Amare i nemici e pregare per i persecutori

Scritto da Francesco di Maria.

 

Uno dei peccati più odiosi è quello di nominare Dio e la sua parola invano ovvero in un modo improprio che non consiste solo nell’imprecazione e in un uso tra il banale e il superstizioso, ma che a seconda dei casi può essere strumentale, autoritario, eversivo, paternalistico. Ed è un peccato che si viene commettendo in parte per semplice ignoranza, in parte per una inveterata tendenza psicologica ad utilizzare la parola del Signore in funzione di determinati schemi mentali e di talune più o meno inconsce esigenze di semplificazione dottrinale e spirituale. Accade cosí che, anche in presunti ambienti qualificati, la parola di Dio finisca talvolta per essere percepita come espressione di una consapevolezza troppo arretrata ed elusiva o viceversa troppo avanzata e distorsiva rispetto alla problematicità e drammaticità delle situazioni reali. Sia che si parli di pace, sia che si parli di umiltà, sia che si parli di giustizia o di qualsiasi altro argomento, c’è sempre il rischio di intendere gli insegnamenti divini o in un modo eccessivamente riduttivo o in termini di eccedenza interpretativa rispetto al loro senso effettivo. Anche quando l’argomento trattato è un tema centrale e particolarmente delicato della nostra fede come l’amore per i nemici, si rischia sempre di incorrere in qualche errore di giudizio. Per cui occorre pregare ardentemente il Signore di far scendere su di noi il suo santo spirito affinché ci illumini e ci consenta di dare indicazioni o spiegazioni adeguate.

Se ci limitiamo a dire che i nostri nemici ovvero, indipendentemente dal fatto che si dichiarino credenti o meno, i malvagi, i prepotenti, i superbi, e in generale tutti coloro che possono essere racchiusi nella categoria degli empi, devono essere amati sempre e comunque, noi diciamo una cosa vera ma diciamo anche una cosa astratta, non chiara, non completamente comprensibile e piuttosto irrealistica. Se riteniamo che, per ottemperare alla logica del “porgere l’altra guancia”, non dobbiamo mai citare in giudizio nessuno e a nessuno resistere nei tribunali; né usare la forza a volte anche letale contro malviventi e malfattori incalliti che mettono a repentaglio l’altrui incolumità; né compiere alcun gesto che comporti una reazione fisica e psicologica piuttosto accentuata o esacerbata e in quanto tale da definire violento a prescindere dalle cause che lo hanno determinato; se pensiamo che in casi di questo tipo e affini noi veniamo necessariamente o inevitabilmente meno al precetto evangelico di amare il prossimo e persino i propri nemici, è probabile, con tutto il rispetto per le opinioni di quanti eventualmente dissentono, che non abbiamo ben compreso il senso delle parole di Gesù, che ha sempre espresso esigenze spirituali molto rigorose e radicali senza tuttavia mai peccare di rozza ingenuità e di irrealismo, di astrattezza predicatoria e di fumoso utopismo.

Il problema è capire in che senso Gesù ci prescrive di non opporci al male con il male, di non resistere ai malvagi e di pregare anzi per nemici e persecutori. Gesù non dice mai che il nemico in realtà non è un nemico o che esso può diventare nostro amico se non gli manifestiamo sentimenti ostili. Gesù, quando ci raccomanda di amare i nemici, non ci vuol dire che dobbiamo lasciarci schiacciare da loro senza opporre alcuna resistenza. Egli ci vuol dire invece che possiamo opporci loro con il bene, cioè in modi e con mezzi giusti e legittimi, che non coincidono con quelli della cosiddetta legge del taglione, senza cadere quindi nella spirale di violenza o di odio in cui vorrebbero trascinarci. Non si tratta di battere paurosamente in ritirata, di fuggire davanti al malvagio ma di affrontarlo con spirito di verità e di carità (il porgere l’altra guancia) anche se questo dovesse costarci parecchia pazienza e parecchio sacrificio. Non si tratta neppure del fatto che, per uscire da situazioni indesiderate, non si debba mai ricorrere eventualmente alla legge e ai giudici e a tutte le forme civili e giuridiche di difesa consentite nella propria comunità di appartenenza. Gesù non ha inteso dire tutto ciò, ma ha inteso invitarci a considerare colui che ci procura tanto fastidio o vuole danneggiarci con ogni mezzo pur sempre come un nostro fratello in Dio, che, proprio perché sta sbagliando gravemente e ci sta offendendo pesantemente, non può indurci ad emularlo con sentimenti incontrollati di odio e di vendetta, ma deve indurci a pregare il nostro Padre celeste perché conceda a lui la grazia del pentimento e della conversione e a noi la grazia di non chiuderci alla possibilità di instaurare con lui un rapporto umano più fraterno e solidale.     

