Monsignor Nunnari: un commento "laico"

Scritto da Francesco di Maria.

 

Poiché, nella sua Lettera pastorale del 6 agosto 2010, monsignor Salvatore Nunnari, vescovo della diocesi di Cosenza-Bisignano, esorta i suoi presbiteri a «ad essere uomini di comunione con i laici, coloro che dialogano con essi, li ascoltano e li comprendono. Prima che nostri collaboratori sono corresponsabili nella conduzione pastorale della nostra diocesi e delle nostre parrocchie», da laico, mi sento autorizzato a tentare di interagire con il clero cosentino e lo stesso vescovo, prendendo come occasione di riflessione proprio la Lettera in parola o, per meglio dire, alcuni punti, tra i meno ovvi e i meno generici, di essa. Il vescovo invita tutto il popolo diocesano, il clero non meno del laicato, alla concordia perché, giustamente, senza concordia e senza unità non può esservi fede in Cristo. Però, come ben sa il vescovo Nunnari, nella lezione evangelica quella che è nota come parresia, ovvero la franchezza e la lealtà nei rapporti tra fratelli e sorelle, non conta certo meno dello spirito di unità, giacché l’unità in Cristo può raggiungersi non ignorando o eludendo le difficoltà, i problemi o le istanze più scomode della comunità ma solo affrontandole e risolvendole in e con spirito di verità e carità. In questo senso, con il massimo rispetto possibile ma anche con l’ostinato rigore di chi sa quanto sia impegnativo servire non retoricamente ma realmente la verità e quindi nostro Signore Gesù Cristo, mi permetto di eccepire quanto segue.

Intanto, da una parte nella Lettera ci si compiace del fatto che durante «il mio peregrinare tra voi mi sono spesso chiesto, con lo stupore del cuore, da dove provenisse tanta ricchezza di fede e di umanità», dall’altra però non sono di poco conto le recriminazioni sia nei confronti dei laici, sia nei confronti dei sacerdoti. Quanto ai primi, scrive il vescovo, mi «domando, conoscendo bene alcune situazioni delle nostre comunità», se ci possa «essere posto nella Chiesa per le fratture, le separazioni, le rivalità e gli individualismi… “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostra membra?” (Gc 4,1). La fraternità comporta la sconfitta del nostro orgoglio, il superamento delle discriminazioni sempre facili e aprioristiche, il dialogo come stile di vita, lo sforzo e la fatica di ricercare insieme, senza prepotenze e senza impazienze. Implica ed esige anche la libertà, cioè la possibilità per ogni credente nel cui cuore abita lo Spirito Santo, di rispondere alla propria autentica vocazione, (Cfr Gal 5,1). Molto significativo quanto ha scritto Giovanni Paolo II: “l’Eucaristia crea comunione e educa alla comunione. San Paolo scriveva ai fedeli di Corinto mostrando quanto le loro divisioni, che si manifestavano nelle assemblee liturgiche, fossero in contrasto con quello che celebravano”». Dove però è quanto meno opportuno citare più estesamente il brano di Giacomo citato dal vescovo: «Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l'amore per il mondo è nemico di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio…Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà lontano da voi. Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. Peccatori, purificate le vostre mani; uomini dall'animo indeciso, santificate i vostri cuori. Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà…Chi dunque sa fare il bene e non lo fa, commette peccato». Questo scrive esattamente Giacomo e il relativo commento contenuto nella Bibbia CEI suona cosí: «Questa sapienza cristiana ispira alcuni comportamenti: tradurre in atto la Parola ascoltata, evitare i favoritismi, compiere buone opere come prova di una fede viva, saper frenare la lingua e rifiutare l'uso ingiusto della ricchezza».

Ora, ciò che lamenta il vescovo Nunnari è proprio l’esistenza nella sua diocesi di una situazione siffatta oppure egli si sente disturbato più che altro dal fatto che parte della comunità da lui presieduta faccia fatica a comprendere e ad interiorizzare completamente i suoi discorsi e i suoi comportamenti perché non sempre a ragione o a torto ritenuti totalmente rispondenti all’originale spirito evangelico? Il vescovo Nunnari è proprio sicuro di essere o di voler andare in mezzo alla gente per “servirla” in modo equanime e indiscriminato? E’ proprio sicuro di essere pronto ad ascoltare tutti coloro che hanno chiesto e chiedono la sua vicinanza spirituale, di essere assolutamente immune egli stesso dai “favoritismi” e dalla tentazione della calunnia? E’ proprio certo insomma che il suo spirito di servizio non sia di tipo prevalentemente “istituzionale” e non sia migliorabile sotto il profilo evangelico e spirituale? Non sono giudizi inappellabili quelli che qui implicitamente si esprimono ma domande e preoccupazioni cui un vescovo degno di questo nome, ritengo, non può non dare riscontro in spirito di fraternità.

