Il Regno e la Chiesa
Il Regno di Dio, che è eterno e che è perfettamente coincidente con lo stesso Regno di Cristo, ha anche una duplice dimensione temporale che riguarda il presente ed il futuro. Per quanto si riferisce al presente, esso è tutto ciò che Cristo ha insegnato e ha vissuto: oltre che una totale comunione con il Signore e con i fratelli, e a motivo di essa, esso contiene una perfetta giustizia, una condizione di vera libertà spirituale e di esemplare eguaglianza, un’assoluta felicità pur nelle vicende amare e dolorose della vita. Già ora si può far parte di questo regno, rimanendo al seguito di Gesù, anche se nei suoi tempi storici sarà possibile cogliere parzialmente quei frutti e quella pienezza di vita di cui si potrà usufruire e godere completamente e permanentemente solo nei suoi tempi escatologicamente più maturi e collimanti con il glorioso ritorno di Cristo. Il glorioso ritorno di Cristo è quello che introduce all’avvento di “nuovi cieli e nuova terra”, a quello sconvolgimento del mondo terreno e dell’intero cosmo attraverso cui verrà concretamente e pienamente manifestandosi, in tutta la sua bellezza e in tutto il suo splendore, la realtà celeste. Il Regno di Dio-Cristo dunque che comincia quaggiù, espandendosi gradualmente e sia pure imperfettamente lungo la storia umana, avrà il suo compimento futuro nella perfetta instaurazione della realtà e della legislazione divine.
Un teologo tedesco, Hermut Löhr, ha sostenuto che «la descrizione più minuziosa e impressionante del mondo celeste» che si trova nel Nuovo Testamento è quella offerta dai versetti 12, 22-24 della Lettera agli ebrei, dove è singolare che i destinatari della lettera stessa si siano già «accostati» a quel mondo celeste, trascendente, chiamato “monte Sion”, “città del Dio vivente” e “Gerusalemme celeste”, in cui miriadi di angeli si raccolgono in un’adunanza festosa con l’“assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli” e con gli “spiriti dei giusti portati alla perfezione”, alla presenza di Gesù “mediatore di un’alleanza migliore” (Eb 8, 6) e “sommo sacerdote di beni futuri” (Eb 9, 11) [Cfr. G. Vanoni-B. Heininger, Il Regno di Dio, Bologna, EDB, 2004, p. 171]. Dunque, questa realtà celeste cui, grazie alla fede in Gesù Cristo che intercede per noi davanti a Dio, ci si può “accostare” non solo metaforicamente ma realisticamente, è presentata come una realtà concretamente sperimentabile da parte di tutti coloro che, sforzandosi di ottemperare ai comandi del Cristo, saranno stati degni del suo perdono e della sua misericordia.
Ma sin quando si è o si vive sulla terra, il contatto con questo mondo celeste è ancora limitato, per cui è necessario ringraziare continuamente il Signore, con preghiere e opere, affinché questo “regno incrollabile”, in cui il Padre e il Figlio esercitano la loro assoluta sovranità e al quale siamo predestinati dalle intenzioni di Dio, un giorno possa diventare stabilmente e pienamente il regno della nostra vita, del nostro amore e della nostra felicità permanente. Questo “regno”, questo “cielo”, non sono pertanto e semplicemente l’indicazione di uno stato mentale o spirituale in cui verrebbero a trovarsi tutti i santi e i beati, ma anche l’indicazione di un “luogo” (com’è quello meraviglioso contemplato dalla realistica descrizione giovannea nell’Apocalisse) e di una nuova condizione umana che è insieme spirituale e corporea o materiale nella quale e in virtù della quale gli uomini e le donne “premiati” da Dio potranno finalmente conoscere e sperimentare eternamente quella assoluta beatitudine che non è raggiungibile nel corso della vita terrena neppure nei casi in cui ci si conformi perfettamente a Cristo Gesù. Il presupposto di questa appartenenza compiuta e non più virtuale o potenziale è, come si legge nella seconda lettera di Pietro (1, 5-11), il seguente: «cercate di rendere sempre più salda la vostra chiamata, e la scelta che Dio ha fatto di voi». In che modo? Mettendo «ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità» (Ivi).