Insomma, non è che Gesù ci chieda di vivere come se non esistessero né nemici, né malvagi, né persecutori: nella vita di ogni giorno esistono e lui sa bene che da essi bisogna guardarsi ed è necessario agire con molta prudenza e circospezione e persino con una certa larghezza di vedute, e anche, se necessario, con coraggio e con la volontà di opporsi alla menzogna e al sopruso solo con le armi della verità e della giustizia, ivi comprese quelle che ci incoraggiano costantemente a non far prevalere in noi le ragioni talvolta comprensibili dell’odio su quelle necessarie e ben più utili dell’amore. E’ solo cosí che l’etica cristiana si conferma quale etica non dei deboli e dei vili ma dei forti e dei giusti in Cristo.

E’ necessario capire bene che il messaggio di nostro Signore non è un vago o generico messaggio d’amore, ma un messaggio che muove dall’esatta consapevolezza di come possano essere tumultuose e distruttive le pulsioni dell’animo umano soprattutto in circostanze particolarmente critiche e che proprio per questo insiste sulla necessità di interiorizzare profondamente, attraverso un’incessante attività di preghiera, quei meccanismi psichici e mentali di controllo che sono assolutamente indispensabili ad un esercizio equilibrato e saggio delle nostre funzioni intellettive e volitive. Quando Gesù prese a frustate i cosiddetti mercanti del tempio, non perse il controllo di sé e non si comportò in maniera violenta (anche la parola violenza viene spesso usata in modo improprio). Semplicemente reagí in modo appropriato a comportamenti manifestamente lesivi della dignità di Dio e della stessa fede in Dio. Con un semplice discorso forse egli in quel momento non sarebbe riuscito a sottolineare la gravità di quell’atteggiamento superficiale e indecoroso assunto verso Dio: reagendo in quel modo ha reso ben più indelebile il concetto per cui Dio è con noi solo se non è uno degli interessi della nostra vita ma l’unico esclusivo interesse che ci spinge a comportarci di conseguenza. E anche quando reagisce allo schiaffo del tutto gratuito di quel soldato nel sinedrio, chiedendo ragione di quell’atto violento, Gesù fa capire bene che la non violenza del cristiano non dev’essere muta e passiva rassegnazione a ricevere colpi gratuiti, anche se tale avvertenza non preclude naturalmente la doverosa disponibilità al perdono. 

D’altra parte, egli non trova niente da ridire circa il fatto che briganti, malfattori e terroristi possano essere accolti con spade e bastoni e messi quindi in condizione di non nuocere. Si ricorderà poi che egli non solo non condanna ma apprezza un centurione ovvero un militare che ripone la sua fede in lui, pur sapendo bene che quel mestiere impone talvolta di difendere anche violentemente la vita o la dignità dell’imperatore. E infine come non pensare a Pietro che fa uso della spada per difendere il suo divino maestro? Si noti: qui Gesù impedisce a Pietro non di usare la spada ma di colpire una seconda volta il suo nemico con la spada: è cioè comprensibile che Pietro voglia difendere il Cristo che tuttavia, preoccupandosi d’altronde per la  incolumità del discepolo (chi colpisce con la spada, anche se con giusta ragione, si espone al forte rischio di perire di spada, proprio come sarebbe toccato agli zeloti di perire prima sotto la spada romana nel 70 d. C., anno della distruzione di Gerusalemme, e poi sotto la propria lama suicida nel 73 d. C. a Masada), lo invita ad essere paziente, essendo peraltro necessario che si adempia una profezia che riguarda il Cristo stesso come uomo e come Dio. 

