Hans Küng: una polemica giusta e sbagliata

Scritto da Francesco di Maria.

 

Non è una buona cosa andare sempre appresso agli scandali perché il mondo usa trarne più stimoli pruriginosi per i vizi degli uomini che non elementi salutari per una rieducazione evangelica all’esercizio della o delle virtù. Tuttavia, specialmente se ad essere coinvolta in misura sempre crescente è la Chiesa di Cristo, è bene che gli scandali vengano alla luce perché con essi vengano alla luce colpe e responsabilità umane, che non possono essere tenute nascoste indefinitamente come una zavorra pesantissima che rischia di far naufragare la debole navicella della Chiesa, e perché, attraverso un’onesta e non strumentale comprensione delle ragioni o delle cause che l’abbiano provocate, sia possibile capire come per il futuro ci si debba adoperare per stroncare sul nascere o limitare drasticamente certi fenomeni pervertitori del costume della Chiesa quali sono certamente gli abusi sessuali non più riferibili a semplici realtà locali ma di dimensioni ormai planetarie.

Si viene a sapere oggi che anche la Chiesa tedesca si sarebbe resa rea, per usare l’espressione di mons. Zollitsch, di “crimini odiosi”. E Hans Küng, spirito colto ed arguto ma portato ad una polemica eccessiva e distruttiva verso la Chiesa di Roma della quale egli fa ancora parte a ragione o a torto in quanto sacerdote, ne approfitta per mettere ancora una volta il bisturi nella piaga e per esprimere concetti e valutazioni personali che fino ad un certo punto sono condivisibili ma che vanno poi a parare là dove un sincero seguace di Cristo non può accettare di essere condotto. Küng esordisce dicendo che gli abusi sessuali, le devianze specificamente sessuali dei preti non sono dovute esclusivamente al celibato, il quale per alcuni è fonte di un’elevata condizione morale e spirituale di vita, dal momento che le stesse devianze possono riscontrarsi anche in persone non celibi e «in famiglie, scuole, associazioni o all’interno di Chiese in cui la regola del celibato dei preti non esiste» (H. Küng, Per lottare contro la pedofilia, aboliamo il celibato dei preti, in “Le Monde” del 5 marzo 2010). Tuttavia, non può sfuggire, egli osserva, che la pedofilia è particolarmente diffusa tra uomini non sposati che spesso si trovano preposti alla direzione delle Chiese cattoliche e di suoi fondamentali organi educativi e formativi. C’è da notare come qui Küng minimizzi e anzi non menzioni affatto l’altra piaga complementare di una sessualità diversa da quella pedofila e non distorta  ma comunque peccaminosa e pervertitrice che viene esercitata tranquillamente da molti preti, quasi che per lui il prete che pratichi una sessualità non pedofila sia meno corrotto e abietto del collega pedofilo.

Il teologo tedesco afferma: «basta aprire il Nuovo Testamento: se Gesù e Paolo hanno preferito, a titolo esemplare, non sposarsi per restare a servizio dell’umanità, non per questo non hanno lasciato all’individuo una libertà di scelta totale in questo ambito. Nel Vangelo, il celibato può essere considerato solo una vocazione liberamente accettata (Charisma) e non una legge universalmente imposta» (Ivi). Ora, il celibato è un dono preziosissimo e una vocazione liberamente accettata e non imposta che il Signore ha valorizzato in prima persona con l’esempio stesso della sua vita, ma ciò che curiosamente Küng non dice è che anche coloro che intendano seguire Gesù come presbiteri pur non avendo ricevuto quel dono e quella vocazione sono tenuti evangelicamente ad osservare una rigorosa continenza sessuale. Coloro che “si fanno eunuchi per il regno dei cieli” sono esattamente coloro che, celibi o non celibi, volendo mettersi al seguito di Gesù come pastori o pescatori di uomini, devono lasciare tutto, passioni, affetti, pulsioni e via dicendo.

La Chiesa, o meglio la Chiesa del secondo e adesso anche del terzo millennio, ha sbagliato e continua a sbagliare nel ritenere che la vera volontà di Dio in Cristo sia quella di impedire a uomini sposati di essere ordinati sacerdoti, anche se l’attuale prefetto della Congregazione per il clero cardinale Hummes riconobbe apertamente anche se incautamente una volta che molti apostoli di Gesù erano sposati e che la Chiesa stessa non avrebbe avuto difficoltà a riconsiderare la questione del celibato ecclesiastico, ma Küng sbaglia nel ritenere che ai preti si debba consentire di avere una moglie con cui consumare un regolare matrimonio. Se un prete ha l’esigenza di sposarsi con una donna, non si vede come possa avere nello stesso tempo l’esigenza di sposarsi con Cristo, mentre chi è già sposato con una donna può ben avvertire la chiamata di Cristo a sé con tutto quello che ne consegue sul piano dei sentimenti e del nuovo comportamento da assumere nei confronti della moglie che tale però rimane per sempre.   

