Che cos'è la superbia

Scritto da Francesco di Maria.

 

Non c’è essere umano che non desideri o non senta il bisogno di essere “riconosciuto” dagli altri e quindi di ricevere attestazioni private e pubbliche di affetto, di stima o di ammirazione, perché ogni essere umano è teso per natura ad affermare la propria identità personale che non può sviluppare da solo ma nel concreto rapporto con gli altri ed è quindi il frutto di una comunicazione, di una mediazione o di una negoziazione con coloro con i quali direttamente o indirettamente instauriamo dei rapporti e dai quali ci aspetteremmo in qualche modo di essere appunto apprezzati o almeno di non essere disapprovati. Naturalmente, il desiderio o il bisogno del “riconoscimento”, in sé del tutto lecito, può esprimersi o manifestarsi in forme molto diverse, e quindi anche in modi abbastanza esacerbati, anche nel corso di una stessa vita individuale che è soggetta a possibili e talvolta radicali mutamenti psicologici morali e spirituali per il concorso di tutta una serie di ragioni che qui non è il caso di enumerare. In generale può accadere che, sia che il nostro bisogno di identità venga continuamente o generalmente appagato sia che subisca invece continue o frequenti frustrazioni, la superbia sia sempre in agguato: nel primo caso perché possiamo essere indotti facilmente a introitare dosi più o meno massicce di vanità e presunzione inconfessate che alla lunga, sedimentandosi a nostra insaputa nel fondo più istintivo della nostra egoità, verranno producendo danni per sé e per gli altri; nel secondo caso perché troppe contrarietà esistenziali possono avvilirci ed indurci a reagire con pensieri ed atti di sconsiderata durezza che, se ci allontanano ulteriormente dal prossimo da cui avremmo desiderato di essere gratificati, possono anche contribuire ad affievolire la nostra capacità di discernimento e di giudizio. 

La superbia peraltro incombe sempre su tutti: su quelli che in comunità o in società hanno più successo e su quelli che ne hanno meno, sugli intelligenti e sui deficienti, sui giusti e sugli ingiusti, sulle persone influenti e su quelle marginali, sui credenti e sui non credenti, sui cattolici e sui non cattolici. E non è affatto detto che, alla fine di una vita, un credente o un cattolico siano riusciti ad essere meno superbi di un miscredente o di un ebreo. Quella che chiamiamo umiltà è o dovrebbe essere nient’altro che il giusto contrappeso alla superbia, piccola o grande, che è in ognuno di noi, ovvero la facoltà o la capacità spirituale di frenare l’impulso ad ignorare i propri limiti e i propri errori o torti e a perseguire obiettivi troppo più grandi delle nostre capacità o comunque delle nostre effettive e sia pure contingenti possibilità.

I credenti, poiché sanno o dovrebbero sapere che di fronte al Signore noi tutti siamo uguali e diversi (uguali moralmente perché tutti sue creature e figli ma diversi perché ognuno irripetibile e unico per divina volontà), dovrebbero altresì sempre sforzarsi di creare nella propria coscienza un giusto equilibrio tra la volontà di essere tra gli altri, con gli altri, come gli altri e per gli altri, e la volontà di assecondare o soddisfare le proprie migliori qualità o attitudini spirituali pur sempre al servizio degli altri.

L’umiltà, in effetti, non consiste in un continuo sminuire se stesso sino ad una specie di autodenigrazione e di autolesionismo, perché non è né naturale né evangelicamente corretto quel moto spirituale che trascuri le proprie qualità personali o i “talenti” che Dio ha donato a ciascuno, ma consiste nel non ingrandirli troppo, anche quando essi siano reali e non presunti o immaginari, e sempre contemporaneamente protesi a riconoscere e a valorizzare onestamente le altrui capacità o meriti al fine di rispettare il prossimo e Dio che vuole che ci si ami ed aiuti reciprocamente sulla base dei doni che egli ci ha elargito e continuamente ci elargisce nel corso della nostra esistenza. L’umiltà non è disconoscere se stessi ma sforzarsi di conoscere quel che veramente si è senza pretendere di possedere virtù e talenti che non si possiedono, ma sforzarsi di favorire e non ostacolare per pregiudizio o con malanimo chi può essere utile ai singoli o ad una intera comunità.