Amare i nemici allora non implica evidentemente l’illegittimità di qualsiasi forma di resistenza anche armata ed è vero, come qualcuno ha sostenuto, che l’originale logica cristiana dell’amore e del perdono nulla concede al «conformismo» e al «bigottismo», benché resti assolutamente chiaro che la peculiarità di questa logica è nel divieto di fare un uso reiterato o arbitrario della violenza stessa. Ne deriva pertanto l’opportunità di precisare e ribadire che verosimilmente il consiglio di porgere l’altra guancia, che è da intendere come esortazione non alla resa ma a non indietreggiare e ad avere coraggio di fronte alla violenza gratuita, è rivolto in particolare a chi sappia perfettamente di potersi e doversi immolare da solo per il bene altrui (di amici e nemici) senza opporre resistenza, ma non a chiunque si trovi ad essere responsabile della difesa e della sopravvivenza fisica di altre vite e di vite per cosí dire innocenti.

Amare i nemici, augurare loro cose buone e sante, pregare per i persecutori affinché cambino vita, è tutto ciò che il cristiano deve sforzarsi di fare, ma non per lasciare sostanzialmente incontrastati soggetti violenti ed iniqui – tant’è vero che un precetto (a dire il vero molto trascurato nelle nostre chiese) della Didaché prescrive che «se uno ha commesso una mancanza contro un compagno, nessuno gli parli o lo ascolti, finché non si sia convertito» – bensí per ottenere l’aiuto di Dio ed essere pronto ad aiutare anche quei nemici nel caso in cui un giorno proprio noi fossimo nella condizione di fare qualcosa di buono o di utile per loro e la loro esistenza.

La nostra fede in Gesù ci pone dinanzi a diverse possibilità: se si rende necessario persino il nostro martirio personale, noi dobbiamo sforzarci di accettarlo con fede; se si rende necessaria la nostra lotta perché il nostro prossimo, pur portando la sua croce, non venga crocifisso, noi dobbiamo lottare quanto più caritatevolmente possibile a questo scopo; se infine proprio gli operatori di iniquità dovessero avere anche materialmente bisogno del nostro soccorso, noi dovremo essere pronti ad offrirglielo.    

Si badi: in che modo e con quale spirito ci si debba comportare verso gli operatori di iniquità, che sono i nemici per eccellenza, è già chiaramente spiegato nell’antico o primo testamento. Già in Genesi (50, 15-20), i fratelli di Giuseppe, temendo che questi, che era stato da loro venduto, possa trattarli da nemici vendicandosi di loro, gli mandano a dire che il padre, prima di morire, aveva dato questo ordine: «Direte a Giuseppe: perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male! Perdona dunque il delitto dei servi del Dio di tuo padre!». E cosa fa Giuseppe? «Giuseppe pianse quando gli si parlò cosí. E i suoi fratelli andarono e si gettarono a terra davanti a lui e dissero: “Eccoci tuoi schiavi!”.  Ma Giuseppe disse loro: “Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso. Dunque non temete, io provvederò al sostentamento per voi e per i vostri bambini”. Così li consolò e fece loro coraggio». Ecco cosa significa innanzitutto amare i nemici: avere la possibilità di vendicarsi di loro, di distruggerli, di umiliarli e decidere invece di non mettersi al posto di Dio, di perdonarli, di soccorrerli.

E il Levitico (19, 17-18) recita: «non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d'un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso». Dove non si proibisce solo l’ostilità effettiva ma anche emozioni o sentimenti come l’invidia, la rivalità, il desiderio di vendetta e tutti quei sentimenti che corrompono il cuore dato all’uomo per amare, e dove però non si esclude che il nostro prossimo possa essere da noi rimproverato apertamente. E per aver chiaro che l’amore per i nemici consta di atti quotidiani molto concreti e non programmabili, in Esodo si legge: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo» (23, 4-5). E poi: «non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d'Egitto» (23, 9).  