Anche l’utilizzazione del riferimento alla lettera di san Paolo indirizzata ai fedeli di Corinto, e quindi a fedeli di un territorio diverso da quello in cui Paolo operava in quel momento, non mi sembra priva di ambiguità in riferimento alla situazione della comunità diocesana cosentina, giacché Paolo criticava severamente le divisioni della comunità di Corinto a motivo del fatto che esse erano provocate da prese di posizione a favore di questo o quel presunto rappresentante della parola di Dio e che quindi non in Cristo stesso si cercava unanimemente e umilmente il senso del volere divino ma in forme camuffate di superba ed arrogante appropriazione del santo e lucido ma profondo ed articolato volere di Dio. Paolo cioè critica la comunità corinzia perché incapace di cercare dinamicamente ma rigorosamente e unitariamente la verità di Dio in Cristo e unicamente in lui, non già in questo o quel predicatore, foss’anche il migliore predicatore del mondo e ivi compreso lo stesso Paolo. Ora, se il vescovo intende dire che nella diocesi cosentina si sia soliti affermare “Io sono di don Michele” oppure “Io sono di don Vincenzo o di don Gabriele” e non “Io sono solo di Cristo”, può darsi che abbia ragione nel dolersene, ma alla sola condizione che a sua volta non tenda inavvertitamente a confondere la sua parola con la parola di Cristo, perché non c’è dubbio che anche in questo caso nessun cristiano potrebbe lecitamente affermare: “Io sono di Nunnari”. Ecco: bisognerebbe sciogliere questa ambiguità, con la consapevolezza che non si danno formule o interpretazioni con le quali il significato della parola di Dio possa essere colto in modo assolutamente esaustivo e definitivo. La parola di Dio è sempre antica e sempre nuova e questo significa che, se da una parte è possibile e doveroso renderla oggetto di un ascolto attento e corretto al fine di non banalizzarne o fraintenderne il senso e per trovarvi la bussola più preziosa per orientare il proprio pensiero e la propria condotta, dall’altra essa è pur sempre irriducibile a formule o ad interpretazioni che pretendano di definirne l’infinita profondità e cristallizzarne lo spirito eternamente vivificatore.  

D’altra parte, non tutti i contrasti sono necessariamente dannosi dal punto di vista evangelico, umano ed ecclesiale: quando sono mossi e sostenuti non da faziosità o da mero spirito di contrapposizione ma da genuino disinteressato e caritatevole amore per la verità, essi non solo sono legittimi ma necessari e doverosi e la comunità dovrebbe anzi darsi da fare per trarne ogni possibile giovamento spirituale. Certi contrasti non solo non danneggiano ma vivificano e potenziano una comunità ecclesiale concepita non tanto alla luce dei suoi pur indispensabili rapporti gerarchici quanto alla luce di un’istanza ancor più importante: quella di un responsabile e proficuo esercizio della sua libertà spirituale. Non può accadere ogni tanto, ancora oggi, che Paolo polemizzi utilmente con Pietro? Non sempre dove c’è un contrasto c’è o deve esserci necessariamente odio o avversione. Anche ai cristiani talvolta è dato di sgomitare o litigare lecitamente: come colombi su una piazza che, pur urtandosi l’un l’altro con un certo vigore, non si fanno alcun male. Per esempio, può capitare che qualcuno dica al vescovo: guarda, mi pare che quel sacerdote che è stato posto cosí in alto negli uffici di curia stia combinando qualche guaio, per cui sarebbe il caso che tu ne controllassi meglio l’operato; oppure che gli suggerisca di tener conto di certe denunce informali relativamente alla condotta ipoteticamente immorale di qualche religioso, al fine di intervenire per tempo e di evitare guai peggiori. Non sarebbe stolto quel vescovo che accusasse gli ipotetici “testimoni” di delazione e liquidasse tutto con giudizi frettolosi e sommari? E non sarebbe saggio invece quel vescovo che prendendo atto, con la giusta attenzione e senza pregiudizio, di determinate critiche o di vere e proprie denunce, si sia adoperato efficacemente evitando che la sua Chiesa fosse o sia coinvolta in scandali  gravi e dolorosi?  

