Il compito missionario della Chiesa

Scritto da Francesco di Maria.

 

Chi scrive pensa che certi panegirici (non tutti i panegirici), come quello pubblicato recentemente sull’Osservatore Romano (L. Scaraffia, Quel teologo che parla a tutti, 28 ottobre 2010), non siano né utili né vantaggiosi né per il papa né per la Chiesa, e possano essere anzi più dannosi di certe critiche preconcette e livorose. Che questo papa sia un grande teologo e un insigne uomo di cultura, che sa comprendere perfettamente non solo i problemi della sua Chiesa ma anche quelli dell’intera contemporaneità, che sa offrire una risposta cristiana adeguata “alla modernità e alla secolarizzazione”, consentendo alla Chiesa non solo di mantenere “il suo ruolo di custode fedele della tradizione” ma di spiegare “al mondo contemporaneo il patrimonio della tradizione”, è un giudizio certamente esaltante e in parte sicuramente fondato, ma la cui completa attendibilità complessiva, se permette l’autrice dell’articolo citato, non potrà tuttavia non essere sottoposta al vaglio del giudizio umano e soprattutto a quello del giudizio divino. Ma, anche se fosse in toto incontestabile, un giudizio cosí roboante e trionfalistico, che trova il suo acme nel considerare questo papa come in assoluto il miglior papa possibile per questo momento storico, mal si concilia con quell’esigenza di sobrietà e di decoro sempre raccomandata dalla Chiesa e dallo stesso Benedetto XVI.

Il papa è sempre il papa: i cattolici lo amano indipendentemente dal fatto che sia un “profondo intellettuale” o un “umile pastore di anime”, un grande teologo o un semplice uomo di Chiesa, anche perché non è detto che la Chiesa di Cristo stia meglio nelle mani dei grandi teologi che in quelle di umili uomini di chiesa (tra cui, beninteso, possono essere compresi anche ma non necessariamente i grandi teologi).  E ogni cattolico prega perché il pontefice, quali che siano i suoi limiti, riesca ad assolvere al meglio delle sue possibilità il suo magistero.

D’altra parte, però, non c’è nulla di perverso nel fatto che ognuno di noi, in spirito di verità e carità, rifletta sui diversi atti pontifici per coglierne il senso e il valore ma anche eventualmente le carenze o i limiti e cosí facendo venga coerentemente dimostrando non solo di far parte della Chiesa ma di essere egli stesso Chiesa, secondo quanto insegna il magistero ecclesiastico. Per cui Lucetta Scaraffia la può pensare in un modo e altri, altrettanto o ancor più legittimamente, la possono pensare in modo diverso sulla base di ragionamenti adeguatamente argomentati. Si può, per esempio, osservare che forse non tutti i concetti espressi dal papa nell’ambito della sua mastodontica attività di pubblicista e di oratore ispirato siano indiscutibili o privi di ambiguità. L’ultimo in ordine di tempo a suscitare delle perplessità potrebbe essere quello formulato nel corso del preambolo all’Angelus di domenica 24 ottobre 2010: «Il compito missionario non è rivoluzionare il mondo», egli ha infatti detto, «ma trasfigurarlo, attingendo la forza da Gesù Cristo che "ci convoca alla mensa della sua Parola e dell’Eucaristia, per gustare il dono della sua Presenza, formarci alla sua scuola e vivere sempre più consapevolmente uniti a Lui, Maestro e Signore"».   

Ora chi, credente cattolico, ha sempre dato per certo che la fede in Cristo è precipuamente funzionale ad una trasformazione capillare e radicale del mondo e di questo mondo, rischia di rimanere disorientato dinanzi ad un’affermazione e ad una precisazione del genere, perché è indotto a leggere in esse una presa di posizione volta a cautelare la Chiesa rispetto ad aspettative spirituali “eccessive” sempre possibili dei fedeli. Eppure, non dovrebbe essere difficile ormai per nessuno riconoscere che nostro Signore non fu un rivoluzionario per il semplice motivo che fu, è e sarà l’unico rivoluzionario della storia umana. Perciò, premesso che si può rivoluzionare il mondo in modo pacifico oppure in modo violento, ci sarebbe senz’altro da eccepire sulla distinzione lessicale operata nella circostanza dal papa a proposito del compito missionario della Chiesa che per l’appunto non sarebbe di “rivoluzionare” il mondo ma di “trasfigurarlo”. Distinzione che appare poco comprensibile anche alla luce del significato del termine teologico “trasfigurazione”, di pertinenza esclusivamente divina, che implica un profondo o radicale cambiamento d’aspetto, un ontologico ribaltamento della nostra condizione esistenziale in una gloriosa e stabile condizione di partecipazione alla vita divina e di eterna beatitudine nella gloriosa realtà del compiuto regno di Dio. Nessuno meglio del papa sa che la nostra umana realtà potrà essere trasfigurata solo attraverso una sua radicale trasformazione che non la annullerà ma la arricchirà, non ne toglierà l’identità personale ma ne consentirà il pieno e definitivo sviluppo spirituale in cielo. Il che presuppone che già in questa vita terrena il nostro compito sia quello di trasfigurare, di conferire un senso e un valore diversi alle cose e alle realtà del mondo, a cominciare dalla nostra coscienza personale, e dunque di cambiarle in profondità e in modo irreversibile. Gesù è venuto a fare nuove tutte le cose e a noi chiede di continuare a fare in lui, con lui e per lui, ancora nuove tutte le cose, la nostra vita e la vita altrui, in base ai carismi e alle effettive possibilità di ciascuno e attraverso la consapevole accettazione della croce.  

