19, 27,30; Mc 10, 20,21.

 3 Stickler, op. cit., p. 11.

 4 Ivi,  p. 9.

 5 Ivi.

 6 Ivi, p. 10.

 7 Ivi, p. 22.

 8 La Chiesa cattolica e l’importanza del celibato, in sito Agenzia Fides, 11 marzo 2006, p. 23.

 9 C. Hummes, L’importanza del celibato sacerdotale, cit., p. 5.

 10 N. Bux, Il celibato sacerdotale consiglio di Dio divenuto necessità, in “L’Osservatore Romano” del 26 ottobre 2008.

 111Corinzi 9, 5.

 12 1 Tm 3, 5. 

 

(inedito del 20 febbraio 2009)