Allora il problema è davvero quello di ascoltare, a cominciare dal vescovo naturalmente, e di ascoltarsi reciprocamente per ritrovarsi nella lettera e nello spirito di Cristo Gesù non con argomentazioni generiche ed arcinote ai più o con pompose e ridondanti elaborazioni dottrinali, ma con non dichiarata e non ostentata umiltà e con concetti ed argomenti precisi, essenziali e quanto più possibile fedeli al nocciolo stesso della buona novella: Cristo è nato storicamente per noi e per me, è morto realmente per la nostra e la mia salvezza; sei disposto ad amarlo e a seguirlo non sentimentalisticamente o devozionalmente ma concretamente e operativamente, chiamando per nome le cose e testimoniando sommessamente e sinceramente la tua fede? Sei disposto a correre il rischio di essere disprezzato ed emarginato per lui, di ritrovarti sempre da solo senza coltivare rancore o sentimenti di vendetta verso nessuno ma anche senza rinunciare a lottare contro le falsità del mondo (tra cui sono anche quelle personali) e contro le stesse storture e anomalie che si annidano talvolta nella Chiesa medesima? Sei disposto a prendere le distanze sempre e comunque da ogni forma di disonestà e di corruzione, da ogni rapporto di amicizia fondato sulla menzogna e su un’intesa di reciproca ma illecita utilità, da ogni indulgenza per forme di manifesta ipocrisia religiosa? Sei disposto a praticare la condivisione tutte le volte che te ne sia data concreta opportunità con atti silenziosi e non pubblicizzati, a spingere la tua stessa comunità ad organizzarsi al fine di ripristinare quella “comunione dei beni” che fu uno dei perni della primitiva chiesa cristiana? Sei disposto insomma a portare sul serio la croce, a passare per la porta stretta, offrendo ogni tuo atto, ogni tua sofferenza, ogni tua angoscia e ogni tua speranza al Signore? Qui è il nocciolo della nostra fede, della vera fede nel Risorto, in Gesù Salvatore e Giudice delle nostre vite.

Poi, si diceva inizialmente, il vescovo Nunnari rampogna anche il clero diocesano:  «Uomo di Chiesa è il prete poiché sa stabilire una vera, profonda, virile e soprannaturale comunione con il Vescovo, con i confratelli al fine di eliminare la reciproca sfiducia che spesso abbiamo gli uni verso gli altri: questo continuo dividerci, questo non sopportare né da una parte né dall’altra il colloquio e il dialogo, questo non accettare il contributo di tutti, ma essere soltanto disposti ad accogliere e far valere il nostro punto di vista». Per capire sarebbe necessario sapere quali siano le cause reali di questa “reciproca sfiducia” tra i membri del clero, su quali argomenti avvengono le divisioni e le presunte impennate individualistiche. Tuttavia, se un vescovo vuole davvero il contributo di tutti occorre che egli vagli attentamente il contributo qualitativo oltre che quantitativo che ogni membro del clero, ma lo stesso vale anche per i laici, può realmente offrire, senza privilegiare, magari per fretta o superficialità o comodità personale, contributi meno validi ma al momento più “utili” rispetto a contributi molto più seri e qualificati ma totalmente sganciati da comportamenti accomodanti e interessati o puramente “servili”. Non sia intesa come irriverente la domanda: nel caso specifico, è avvenuto ciò in modo inequivocabile? E’ stato fatto veramente tutto il possibile perché ogni presbitero fosse valorizzato secondo le proprie possibilità e capacità senza creare prevaricazioni e favoritismi di sorta? Quel “potere” vescovile, che entro certi limiti resta discrezionale, è stato realmente usato per perseguire il bene di tutta la comunità o piuttosto principalmente per garantire la tranquillità della curia? Non sarebbe il caso che il padre spirituale della comunità ecclesiale cosentina, dinanzi ad osservazioni ed obiezioni non peregrine e non dissennate ma confortate da fatti ben precisi, si chiedesse se ad ogni buon conto non gli convenga scendere dall’altare prima di celebrare la santa eucaristia per riappacificarsi con quei fratelli che forse giustamente ce l’abbiano un po’ con lui? Non è tutto ma, mi pare, è abbastanza. Dalla comunità salgono queste domande: al vescovo ogni facoltà di rispondere e confrontarsi oppure di tacere e proseguire per la sua strada come se non avesse udito o non udisse alcunché di serio.

Infine, l’arcivescovo Salvatore Nunnari riserva le sue parole più tenere ai “semplici”, veri testimoni di Cristo, quei “semplici” che egli definisce compiaciuto come «i silenziosi costruttori delle nostre comunità», come coloro che «non fanno cronaca, ma scrivono una storia d’amore nelle piaghe nascoste del nostro tempo e della nostra società dispersa». In particolare, questi “semplici” si trovano tra “gli infermi” che, dal loro letto di dolore, «ci aiutano…a restare saldi nella fede e a camminare nella via del Signore». Non c’è motivo di dubitare della sincerità di queste parole;  tuttavia, come tutti sanno, quella di poter appartenere ai “semplici” è anche tra i cristiani ancora “sani” un’aspirazione largamente condivisa, e, poiché è indubbio che lo stesso vescovo Nunnari coltivi umilmente per sé la speranza di pensare e vivere da “semplice” in senso evangelico, anche io, da laico, mi permetto di chiedere al Signore che, a dispetto dei miei tanti limiti, mi conceda di vivere da “semplice” che tra l’altro non si scoraggia se i suoi sforzi di vedere e raccontare le cose nella loro nudità, a fin di bene, non facciano cronaca e restino anzi del tutto inascoltati ed isolati in mezzo ai suoi simili e ai suoi stessi compagni di fede.

Anche in questo caso non è possibile non recitare quella santa orazione della liturgia cattolica: «O Dio, fonte di ogni bene, che esaudisci le preghiere del tuo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito, effondi su di noi la tua misericordia: perdona ciò che la coscienza teme e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare. Per il nostro Signore». Amen.