La conversione quotidiana e radicale cui siamo chiamati cos'altro è se non un continuo tentativo di rivoluzionamento della propria vita interiore e della vita in genere? E non è d’altro canto risaputo che la parola di Cristo, nonostante il permanere di tanti errori ed orrori, abbia già sostanzialmente rivoluzionato la storia umana, le sue aspettative, le sue prospettive? Peraltro, non è pensabile che papa Benedetto abbia una qualche idiosincrasia verso la parola rivoluzione e il verbo rivoluzionare, dal momento che l’una e l’altro sono stati spesso usati da lui senza alcuna apparente difficoltà. Sulla spianata di Marienfeld a Colonia in Germania il 20 agosto 2005 diceva apertamente: «I santi…sono i veri riformatori. Ora vorrei esprimerlo in modo ancora più radicale: solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo. Nel secolo appena passato abbiamo vissuto le rivoluzioni, il cui programma comune era di non attendere più l’intervento di Dio, ma di prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo. E abbiamo visto che, con ciò, sempre un punto di vista umano e parziale veniva preso come misura assoluta d’orientamento. L’assolutizzazione di ciò che non è assoluto ma relativo si chiama totalitarismo. Non libera l’uomo, ma gli toglie la sua dignità e lo schiavizza. Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero. La rivoluzione vera consiste unicamente nel volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò che è giusto e allo stesso tempo è l’amore eterno. E che cosa mai potrebbe salvarci se non l’amore?».

Perfetto: dunque chi si rivolge senza riserve a Dio per ottemperare incondizionatamente alla sua volontà e ai suoi effettivi insegnamenti, naturalmente in modi storicamente diversi, diventa un testimone rivoluzionario di Dio, un tramite rivoluzionario della grazia santificante e rigeneratrice di Dio, un agente di quella divina trasformazione rivoluzionaria del mondo che è il fine principale del sacrificio salvifico di Cristo. La rivoluzione cristiana è una rivoluzione fatta per amore, non per odio, ma è rivoluzione di intelligenza e di cuore, di ragione e sentimento, di fede e di azione concreta, e poi ancora rivoluzione non teorica ma pratica, che investe ogni aspetto della vita personale e richiede impegno e spirito di sacrificio, di rinuncia, per il perseguimento di una verità mai scontata e tranquillizzante ma sempre scomoda perché appunto rivoluzionaria e di una giustizia sempre più esigente e profonda di quella generalmente reclamata dagli uomini. Naturalmente, la rivoluzione divina, e quella di cui noi stessi siamo chiamati ad essere artefici, passa anche attraverso le rivoluzioni storiche, che sono pur segno convulso ma significativo delle umane inquietudini e di legittime aspirazioni di giustizia, di libertà e di emancipazione in senso lato, e non basta semplicemente scongiurarle e deprecarle ma adoperarsi perché non assumano il carattere tragico che spesso hanno assunto storicamente, e, nel caso in cui siano già in corso, non basta condannarle e rifuggirne sdegnati ma occorre calarsi al loro interno e fare agire in esse la nostra fede, il nostro senso di discernimento e di responsabilità, e in questo senso il nostro amore.

Il pontefice ha già mostrato di sapere bene come il cuore del vero cristiano è sempre aperto ad una rivoluzione dell’esistente da perseguire quotidianamente con atti sofferti e costosi: «Già da sempre tutti gli uomini in qualche modo aspettano nel loro cuore un cambiamento, una trasformazione del mondo. Ora questo è l'atto centrale di trasformazione che solo è in grado di rinnovare veramente il mondo: la violenza si trasforma in amore e quindi la morte in vita». Il che significa che dobbiamo convertire non una volta ma sempre le nostre pulsioni egoistiche, la nostra istintiva o naturale aggressività, la nostra tendenza ad annientare o a sminuire il prossimo, per essere veramente “liberi” poi di prendere posizione nelle forme dovute, se necessario, di fronte a qualsivoglia tipo di abuso e di prepotenza, di falsità e di prevaricazione, di ipocrisia e di sciatto formalismo anche nella sua versione “religiosa”: perché, ricordiamolo, il cristiano deve preoccuparsi di giudicare innanzitutto e soprattutto se stesso, non per disimpegnarsi intellettualmente, moralmente, civilmente, politicamente e religiosamente ma per meglio giudicare le cose del mondo, le diverse realtà della terra e per meglio contribuire a correggerle e ad orientarle in vista dell’avvento definitivo del regno di Dio. E’ «questa intima esplosione del bene che vince il male» che, dice ancora il papa, «può suscitare poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo. Tutti gli altri cambiamenti rimangono superficiali e non salvano», anche se evidentemente con essi l’uomo di fede non può non avere a che fare in un modo o nell’altro.

