I cattolici e il problema del rapporto con gli ebrei

Scritto da Francesco di Maria.

 

Un sito cattolico molto vicino agli ambienti curiali e pontifici rendeva nota qualche giorno fa (18 marzo 2009) la precisazione dell’ambasciatore israeliano presso la santa sede: «"nel corso della prossima visita del Papa Benedetto XVI al Muro Occidentale, sara' applicata la stessa procedura della visita papale dell'anno 2000". Israele, cioe', "rispettera', ovviamente, i simboli religiosi del Santo Padre e del suo entourage, come richiesto dalle norme d'ospitalita' e dignità"». E questa nota informativa veniva cosí titolata: “Israele, il Santo Padre potrà indossare il crocifisso”. Potrà indossare, ci rendiamo conto? Fa notizia il fatto che dovendo il papa recarsi, nel corso della sua visita a Gerusalemme, nell’area del muro occidentale, egli e i religiosi del suo seguito possano solo in via eccezionale indossare il crocifisso. Sí, perché bisogna sapere che ordinariamente se un credente o un vescovo cattolici cercano di avvicinarsi al muro del pianto con un crocifisso al collo vengono subito e perentoriamente invitati da agenti israeliani ad occultare quello strano “aggeggio”.

E’ molto probabile che persino un barbaro come Attila, re degli Unni, non abbia pensato di chiedere nel 452 al papa Leone I, che era andato ad incontrarlo sul Mincio per ottenere il suo ritiro dall’Italia, di togliersi il crocifisso dal collo. Con il popolo di Israele siamo ancora a questo punto. Ma cosa dovrebbe venire a fare il nostro papa in terra santa, a Gerusalemme in particolare, se non gli fosse consentito di mostrare a tutti, anzi di innalzare davanti a tutti il santissimo crocifisso? Quale pace egli potrebbe portare se non nel nome di Cristo crocifisso? E’ noto peraltro come in nessun caso il papa cattolico potrebbe privarsi del suo crocifisso e, tanto meno, potrebbe privarsene per semplici motivi diplomatici. Voglio cogliere anzi l’occasione per dire che quei cattolici, specie se alti prelati, che si recano in terra santa per visitare anche il muro del pianto, non dovrebbero mai togliere dal collo il crocifisso su ingiunzione degli israeliani, non solo per evidenti motivi civili ma anche e soprattutto per una questione di inderogabile fedeltà a Cristo. Se questo è il prezzo da pagare meglio non andarci al muro del pianto.

Cosí come sarebbe ormai urgente che la Chiesa facesse sentire di più la propria voce a difesa del sacrosanto diritto dei cattolici di mostrare liberamente anche a Gerusalemme, e davanti a tutti i muri di questa santa città, il proprio crocifisso. Sta di fatto che i rapporti tra cattolici in generale (non solo quindi lo Stato vaticano) ed ebrei, persistendo persino difficoltà di questo tipo, non possono per niente definirsi amichevoli, anche se almeno i primi non dovranno mai ritirare la loro offerta di fratellanza e di amicizia. D’altra parte questo deficit di amicizia è anche ciò che troppo spesso lamentano gli stessi ebrei. Ma per quali ragioni essi sono ancora insoddisfatti del rapporto che hanno con il mondo cattolico?

Può aiutarci a capirlo in modo esemplare l’articolo di un noto giornalista ebreo italiano, Gad Lerner, intitolato “Il Vaticano e la conversione degli ebrei” e comparso su “La Repubblica” in data 8 febbraio 2008. Lerner qui lamentava che sostanzialmente la Chiesa cattolica, nonostante tutti i suoi artifici dialettici, non riesce a fare a meno di additare gli ebrei «come popolo anomalo, un’imperfezione da sanare», e cosí argomentava: « Avendo elevato la lotta contro il relativismo a priorità del suo magistero, Benedetto XVI deve anzi ribadire con forza quell’imperativo – la conversione degli ebrei – che i suoi predecessori avevano deciso di mettere in sordina». Senonché, se «di nuovo quel proposito di correzione-conversione viene ribadito come elemento decisivo della fede cristiana, sarà difficile farlo coesistere con la ricerca dell’amicizia in uno spirito di riconciliazione». Il fatto è, secondo Lerner, che agli ebrei non può fare affatto piacere che i cristiani preghino, secondo la preghiera recentemente formulata da papa Benedetto, «anche per gli ebrei, affinché Iddio Signore nostro illumini il loro cuore e riconoscano Gesù Cristo come Salvatore di tutti gli uomini».