Quanto più si è spiritualmente grandi tanto più capaci si sarà di riconoscere obiettivamente il valore del prossimo pur senza ignorare e senza omettere di esercitare il proprio specifico valore umano, intellettuale, professionale, spirituale, soprattutto per renderne lode e gloria a Dio stesso. Come scrive Paolo, «non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato (Romani 12, 3) e, come ancor più significativamente recita Luca, «chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (14, 11).

Ma perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato? Perché, come spiega bene san Paolo, solo l’umile è nella verità, è un uomo vero e non falso, mentre il superbo, cioè chi eccede nella valutazione di se stesso ed esercitando scorrettamente il proprio giudizio fa fatica a riconoscere le doti e i meriti altrui, non è solo un arrogante ma è anche e innanzitutto un bugiardo e Dio non può amare la menzogna. In questo senso ci si deve chiedere se per caso anche molti cattolici, ivi compresa (sia detto con realismo ma senza malizia) una quota significativa di sacerdoti, non debbano rivedere se stessi, i propri schemi mentali e i propri modelli comportamentali, molto più profondamente e radicalmente di quanto non sospettino nel corso delle loro concelebrazioni eucaristiche e delle loro preghiere liturgiche e personali. Attribuirsi meriti che non si hanno è segno di superbia, disconoscere i meriti oggettivi dei nostri fratelli è segno di superbia, ma è segno di superbia anche l’avere una concezione troppo alta di sé pur in presenza di doti e qualità indiscutibili e soprattutto il non riconoscere nel proprio cuore e nei propri atti che tutto quello che si ha (ammesso che lo si abbia veramente) – doni, carismi, sapienza – viene da Dio per cui occorre comportarsi quotidianamente nei modi evangelici a Dio graditi: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?» (1 Corinzi 4, 7).  

Come ha scritto padre Tom Forrest: «Essere umile non significa negare le proprie qualità, ma attribuirle al Signore. I titoli, sia civili che religiosi, non significano superiorità ma sono il mezzo per compiere la nostra missione» (Il Signore mi ha guarito, Napoli, Ediz. Dehoniane, 1987, p. 90). Il superbo è colui che, con o senza qualità di rilievo, paragona se stesso al fratello, agli altri, che percepisce in termini competitivi, mentre l’umile è chi avendo sempre il suo termine di confronto in Gesù non può che sentirsi realmente limitato e inadeguato pur nel tentativo di esplicare al meglio le proprie capacità. L’umile è anche colui che si accorge come, nonostante ogni sforzo spirituale di superamento della nostra naturale inclinazione ad una qual certa egoità, nella propria persona la superbia non è mai sconfitta ma fa continuamente capolino persino talvolta in situazioni apparentemente “normali”.

Ma l’umile non è semplicemente colui che dice: “sono superbo, perdonami Signore!”, bensí colui che, nel rapporto con gli altri, pur parlando con franchezza evangelica, non si stanca mai di sottoporre ad esame la propria intimità e la propria personale identità, di perdonare chiedendo a Dio di essere a sua volta perdonato, di riconoscere e accettare la sua mediocrità per migliorarsi, di aprirsi in spirito di carità a chiunque necessiti di aiuto o di assistenza, di manifestare sincera e disinteressata disponibilità umana anche verso chi lo avversi o lo detesti, di accogliere umiliazioni e sofferenze come vero banco di prova della propria fede. 

