Tradizione, tradizionalismo ed ermeneutica della fede

Scritto da Francesco di Maria.

 

Per i cattolici sono due le fonti della Rivelazione: le sacre scritture e la tradizione. Ma bisogna precisare che, dopo il Concilio Vaticano II, la tradizione non è stata più intesa, come era avvenuto precedentemente per molti secoli, come statico “deposito da conservare”. Infatti, recita la Dei Verbum del 18 novembre 1965, «questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (secondo capitolo, par. 8), laddove in un successivo documento viene precisato che tale «interpretazione viva, che avviene sotto la guida dello Spirito Santo, non ha nulla da spartire con un facile adattamento allo spirito del tempo; al contrario, spesso essa può far valere l'attualità della Tradizione solo attraverso una profetica testimonianza contro lo spirito del tempo» (W. Kasper, Il carattere teologicamente vincolante del Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II “Unitatis redintegratio”, in L’Osservatore Romano di domenica 9 novembre 2003, p. 6).

La tradizione cresce o progredisce, nel senso che ne vengono alla luce tesori nascosti di significato e di vitalità spirituale anche per il presente, sulla base della compresenza di tre condizioni: che i fedeli meditino nel proprio cuore le parole della scrittura; che si acquisiscano esperienze personali e comunitarie sempre più profonde delle cose spirituali; che le nuove ipotetiche conquiste dello spirito siano legittimate dalla predicazione apostolica. Ha scritto Piero Stefani: «È fondamentale che si diano contemporaneamente tutti e tre gli elementi. La crescita non può avvenire prescindendo dal sostegno reciproco. Nessun fattore può, da solo, surrogare gli altri due. Lo studio è monco senza l’esperienza spirituale, ma tale è anche il magistero se non è alimentato dalla ricerca e dalla vita di fede dei credenti. In caso contrario la Parola viene sequestrata. Se il magistero pretende di sostituire la ricerca di fede a cui è chiamato ogni credente, se non si pone in ascolto dell’intelligenza di fede che germina all’interno della comunità, se i membri dell’episcopato non si impegnano in proprio come semplici fedeli ad acquisire un’autentica intelligenza della Parola, la tradizione perde consistenza e dinamismo. Lo stesso può dirsi nel caso in cui i fedeli, presi da scoramento, agiscano separandosi dal magistero. Sono condizioni esigenti che bastano a giustificare perché l’esperienza della crescita risulti tutt’altro che garantita all’interno della Chiesa» (P. Stefani, Tradizione e conoscenza della Bibbia. La testimonianza viva della parola nell’esperienza ebraico-cristiana, pro manuscripto, poi in gran parte confluito in “Il pensiero della settimana” n. 246. Riflessioni bibliche di P. Stefani, Intervista sul futuro della Chiesa, 22 aprile 2009).     

Quindi, assicurare che la tradizione venga conservata e trasmessa nella sua genuinità e nella ricchezza dei suoi aspetti, non è un’opera semplice, ma un’opera molto complessa e delicata che richiede grande pazienza e capacità di ascolto reciproco, e soprattutto una smisurata capacità di discernimento che non può essere acquisita senza l’aiuto dello Spirito Santo (la cui funzione peraltro non può essere banalizzata con l’attribuirgli ogni volta tutto e il contrario di tutto e persino le cose più banali). Il che non toglie tuttavia che, ove vi siano manifeste e reiterate violazioni della lettera e dello spirito biblici, il magistero della Chiesa abbia tutto il diritto e il dovere di intervenire e di esercitare la sua autorità. Comunque, e anche in virtù di quanto sinora detto, il concetto di tradizione ha un significato meno scontato e meno lineare di quel che generalmente si crede. Già nell’originario termine latino trado è contenuta non solo l’accezione positiva di trasmettere o tramandare ma anche quella negativa di tradire, cioè alterare o manomettere ciò che si è ricevuto oppure trasmetterlo o tramandarlo, sia pure in buona fede, in una forma diversa da quella originale. E anche questo spiega perché la tradizione della Chiesa sia in realtà un patrimonio di idee certo omogenee quanto alla comune fede ma molto diverse quanto al modo di intendere e di interiorizzare le più intime articolazioni di questa fede, per cui in tale tradizione agisce perennemente il principio dinamico dell’acquisire ripensando o rivedendo, del trasmettere correggendo o approfondendo in rapporto a quanto originariamente insegnato, trasmesso e consegnato da Cristo stesso. Donde pure la conseguenza che altro è la tradizione, altro il tradizionalismo, il pretendere cioè di piegare la fede a idee, a norme e a prassi religiose e liturgiche non riconducibili in modo certo all’insegnamento e allo spirito di Cristo. Si commette quindi un grave errore quando si pretende di esaurire la tradizione nel tradizionalismo. E, anzi, talvolta il problema è proprio quello di difendere, con tatto ma anche con intelligenza ed energia, la tradizione dal tradizionalismo (Ivi). 