Perché, si chiede polemicamente il giornalista, gli ebrei devono essere fatti oggetto di questa «speciale attenzione» che non viene riservata ad altri popoli? Non è ancora implicito in questa preghiera, anche se “rimosso”, il vecchio e consueto pregiudizio secondo cui gli ebrei sarebbero “erranti” ostinati che, proprio per questo, nel corso dei secoli sarebbero stati definiti “popolo maledetto”? Non si accredita in essa ancora una volta l’idea dell’«attesa di una resipiscenza ebraica, condizione indispensabile per la Salvezza di tutte le genti alla fine della storia»? L’idea che «prima o poi» sia «necessario che gli ebrei, per quanto rispettabili nella loro ingiustificata ostinazione, riconoscano la Verità che pure duemila anni or sono fu rivelata sotto i loro occhi, nella loro terra»? In questo modo la Chiesa cattolica non continua a pretendere di essere la “nuova Israele”, per cui «l’Alleanza del Monte Sinai sarebbe invalidata e soppiantata dalla Nuova Alleanza»? E non ha ragione il rabbino Giuseppe Laras di dire che, cosí facendo, «vengono meno gli stessi presupposti del dialogo»?

Lerner sembrava anche dolersi del fatto che la Chiesa cattolica, con papa Benedetto XVI, sembra essersi completamente dimenticata di quel suo importantissimo documento del 1965 che è la Nostra Aetate, con cui, egli scriveva un po’ troppo frettolosamente, «la Chiesa scagionava gli ebrei dall’accusa di deicidio, senza riferimento alla necessità della loro conversione», favorendo un concreto riavvicinamento tra ebrei e cattolici. Poi però, nell’agosto del 2000, «la “Dominus Iesus” giunse come una doccia fredda a ridimensionare, sei mesi dopo, i “mea culpa” del Giubileo. La centralità di fede della conversione degli ebrei tornava così tema prioritario, e pietra d’inciampo, nel dialogo interreligioso». Fin qui Lerner, specchio fedele della mentalità ebraica di questo tempo e delle errate e non giustificate aspettative (e tanto errate e ingiustificate da configurarsi in realtà come vere e proprie pretese) coltivate dagli ebrei nei confronti della Chiesa cattolica. Fin qui Lerner, che peraltro distorce parzialmente il senso dei documenti ecclesiali e pontifici e di alcuni atti di pacificazione, compiuti dalla Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II, nella sincera ricerca di una riconciliazione con il mondo ebraico.

Lerner sbaglia nel ritenere che la lotta al relativismo, assunta da papa Benedetto XVI quale priorità del suo magistero, porti inevitabilmente il pontefice a ribadire con forza la conversione degli ebrei. La lotta al relativismo con la preghiera e la speranza cattoliche circa la conversione a Cristo degli ebrei non c’entra niente. Anche un papa che concedesse molto spazio al cosiddetto relativismo (che, in verità, è una parola da maneggiare con molta cautela), non potrebbe non concludere che, se anche tutto è relativo, Cristo non lo è, e proprio in base a questa assoluta certezza non potrebbe non auspicare, con la preghiera e con concreti atti di disponibilità e di amicizia, la conversione a Cristo di un numero ancora cospicuo di fratelli e sorelle ebrei che si trovano nella stessa condizione in cui si trovarono molti o non pochi dei loro lontani antenati che conobbero e rifiutarono Cristo Salvatore. Questo anche per dire che i predecessori di papa Benedetto, pur avendo addolcito alcuni termini per puro spirito di carità, non hanno mai deciso di “mettere in sordina la conversione degli ebrei” la quale, senza essere un indicatore di spirito antisemita, è e resta un punto fermo del magistero di tutti i papi e un preciso dovere della fede cattolica.

Gli ebrei dovrebbero sapere che, per i cattolici, un giorno Dio chiederà conto a tutte le creature e in particolare a quelle che hanno accolto il Figlio suo divino del modo in cui si saranno impegnate per testimoniare la loro fede in Cristo anche adoperandosi, con le parole e con le azioni, presso gli increduli o i non ancora convertiti per favorirne appunto la conversione a Cristo. Dunque, ai cattolici vien fatto obbligo dalla propria fede non di convertire gli ebrei, che è ciò che solo Dio può ottenere, ma certo di testimoniare ed annunciare Gesù redentore anche in mezzo agli ebrei. E che questo atteggiamento religioso non possa «coesistere con la ricerca dell’amicizia in uno spirito di riconciliazione» è una deduzione gratuita o arbitraria, giacché non è affatto incongruente che il cristiano voglia amare l’ebreo auspicando senza tuttavia pretendere una sua conversione a Gesù. I cristiani devono pregare e pregano certo per tutti i popoli con la stessa intensità, ma per gli ebrei di oggi devono pregare anche perché essi, pur non ancora colpevoli di deicidio, non si ostinino a rifiutare Cristo e ad ucciderlo quindi nella loro mente e nel loro cuore.