La vera umiltà, peraltro, non è mai appariscente, né ostentata, né molliccia, né paternalistica, né servile, né figlia della depressione o di una sorta di delusione esistenziale, ma è una faticosissima ed interminabile ascesa verso una condizione umana e spirituale in cui si sia capaci di sopportare che la nostra superbia non sia più semplicemente connessa alla nostra autocritica ma sia quella che inaspettatamente ci invade quando qualcuno ci rivolga rimproveri e critiche più o meno pungenti. La vera umiltà non è neppure stereotipabile nel senso che, in condizioni sociali o di salute diverse, solo per esemplificare, avremo persone portate ad esprimere la propria umiltà in maniera verosimilmente diversa ma non per questo meno genuina.

Umili, inoltre, bisogna essere non per cercare la propria gloria ma per cercare la gloria di Dio, mentre non è proprio raro che persone all’apparenza umilissime covino dentro di sé focolai sempre accesi di superbia e che invece persone dall’aspetto duro e austero e dall’eloquio essenziale e severo, che inducono facilmente gli osservatori ad attribuire loro un’indole superba, non si aspettino in realtà di ricevere alcuna gratificazione da parte dei loro simili limitandosi solo a confidare in una qualche “ricompensa” celeste ancora più gratuita di quelle parziali eventualmente ricevute durante la vita terrena. D’altra parte, bisogna aggiungere, cosí come un atto o qualche atto di superbia non rende necessariamente superbo una persona, allo stesso modo possibili e reiterati gesti di umiltà (per esempio svolgere una missione apostolica o caritatevole in Africa, raccogliere fondi per i poveri e i malati, mettersi da laici a disposizione della parrocchia o di un’associazione culturale, o persino immolare se stessi, e cosí via) di per sé non rendono una persona incontrovertibilmente umile o umile nelle forme gradite a Dio.  

Bisogna quindi stare molto attenti a non applicare con eccessiva disinvoltura l’etichetta dell’umiltà a chi direttamente o indirettamente non ci crea mai grattacapi e difficoltà pratiche o psicologiche e quella della superbia a chiunque non ci sia affine o simpatico né umanamente né intellettualmente, sebbene possa professare la nostra stessa fede, cercando piuttosto di chiarire con solide e oneste argomentazioni, ove se ne ravvisi la necessità culturale o religiosa o politica dentro la Chiesa e fuori di essa, le ragioni di nostri ipotetici dissensi o dei nostri giudizi critici. Lo stesso padre Forrest, peraltro, ammonisce a non ritenere che la superbia non possa annidarsi persino là dove non penseremmo mai di trovarla: infatti, egli dice, esiste anche un orgoglio apostolico che viene manifestandosi come individualismo e attivismo. Sí, perché «l'orgoglio affiora quando c'è concorrenza tra i leaders, rivalità tra i gruppi e paragoni con altri Movimenti apostolici. L'orgoglio appare quando dimostriamo che i nostri piani pastorali non solo sono i migliori ma anche gli unici di cui tener conto; quando ci vantiamo del numero dei membri della nostra comunità, di tutte le attività che realizziamo, del riconoscimento e del gradimento del Vescovo per noi. Orgoglio raffinato è cercare i doni, non per servire gli altri, ma come medaglie decorative, o approfittare dell'autorità ricevuta per imporsi e dominare» (op. cit., p. 87). 

Ma, si chiede Raniero Cantalamessa, «qual è il rimedio dinanzi ad un peccato cosi subdolo e potente sulla natura dell’uomo?» (La vita nella Signoria di Cristo, Milano, Ediz. Áncora, 1986, capit. 11). Tenendo presente che la superbia non è solo il pericolo principale di chi vive lontano da Dio ma è anche il nemico più serio per chi abbia già ricevuto e continui a ricevere molto da lui, l’unico rimedio possibile o almeno il più efficace non può venire se non da Dio stesso che se da un lato concede singolari opportunità di riscatto a chi stia ancora vivendo e brancolando nel buio del peccato, dall’altro non sempre risparmia situazioni particolarmente penose o dolorose a chi invece si sia convertito e viva nella sua grazia, proprio allo scopo di sollecitarlo a non insuperbirsi suo malgrado. Come dimenticare quel bellissimo ed istruttivo passo di san Paolo: «affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: "Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza". Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte». (2 Corinzi, 12, 7-10)?