Al tempo stesso, bisognerebbe liberarsi da un altro luogo comune: che la tradizione debba essere invocata per resistere alle novità di qualunque genere nel nome di un modo consolidato di intendere fede e vita ecclesiale. Ma come: non è il Vangelo perenne novità dello Spirito? E non è forse attraverso la trasmissione quanto più fedele possibile di questa novità che sarà sempre possibile e anzi doveroso aprirsi alle sollecitazioni sempre nuove ed urgenti dello Spirito Santo? E’ sempre stato cosí dall’origine e il vero compito della Chiesa è quello di mantenere intatto il patrimonio ereditato. Cosí si dice. Ma è proprio vero che in origine proprio tutto era esattamente uguale a quello di cui è oggi depositaria la Chiesa? Può darsi che qualcosa, strada facendo, sia andato perduto, sia stato attenuato o sia stato accentuato? Può darsi che alcuni aspetti della fede, magari in perfetta buona fede, e in modi che non è più possibile ricostruire perfettamente sotto il profilo storico, siano stati parzialmente travisati, depotenziati o trascurati? E poi, non è forse vero che in un patrimonio cosí vasto e ricco qual è la nostra tradizione sono sempre esistite ed esisteranno sempre molte possibilità non realizzate e molte virtualità spirituali che tutti dovrebbero cercare di attuare? Quello che nella tradizione prevale storicamente è certo frutto di un lavoro apostolico, ecclesiale e comunitario esercitato in spirito di verità. Non c’è motivo di dubitarne, in linea di massima. Ma questo non significa che non ci sia dell’altro da recuperare rispetto alle origini, al Logos, a Cristo; che non ci sia dell’altro da riportare alla luce perché la Verità risplenda una volta di più nelle menti e nelle coscienze dei contemporanei.

Bisogna fare molta attenzione a questo discorso sulla tradizione anche perché talvolta la tradizione smarrisce ogni significato positivo per caricarsi di un significato esclusivamente negativo. Si ricordi l’ammonizione di nostro Signore, che non può valere naturalmente solo per i sacerdoti e per il popolo della sua epoca. A quei farisei e a quegli scribi che gli chiedevano perché i suoi discepoli non rispettassero la tradizione degli antichi, ovvero un certo tradizionalismo, Gesù rispondeva: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”: Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7, 6-8).  Usare la tradizione per cristallizzare la parola di nostro Signore in questa o quella tradizione interpretativa o anche in un certo numero di convergenti interpretazioni interpretative, in questa o quella prassi liturgica, in questa o quella esperienza ecclesiale e comunitaria della storia umana, non è certo il modo più saggio per onorare e preservare nella sua purezza l’originario deposito della fede. Nella tradizione ci sono molte cose buone e sante che servono ad illuminare il cammino dei credenti di ogni generazione, ma non è detto che in essa tutto di quel che ne è stato già accolto sia perfetto, ineccepibile, insuperabile, perché lo Spirito Santo conduce gli uomini, secondo i suoi desideri e i suoi piani, a comprendere e ad assimilare sempre meglio, o se si vuole in forme sempre più ampie ed originali, l’infinita Verità di Cristo e la sua sempre chiara e sempre misteriosa volontà.