I cristiani sanno che Cristo è la Verità e il fatto che essi preghino anche perché gli ebrei riconoscano la verità fa loro onore, e non vedo come gli amici ebrei possano risentirsi di questo se non forse per un moto inconfessato di superbia. I cristiani vogliono essere loro amici anche se la loro sperata conversione tardi ad arrivare, ma si aspettano di essere rispettati nel momento in cui non fanno altro che esercitare coerentemente la loro fede. E’ poi evidente che la Chiesa cattolica senta di essere, nonostante gli errori e i peccati compiuti nel corso della sua storia, la “nuova Israele”, ma non nel senso che la prima alleanza sinaitica sarebbe “invalidata e soppiantata” e quindi non avrebbe più alcuna utilità ma più semplicemente nel senso che essa viene rinnovata e portata a compimento dalla seconda o nuova alleanza. Dicono gli ebrei: già, ma il fatto è che mentre voi cristiani e cattolici avete bisogno del nostro primo testamento, ovvero delle vostre stesse radici, noi non abbiamo bisogno del vostro nuovo testamento. Ecco: cristiani e cattolici ritengono che su questo punto essenziale gli ebrei siano in errore e chiedono che si instauri con essi un clima di amicizia in cui ci si possa arricchire reciprocamente senza ipocrisia e senza chiusure preconcette. Allora, alla luce di un ragionamento cosí articolato, perché dovrebbero venir meno “i presupposti stessi del dialogo”, come ha sostenuto il rabbino Laras?

Certo, se gli ebrei ritengono intimamente che il dialogo abbia una semplice valenza politica non ha senso continuare a propagandarlo come dialogo religioso o interreligioso: ci sono tante cose che si possono fare insieme senza necessariamente impegnarsi sul piano specificamente religioso. Altrimenti, la Chiesa non avrebbe alcuna possibilità di collaborazione con quei popoli che hanno un diverso orientamento religioso o ideologico. Ma se il problema è anche o proprio il senso religioso della nostra vita, il senso della presenza divina nella storia delle persone e dei popoli, la ricerca della meta trascendente verso cui si dirige l’intera storia dell’umanità, gli ebrei non si possono irritare quando i cattolici rivolgono loro con franchezza l’invito a riconsiderare criticamente, non certo a rinnegare, la loro storia e la loro stessa fede. I cattolici, tra i quali tuttavia non mancano persino uomini di chiesa che a torto dissentono da quanto si sta dicendo, non dialogano solo per chiedere perdono, o peggio per lusingare o adulare, perché in questo caso peccherebbero di falsa carità, ma principalmente per progredire nello spirito di verità e di unità. Né essi sono disposti a parlare dell’olocausto del popolo ebraico senza poter parlare liberamente dell’olocausto di Cristo che è stato e sempre sarà «il più tragico e prezioso olocausto della storia dell’umanità».

Né infine si deve pensare che la Nostra Aetate, il documento evocato da Lerner, sia stato verso il popolo ebraico molto più indulgente delle odierne posizioni cattoliche, perché in realtà questo documento del 1965, pur attenuando certe tradizionali critiche antiebraiche, ribadiva che «la Chiesa è il nuovo popolo di Dio» e che, sebbene gli ebrei non debbano «essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti», il dovere della Chiesa, «nella sua predicazione, èHdi annunciare la croce di Cristo come segno dell'amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia», di annunciarla a tutti, ivi compresi gli ebrei.

E’ motivo di grande speranza che ebrei e cattolici si vogliano conoscere e stimare sempre meglio, anche se l’amicizia non può non essere messa seriamente in discussione, oltre che da credenti cattolici un po’ confusi e superficiali, da un ebraismo che si senta infastidito dal crocifisso e anzi dal semplice fatto che qualcuno lo porti al collo. Non bisogna stancarsi di pregare il Signore perché aiuti gli uni e gli altri ad amarsi e a servirsi reciprocamente con rinnovato spirito di verità e di carità.