Ma è altrettanto importante sottolineare che quel cielo nuovo e quella terra nuova che ci attendono non hanno solo un valore simbolico e genericamente spirituale perché in realtà corrispondono proprio ad una nuova realtà fisico-materiale e ad una struttura o dimensione spazio-temporale radicalmente rinnovata o ricreata, dove naturalmente anche le qualità dei corpi e degli spiriti risulteranno profondamente diverse da quelle di cui abbiamo esperienza. Beninteso, quel cielo e quella terra nuovi potranno essere abitati non da tutti indiscriminatamente ma da tutti coloro che già quaggiù saranno stati partecipi delle sofferenze e della passione di Cristo con una testimonianza non fatta di parole e buone intenzioni ma di pensieri e atti spirituali quotidiani oggettivamente grondanti di gratitudine e di lode per il Signore e di reiterato amore verso i fratelli. I destinatari di quel cielo e di quella terra saranno in sostanza coloro che «avranno già realizzato qualcosa della nuova creazione escatologica».
Però prima occorre che la signoria di Dio si instauri completamente sulla terra attraverso un’aspra e drammatica lotta contro le forze demoniache, irrazionali ed inique che imperverseranno sempre di più nella storia degli uomini. Quando la gloria di Dio si sarà manifestata nella sua pienezza e nella sua massima estensione, si assisterà all’avvento della Gerusalemme celeste nella quale Dio abiterà tangibilmente e visibilmente tra gli uomini e sarà allora che Egli «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Gv, Ap 21, 4).
Ora, è la Chiesa lo strumento fondamentale, anche se forse non unico, prescelto da Cristo al fine di far crescere, di far lievitare il Regno di Dio in terra. La Chiesa non è il regno di Dio, la Chiesa non si identifica con il Regno celeste, ma è appunto un essenziale strumento di attuazione di questo regno. E bisogna amare la Chiesa non perché chi la rappresenta in senso ministeriale sia santo per principio ma perché, quali che siano le sue colpe e i suoi errori da un punto di vista umano, essa è una cosa di Dio, voluta da Dio, istituita santamente da Dio, e non c’è nessuno, chierico o laico, che non sia chiamato ad amarla e ad esserne parte attivamente e responsabilmente. Non si deve amare la Chiesa per se stessa, per il modo in cui è organizzata, per la sua struttura gerarchica, per l’influenza religiosa e non solo religiosa che esercita sul mondo, ma perché essa è un dono di Dio, è ciò che Dio ci ha lasciato per pregare insieme, per amarci vicendevolmente, per cooperare insieme alla realizzazione del Regno.
E poiché, come sapevano bene i primi cristiani, l’amore reciproco comporta anche l’esortarsi e il rimproverarsi vicendevolmente in uno spirito di carità, ovvero non solo e non tanto il diritto quanto il dovere di parlare forte e chiaro su questioni essenziali che riguardino da una parte il comportamento dei fratelli dentro la Chiesa e fuori della Chiesa e dall’altra la correttezza dei modi in cui venga annunciata e trasmessa la fede, non bisogna temere, per un malinteso senso dell’obbedienza a Dio, alla Chiesa e al suo pontefice terreno, di rivolgere appunto alla Chiesa, alle sue politiche religiose istituzionali, ai modi e ai toni ufficiali con cui essa trasmette e perpetua storicamente il messaggio di Cristo, agli stessi comportamenti pratici discutibili o opinabili che possono affiorare talvolta nella compagine ecclesiastica oltre che in quella ecclesiale, quelle critiche amorevoli e misurate, quegli appelli appassionati ma saggi e doverosi, che sollecitino utilmente la casa di Dio ad essere sempre attenta, vigilante e fedele allo spirito di Cristo e anche, se necessario, più severa e combattiva nei confronti di eretici patentati e di malviventi di varia estrazione culturale che, nel nome della fede o addirittura sotto l’apparente copertura di un abito religioso, contribuiscano a creare confusione e disorientamento nella coscienza dei fedeli.