Volendo mutuare un’espressione dalla terminologia filosofica, si può dire che nessuna delle forme fenomenologiche della tradizione può essere identificata con l’idea, ovvero (nel senso etimologico della parola) con l’essenza, della tradizione stessa. Anche in questo caso, secondo quanto più volte affermato da Benedetto XVI, dobbiamo cercare di fare uso di una ragione più larga delle forme cui essa è stata consegnata in passato e in cui ancora oggi si è talvolta tentati di fissare il suo definitivo sigillo di legittimità. La fede, come la razionalità, è un processo ad infinitum sempre suscettibile di revisioni ed approfondimenti opportunamente controllati e verificati, che, lungi dal perdere di vista la Verità, contribuiscono a renderla sempre più luminosa e pregnante.    

Stando cosí le cose non può non apparire chiaramente arbitrario l’asserire che la migliore difesa della tradizione sarebbe il tradizionalismo. Sí, arbitrario: come mai i tradizionalisti si sono arrogati il diritto, moderno, di scegliere una loro via all’interno della Chiesa postconciliare introducendo nel cuore stesso della Chiesa cattolica una forma di chiesa controriformistica? Come mai proprio i tradizionalisti hanno violato il principio fondamentale dell’intero ordinamento cattolico, ovvero l’obbedienza incondizionata al papa e quindi al supremo magistero della Chiesa? Certo, poi Benedetto XVI ha cercato di sanare, per cosí dire, la ferita da essi inferta all’unità della Chiesa: ma in che modo? Anche lui, come loro, cerca una riconciliazione appellandosi ad istanze tipicamente moderne, che di tradizionalistico e anche di tradizionale non hanno praticamente niente: l’opzione per questo o per quel rito ugualmente presenti nella storia liturgica, l’elogio del pluralismo sia pur sempre nei limiti delle pratiche religiose riconosciute dall’assemblea ecclesiale universale, e persino una certa comprensione per la disubbidienza (P. Stefani, Il tradizionalismo non è la tradizione, in “Esodo” n. 1 del gennaio/marzo 2008 e poi Il tradizionalismo modernista di Benedetto XVI, in  “Koinonia” dell’agosto 2007). 

 E si potrebbe continuare a lungo (si pensi a certe preghiere mutate nel corso di secoli o di decenni oppure ai requisiti, anch’essi storicamente mutati e mutevoli, necessari all’ordinazione sacerdotale, e via dicendo) per dimostrare non solo come il tradizionalismo in realtà non possa affatto rappresentare la più santa ed alta tradizione della Chiesa, appunto perché tale tradizione non è mai completamente ferma ma perennemente seppur lentamente in cammino verso una comprensione sempre più avanzata e perfetta di quelli che furono, che sono e saranno il vero volto ed il vero cuore di Cristo, ma anche come sia problematico il concetto stesso di tradizione nella e per la Chiesa.

La sacra tradizione, che al pari della Scrittura ha un’origine divina, dice il papa correttamente citato in un recente articolo, «trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano. In questo modo la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono esser accettate e venerate con pari sentimento di pietà e di riverenza"» (Zenon Grocholewski, L'autentico realismo si trova nella fede, L'Osservatore Romano - 22-23 maggio 2009). Il che è naturalmente vero, anche se, credo, occorrerebbe un riconoscimento magisteriale esplicito circa il fatto che, proprio perché lo Spirito Santo non agisce al posto dell’uomo ma attraverso l’uomo, non possa escludersi né in linea di principio né in linea di fatto, l’errore umano sia nella conservazione, sia nella esposizione e nella diffusione di temi o articoli non centrali e tuttavia importanti della dottrina rivelata; errore umano che fa sí che la fede certa in Cristo possa poi coincidere, nella storia della Chiesa, con una ricerca inesauribile e pur sempre ispirata ed alimentata dallo Spirito di Dio dell’identità umana e divina di Cristo stesso. In questa prospettiva non c’è motivo di pensare che un riconosciuto padre della Chiesa del quarto secolo debba aver conosciuto ed amato necessariamente il Signore molto meglio di un nostro ipotetico e sconosciuto mistico contemporaneo del XXI secolo. Anche da questo punto di vista il Signore ha voluto essere equanime con tutti i suoi figli e con tutte le generazioni della sua famiglia umana, facendosi e restando, tramite la Chiesa ma anche tramite l’azione policentrica dello Spirito Santo, contemporaneo di tutti e di tutte le generazioni, perché a nessuno di noi e a nessuna generazione storica fosse mai preclusa la possibilità di conoscere e amare la sua più intima e profonda volontà.