Küng ha ragione nel dire che «Pietro, come anche gli altri discepoli di Cristo, sono stati sposati durante tutto il periodo del loro apostolato. È stato così, per diversi secoli, per i vescovi e i preti delle parrocchie, il che, come tutti sanno, si perpetua nelle Chiese d’Oriente, anche tra gli uniati rimasti legati a Roma, e nell’ortodossia nel suo insieme, almeno per quanto riguarda i preti. È proprio il celibato elevato a regola che contraddice il Vangelo e la tradizione del cattolicesimo primitivo. È quindi opportuno abrogarlo» (Ivi). Quel che tuttavia Küng omette di dire è che, da tutti gli atti della Chiesa successivi al IV sec., emerge inequivocabilmente come anche colui che celibe non è sia tenuto a rispettare la continenza sessuale e quindi ad astenersi anche da rapporti sessuali con la propria moglie dal momento stesso in cui venga ordinato sacerdote. 

E’ in questo senso e a queste condizioni che la Chiesa del primo millennio avrebbe consentito l’accesso di uomini sposati ai cosiddetti “sacri ordini”, senza mai avallare il disordine morale e la rilassatezza di costumi che pure al suo interno dovette subire proprio a causa di preti e vescovi concubini e/o simoniaci evidentemente in aperta rotta di collisione con il vangelo di Cristo. E, proprio in considerazione della lotta che la Chiesa dovette condurre contro la corruzione e il malcostume ecclesiastici ormai dilaganti subito dopo l’anno mille, fu non solo coraggiosa ma provvidenziale la decisione di Gregorio VII di istituire la legge della obbligatorietà del celibato ecclesiastico interpretando egli correttamente lo spirito della Parola di Dio secondo cui, non essendoci disposizione divina che non possa essere ipocritamente o artatamente piegata alle intenzioni o agli interessi malvagi degli uomini, soprattutto gli “uomini di Dio” hanno il dovere di preservare la Chiesa da lui voluta dalla concupiscenza e da ogni genere di corruzione spirituale. 

Da allora però molte cose sono cambiate e, per tutto un insieme di motivi storici e psicologico-esistenziali che non è qui possibile enumerare e spiegare, proprio l’obbligo del celibato ecclesiastico, inteso come divieto per gli uomini sposati di poter diventare sacerdoti di Cristo, ha finito probabilmente nel tempo per costituirsi a sua volta quale causa di decadimento della Chiesa e di svilimento della funzione sacerdotale, perché accadde indubbiamente poco per volta che «il clero occidentale, cosí votato al celibato», apparisse sempre più «separato dal popolo cristiano: come una classe dominante singolare, fondamentalmente al di sopra dei laici, ma totalmente sottomessa all’autorità pontificia romana» (Ivi). E’ un peccato, forse non solo in senso figurato, che Küng utilizzi la sua disamina, pure in parte precisa e condivisibile, per dare corpo a tesi estreme che francamente non hanno alcun chiaro fondamento evangelico come quella per cui i preti si possono sposare ed esercitare tranquillamente la propria sessualità o come quella relativa all’ordinazione sacerdotale delle donne alle quali invece è dato evangelicamente di aspirare al più all’esercizio della funzione diaconale.

Certo è però che quel che sta succedendo oggi nella Chiesa sotto tutte le latitudini geografiche e territoriali non è né casuale né destinato ad estinguersi per autoconsunzione ma è piuttosto il prodotto di una ultrasecolare abitudine ecclesiastica a pensare che in quella disposizione pontificia dell’XI secolo, per quanto saggia ed ispirata, debba per forza esaurirsi la profondità e la vitalità delle indicazioni che nostro Signore ci ha lasciato per l’appunto in ordine alla questione della sequela e della funzione sacerdotali. Quello che sta succedendo non potrà essere debellato a colpi di defenestramenti o di espulsione dall’ordine sacerdotale e con giri di vite semplicemente disciplinari, ma solo favorendo l’ingresso nelle fila del clero cattolico di nuovo ed inedito personale di estrazione laica, con proprie strutture psicologiche e ambientali, con strumenti culturali autonomi e interagenti con quelli di orientamento ecclesiastico, con esperienze di vita diverse da quelle seminariali di tipo tradizionale, e solo accomunato all’attuale personale del clero cattolico dalla stessa ardente fede in Gesù Cristo, nei suoi insegnamenti e nei principali insegnamenti dogmatici della sua Chiesa.

Che creare una siffatta originale contaminazione di mondi intellettuali e spirituali non sia il modo migliore per interpretare i “segni dei tempi” e per avviare una riforma spirituale della Chiesa che acceleri l’avvento completo e definitivo di quel regno divino che per volontà stessa di Dio dovrà essere un regno di sacerdoti per l’eternità? Oltre che per neutralizzare efficacemente gli attacchi talvolta intelligenti ma sconsiderati di chi, con la scusa di riportare la Chiesa alle sue origini evangeliche, non si accorge o non vuole accorgersi invece di trascinarla verso la sua completa dissoluzione storica e spirituale? La Chiesa, oggi come due millenni or sono, ha bisogno tanto del celibato continente di Giovanni quanto dell’esperienza uxorata del continente ma ugualmente sanguigno Pietro che, anche in virtù della sua estrazione fortemente laica e della sua mentalità non clericale o non pretesca (si direbbe oggi), fu posto significativamente da Cristo a capo della sua santissima Chiesa.