Ogni cristiano è certo chiamato a denunciare tutto ciò che va contro il Regno o tutto ciò che non ne accelera l’avvento (come per esempio tutti quei miniconcili che si svolgono periodicamente in diverse parti del mondo, tutti quei convegni e dibattiti spesso inutili o dannosi sull’ermeneutica della fede, e via dicendo). Ma bisogna stare attenti a non peccare mai di presunzione e di arroganza, a non evitare di riconsiderare onestamente le proprie critiche ed eventualmente di correggerle, a non separare mai le proprie critiche dalla coerenza e dall’integrità evangeliche della propria vita: perché il Signore ci ha ammonito ad aiutare a togliere la pagliuzza (o, implicitamente, qualcosa di più fastidioso o doloroso di essa) dall’occhio del fratello solo se si sia stati già capaci di togliere la trave dal proprio occhio).
La questione perciò non è cristianesimo regnocentrico (cristocentrico) o cristianesimo ecclesiocentrico, per il semplice motivo che, pur non essendo il Regno, la Chiesa è e resta al centro (se non il centro) del processo di attuazione del Regno stesso, benché poi, alla fine dei tempi storici, tale processo possa e debba subire una rapida e travolgente accelerazione quantitativa e qualitativa sotto il diretto e glorioso intervento di Dio. Non ci si deve illudere che stare alla sequela di Cristo possa significare non stare alla sequela della Chiesa: bisogna stare sempre nella Chiesa e dietro la Chiesa (dietro il Magistero, i sacramenti, i moniti), per spronarla, per aiutarla a purificarsi, per migliorarla magari soffrendo terribilmente per essa, ma sempre amandola come una madre che può avere mille difetti e che è pur sempre nostra madre. E anche se la Chiesa gerarchica sbaglia, possiamo o dobbiamo esprimere certo le nostre riserve o i nostri fraterni giudizi, ma non possiamo e non dobbiamo mai permetterci di abbandonarla, anche perché, non lo si dimentichi, noi stessi siamo Chiesa, ognuno di noi è Chiesa, non solo membro di essa ma Chiesa in senso eminentemente spirituale.
Sarà anche vero, come dicono alcuni, che «con l’espressione “amare la Chiesa” si possono intendere cose molto diverse», e che «per molti significa un atteggiamento passivo, indulgente verso peccati, tradimenti, autoritarismi; significa accettare il clericalismo e la volontà di potere in veste sacrale» (A. Bertani, È la chiesa che dobbiamo amare oppure gli uomini e il regno?, in “Adista”, n. 92 del 19/09/2009).
D’accordo: amare la Chiesa non può significare tutto questo. E, tuttavia, c’è modo e modo di non accettarlo: si può dissentire per amore e con lealtà non astiosa e si può invece dissentire per odio o per cieco risentimento. Anche se essa non dovesse essere una perfetta comunione dei credenti (e dunque potenzialmente di tutti i figli di Dio), dobbiamo amarla lo stesso e non dobbiamo stancarci di amarla pur richiamandola ad una più precisa ed efficace testimonianza apostolica, cosí come l’universale assemblea dei fedeli (che è la Chiesa stessa) non deve mai cessare di amare i suoi figli più “difficili”, più recalcitranti alle ragioni della fede, più soggetti al peccato e moralmente più indisciplinati, pur richiamandoli ad un senso più alto della vita e all’amore verso Dio, come pure i suoi figli solo apparentemente migliori perché ancora falsi ed ipocriti. Ognuno di noi in nessun caso deve stancarsi della Chiesa, la Chiesa in nessun caso deve stancarsi di ognuno di noi: persino nel caso di un ostinato rifiuto di Cristo, essa, pur continuando il suo serio lavoro apostolico di evangelizzazione, deve continuare ad ascoltare, a prestare il suo aiuto non paternalistico e ostentato, a perdonare e a pregare.
Tuttavia, per ciò che si riferisce all’atteggiamento dei credenti verso la Chiesa, è bene ribadire che «l'amore può esprimersi anche con la critica e la severità; ma sono convinto che critica, severità ed anche polemica (insomma: disagio, dissenso e anche distanza) abbiano senso e fecondità se sono accompagnate dall'amore. E anche dalla gratitudine: la buona notizia di cui ci siamo innamorati non l'abbiamo scoperta noi; ma ce l'ha trasmessa la Chiesa» (Ivi).