 I padri, pertanto, dovranno essere venerati per la profondità della loro esperienza spirituale e per averci trasmesso un patrimonio di conoscenze e di idealità religiose di inestimabile valore, e con essi dovranno essere altresí venerati la sacra tradizione, l’intera esegetica biblica maturata in seno a quest’ultima e almeno i momenti più importanti della complessiva opera storica di legittimazione esegetico-interpretativa prodotta dall’alto magistero della Chiesa. Ma tutto questo non potrà mai impedire che il soffio rigeneratore e vivificante dello Spirito di Dio provenga ogni volta da direzioni anche diverse da queste ovvero da quelle ormai canoniche attraverso cui si è manifestata e si manifesta perennemente e ordinariamente la Parola e la Volontà di Dio stesso. 

D’altra parte, è perfettamente comprensibile che il papa batta continuamente sui tasti dell’autorità della tradizione, del magistero e della stessa scrittura da interpretare sempre alla luce della tradizione e del magistero ecclesiale: egli teme uno scollamento tra questi tre fronti e fonti della parola di Dio, teme l’insorgere nella comunità ecclesiale di forme individualistiche che hanno sempre rischiato di minare e oggi più che mai minerebbero l’unità della Chiesa: «fra Cristo e la Chiesa non c'è alcuna contrapposizione:  sono inseparabili, nonostante i peccati degli uomini che compongono la Chiesa. È pertanto del tutto inconciliabile con l'intenzione di Cristo uno slogan di moda alcuni anni fa:  "Gesù sì, Chiesa no". Questo Gesù individualistico scelto è un Gesù di fantasia. Non possiamo avere Gesù senza la realtà che Egli ha creato e nella quale si comunica. Tra il Figlio di Dio fatto carne e la sua Chiesa v'è una profonda, inscindibile e misteriosa continuità, in forza della quale Cristo è presente oggi nel suo popolo. È sempre contemporaneo a noi, è sempre contemporaneo nella Chiesa costruita sul fondamento degli Apostoli, è vivo nella successione degli Apostoli. E questa sua presenza nella comunità, nella quale Egli stesso si dà sempre a noi, è motivo della nostra gioia. Sì, Cristo è con noi, il Regno di Dio viene» (Papa Benedetto XVI, La Chiesa costruita sul fondamento degli apostoli, I dodici “pescatori” che ci insegnano a non essere individualisti, in L'Osservatore Romano, 19 aprile 2009).

Dove non c’è nulla che non debba essere sottoscritto e dove tuttavia non è né irriverente né inopportuna la precisazione per cui Cristo, il suo insegnamento, la sua vita, come la sua carne e il suo sangue, restano sempre più grandi e preziosi della Chiesa e del suo pur immane lavoro di testimonianza nella verità e nell’amore. Ciò comporta anche che la Chiesa può sbagliare (forse che i padri non hanno mai sbagliato persino su questioni non marginali e non si sono dovuti correggere ed integrare gli uni con gli altri?), sul piano della scienza teologica e della carità, mentre solo Cristo è infallibile e che essa può talvolta evitare (soprattutto a livello di magistero pontificio) e talvolta superare i suoi errori solo in virtù dello Spirito Santo che non l’abbandona mai anche se per esserle utile sceglie vie o percorsi sempre inediti ed originali e comunque inattesi. Il che non può non suonare, di conseguenza, per la comunità ecclesiale complessivamente considerata, come monito necessario ad esercitare il suo esercizio e la sua testimonianza standosene ben al riparo da tentazioni trionfalistiche e da indesiderabili dimostrazioni di sicumera dottrinaria.

E cosí, anche quando il papa dice che «la Bibbia va letta e interpretata alla luce della Tradizione della Chiesa», dice certamente una cosa giusta e saggia, ma spero che non avrebbe da eccepire alcunché a chi aggiungesse che, tuttavia, anche la Tradizione della Chiesa va riletta e reinterpretata frequentemente alla luce della Bibbia e soprattutto del Vangelo, in una circolarità ermeneutica senza fine che abbia come obiettivo sia una graduale depurazione sia un allargamento o una dilatazione quanto più ampia e profonda possibile del senso della Parola salvifica del Redentore.