L’uomo cattolico “per bene”, che tutto medita e approfondisce soltanto sul piano della riflessione culturale, che vive passivamente i suoi doveri religiosi ed esercita in modo generico e superficiale il proprio spirito di carità senza mai sentirsi intimamente coinvolto in un processo morale e spirituale che turbi i propri assetti psicologici e costringa ad una continua e faticosa opera di revisione interiore, non è necessariamente migliore del cattolico animato da idealità apparentemente vigorose di verità e giustizia ma il più delle volte aleatorie e non radicate in una effettiva pratica di vita. Ma è sicuro che un sincero e onesto cattolico non potrà non desiderare che “il mondo cambi” sul serio e non potrà non partecipare a questo possibile cambiamento attraverso atti pubblicamente e privatamente irreprensibili e graditi al Signore anche se costosi e rischiosi. Per trasfigurare il mondo, bisogna prima morire. Non semplicemente morire: bisogna morire a tutte quelle logiche del mondo che sono basate sull’indifferenza, sulla viltà, sulla falsa solidarietà, sulla mediocrità, sullo sdoppiamento di personalità, non meno che sulla corruzione e sull’avidità, sul potere e sul possesso, sulla vanità e sulla saccenteria. Il papa disse a Loreto l’un settembre del 2007: «Il mondo, lo vediamo, deve essere cambiato, ma è proprio la missione della gioventù di cambiarlo! Non lo possiamo fare solo con le nostre forze, ma in comunione di fede e di cammino». Certo, il mondo dev’essere cambiato, dev’essere rivoluzionato con l’aiuto di Dio, di Maria e di tutti i santi: questa è «la missione della gioventù», questa è la missione per eccellenza della Chiesa nel suo insieme e della quale quella gioventù fa parte. Il mondo, che è dentro di noi e fuori di noi, va cambiato in umiltà, senza gesti plateali o sensazionalistici, ma va cambiato, perché Cristo è venuto per cambiarlo e non per lasciarlo com’è; va cambiato con la stessa disponibilità di Cristo ad essere disprezzati e soppressi e non certo con la boria di chi nel suo nome e inavvertitamente continua a perseguire fini di potere o di supremazia. Sono tutte cose che nessuno di noi può pretendere di insegnare a papa Benedetto: ma allora perché separare “trasfigurazione” da “rivoluzione”, se la trasfigurazione delle nostre vite non può essere guadagnata senza rivoluzione spirituale, ideale e pratico-comportamentale, e se la trasfigurazione del mondo non è possibile attraverso una conservazione e una perpetuazione delle iniquità piccole e grandi che vi si consumano quotidianamente?

Questo vale anche dal punto di vista politico che è un punto di vista che certo, e a giusta ragione, la Chiesa non trascura. Sembra qui pertinente ricordare alcune parole di Benedetto XVI: «È doveroso ammettere che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo…La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l'adoperarsi per la giustizia lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente…» (enciclica “Deus caritas est”). 

Ognuno di noi non può non condividere tali concetti, ma il vero problema è un altro: che, quali che siano le nostre idee di cattolici e di uomini, occorre stare bene attenti a non essere mai «pieni di sé, così da non avere spazio alcuno per Dio; il fariseo ha trovato un posto anche per Dio, ma fuori di sé e in funzione di sé, perché è egli stesso il giudice di se stesso e, si potrebbe quasi dire, il vero dio di se stesso… Il fariseo non è un uomo antireligioso o ateo; se cosí fosse, la cosa sarebbe meno grave; è invece un uomo religioso, ma di una religiosità falsata da un ipertrofico senso di sé. Di fronte ad una simile egolatria tutto il panorama si altera, il rapporto con se stessi, il rapporto con Dio, il rapporto con gli altri, sottoposti ad un fuoco di fila di giudizi sommari distruttivi… Il Signore oggi ci invita a domandarci non solo che tipo di credenti siamo, che tipo di oranti, ma anche che tipo di persone. È una questione di maturità umana, oltre che credente. Perciò siamo interpellati nella nostra responsabilità educativa non solo nella comunità cristiana, ma nella società tutta. Bisogna ritrovare, vivere e  riproporre un senso di equilibrio umano e di maturità che sembra essere andato smarrito in questa società dell’incertezza e dell’emergenza educativa» (mons. Mariano Crociata, Grosseto, 24 ottobre 2010).