I Proverbi poi, al riguardo, sono una vera e propria miniera di indicazioni: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere; perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà. Una città smantellata o senza mura: tale è l'uomo che non sa dominare la collera» (25, 21-22 e 28); «Non dire: «Come ha fatto a me così io farò a lui, renderò a ciascuno come si merita» (24, 29); «non ti rallegrare per la caduta del tuo nemico e non gioisca il tuo cuore, quando egli soccombe, perché il Signore non veda e se ne dispiaccia e allontani da lui la collera. Non irritarti per i malvagi e non invidiare gli empi, perché non ci sarà avvenire per il malvagio e la lucerna degli empi si estinguerà» (24, 17-20). E non meno significativo è il libro di Giobbe: «Ho gioito forse della disgrazia del mio nemico e ho esultato perché lo colpiva la sventura, io che non ho permesso alla mia lingua di peccare, augurando la sua morte con imprecazioni? Non diceva forse la gente della mia tenda: “a chi non ha dato delle sue carni per saziarsi?”. All’aperto non passava la notte lo straniero e al viandante aprivo le mie porte» (31, 29-32).

L’amore per i nemici, dunque, non costituisce una radicale novità introdotta da Gesù. E’ ben presente già nell’antico testamento, ma, poiché nel succedersi e nel cumularsi delle numerose interpretazioni rabbiniche, questo essenziale valore della vita spirituale, cosí lucidamente articolato e proposto, era venuto attenuandosi o alterandosi nella coscienza religiosa ebraica, Gesù ripristina la gerarchia dei valori, evidenzia e sviluppa il senso razionale della parola di Dio contro le sue errate o riduttive interpretazioni storiche e contro le sue incrostazioni dogmatiche, esplicita le intenzioni più genuine e profonde di Dio e conferisce cosí anche in questo caso una forma compiuta e perfetta a quella Toráh, a quell’insegnamento della parola e della volontà divine che, quantunque difettoso e insufficiente, aveva rappresentato nei secoli il cuore della fede ebraica.

Infatti Gesù, venuto non per abolire ma per portare a compimento la vecchia alleanza, non dice che non sia naturale, non sia umanamente comprensibile l’odio verso i nemici, verso coloro che ingiustamente colpiscono i nostri affetti o i nostri legittimi beni, né mette in discussione il diritto personale e comunitario a difendersi da soprusi e prevaricazioni attraverso un complesso e pur imperfetto sistema giuridico e sanzionatorio, ma precisa che lo sforzo che l’uomo è chiamato da Dio a compiere e il “merito” che è chiamato ad acquisire è proprio quello non già di disconoscere o mettere in sordina le oggettive ragioni dell’odio ma quello di non far comunque prevalere l’odio sull’amore, la condanna o la vendetta sul perdono e sulla riconciliazione ("Sapete che è stato detto: ama i tuoi amici e odia i tuoi nemici. Ma io vi dico”, Mt 5, 43). Insomma, l’amore di cui parla Cristo non è scontato, non è automatico, non è retorico, non è indolore, né è concesso per convenienza, ma è molto costoso perché frutto di profonda e dolorosa lacerazione interiore, frutto di una conquista spirituale per niente facile e lineare ma fortemente contrastata da molteplici fattori psichici, affettivi, esistenziali che Cristo non ha mai sottovalutato o negato. Ed è indubbio che Cristo più che al perdonare sia  attento al modo di perdonare, alla qualità del perdonare, alle ragioni per le quali perdoniamo.

Perciò, quando noi parliamo di perdono, di riconciliazione, di amore verso i nemici, dobbiamo evitare di farlo con toni troppo enfatici e concentrandoci più sulla necessità dell’amore da offrire all’offensore che sulla realtà dell’amore violato della persona offesa. Dobbiamo essere ancora una volta sobri e misurati, dobbiamo essere giusti e misericordiosi come Gesù, che gradisce molto i nostri sforzi sinceri di perdonare e di riconciliarci con chi ci ha offeso ma che innanzitutto è e resta vicino a chi ha subíto gravi torti. Ognuno, con l’aiuto divino, perdonerà secondo le sue reali possibilità spirituali e il Signore saprà giudicare alla fine il valore degli sforzi compiuti da ciascuno di noi, i “meriti” effettivi che ciascuno di noi avrà saputo acquisire.