Il credente e il 25 aprile
Prima della mia conversione religiosa pensavo che il fascismo avesse attecchito in Italia per circa ventitré anni soprattutto per la complicità attiva o passiva della stragrande maggioranza del popolo italiano. Non ignoravo, naturalmente, le complesse cause di quel fenomeno storico-politico, ma ero convinto che la sua lunga permanenza al potere fosse stata in larga misura causata dalla inerzia morale e politica di grandissima parte dei miei connazionali della prima metà del novecento. Il fascismo sarebbe caduto solo con il secondo conflitto mondiale, solo a causa della sconfitta militare dell’Italia mussoliniana e fascista. Se quella sconfitta non ci fosse stata, ho sempre sentito dire a molti, probabilmente il fascismo non sarebbe caduto o non sarebbe caduto nel modo tragico che conosciamo e oggi forse i nostri ordinamenti istituzionali sarebbero diversi da quelli esistenti e il governo della nazione potrebbe vantare un’efficienza che tutta la storia repubblicana e parlamentare del nostro paese continua invece ad impedire.
Senza quella sconfitta militare o meglio senza la decisione mussoliniana di partecipare alla guerra al fianco della Germania nazista, e non è detto che persino all’ultimo momento prima della conflagrazione bellica il duce non potesse chiedere l’aiuto delle potenze alleate, il fascismo avrebbe potuto ancora contare su un consenso popolare sufficientemente solido, tentando di ricompattare le masse su politiche sociali più avanzate di quelle precedenti e puntando alla ricostituzione di un potere autoritario di tipo dirigista nel quadro di un modello sociale più aperto allo sviluppo economico e tecnologico e apparentemente più ancorato al dinamismo culturale. Ovviamente non avremmo avuto una resistenza cosí significativa come quella che in effetti ci sarebbe stata, ovvero, come spesso si sostiene con qualche possibile esagerazione, una guerra o una resistenza di popolo, né una costituzione e una storia repubblicana e democratico-parlamentare come quella in cui siamo cresciuti sino ad oggi.
Penso di poter dire essenzialmente tre cose: il fascismo, non tanto all’inizio quanto soprattutto alla fine della sua esperienza storica, non fu affatto opera di pochi ma di molti; la resistenza, tutto sommato, per quanto eroica e ben radicata in una certa tradizione civile e culturale del nostro paese e nella coscienza di larghi strati della popolazione, non fu tuttavia cosí estesa e determinante come tante volte si è voluto sostenere se non in alcune regioni del nord e solo parzialmente in quelle del sud; la resistenza fu comunque importante e determinante nel conferire una direzione ben precisa e un orientamento sicuramente democratico alla vita civile e politica dell’Italia postfascista. Dal che può ricavarsi che al popolo italiano nella sua generalità l’esperienza fascista non spiacque sino al momento stesso del suo crollo, che la vittoria contro il fascismo non fu la vittoria di tutta la società italiana ma di una parte forse non maggioritaria di essa, che la costituzione repubblicana ebbe un indiscutibile valore democratico e antifascista e che lo Stato repubblicano italiano nacque più specificamente come uno Stato democratico in quanto antifascista, anche se in un paese ancora pieno di rimpianti per un passato ormai svanito nel nulla, nonché diviso dal punto di vista politico tra repubblicani e monarchici e dal punto di vista umano e morale da dissensi e contrasti ancora più profondi.
Il partito della democrazia cristiana, a partire dal 1948, avrebbe raccolto molti moderati sempre realmente estranei alla mentalità e alla politica fasciste ma anche e in tutte le classi sociali (ivi compreso il clero cattolico) molti nostalgici del fascismo non più capaci o non più in grado di professare apertamente le proprie idee. L’unico partito radicalmente e congenitamente antifascista sarebbe stato quello comunista e una parte del partito socialista, anche se al loro interno non sarebbero mai mancati un diffuso autoritarismo e uno spirito antireligioso oltremodo marcato. Il partito comunista sarebbe venuto sgretolandosi già verso il finire del novecento, dopo la scomparsa del partito socialista di Craxi, a causa di scelte politiche strategiche tanto ingenue quanto obiettivamente avventate (tra queste anche quella di modificare il sistema elettorale proporzionale) che avrebbero consentito a tutte le forze anticomuniste del paese, ivi compresa molta parte di quella democrazia cristiana anch’essa finita in macerie dopo Tangentopoli, di tornare all’attacco, non apertamente e sconsideratamente ma subdolamente e viscidamente, degli stessi princípi fondativi della nostra repubblica e della nostra vita di uomini liberi.
Tutto ciò pensavo prima della mia conversione religiosa. All’indomani di essa, avendo fatto esperienza di valori ben più significativi e duraturi di quelli legati alla contingenza politica, il mio interesse per le vicende politiche italiane è venuto notevolmente scemando, ma non ho dimenticato che chi cerca di testimoniare Cristo tra gli uomini, sia pure nei limiti delle sue possibilità e capacità, non può mai restare totalmente indifferente a tutto ciò che è vita, a tutto ciò che cospira contro la vita o a favore della vita delle persone. Un modo di sentire insomma, su scala molto meno significativa, simile a quello di Giuseppe Dossetti. Oggi vedo che le cose si stanno aggravando sempre più, anche a causa bisogna dire di un’opposizione democratica in massima parte priva di ideali più che di idee, di sentimenti religiosi saldi e genuini, di conoscenze e competenze solide e rigorose, di spirito antiburocratico e di adeguata capacità organizzativa volta anche ad avvalersi di intelligenze e sensibilità non rinchiuse negli stretti recinti di partito.
Se il popolo italiano è stato sostanzialmente fascista una volta, non c’è motivo di pensare che non possa esserlo anche una seconda volta. Tanto tempo fa gli capitò di scambiare un avventuriero per l’“uomo della provvidenza”, oggi ci sono le condizioni perché commetta lo stesso errore. Senza voler demonizzare nessuno, non penso che il 25 aprile oggi possa essere “la festa di tutti” o “la festa della libertà”. Con tutto il rispetto per chi ha espresso ed esprime questi giudizi, è doveroso affermare che il 25 aprile, festa della liberazione partigiana e democratica dal fascismo e dal nazismo, può essere, come è sperabile che sia sempre stata, solo la festa di tutti coloro che credono intimamente nella libertà dal fascismo e da quella bolsa retorica etico-civile che volle coprirne lo spirito di intolleranza e di dominio; può essere solo la festa della libertà coniugata con la giustizia e con uno spirito di solidarietà non funzionale alla ricerca di popolarità e vantaggi personali.
L’uomo di fede prega perché tutto vada per il meglio, ma non può e non deve tacere, non può essere indifferente a correnti di pensiero e a processi storico-politici il cui punto di approdo appare pericolosamente ignoto o ambiguo. Essendogli ancora consentito di esercitarsi pubblicamente nella ricerca della verità storica oltre che in quella della verità teologica o di fede, egli deve uscire talvolta dal suo monastero spirituale per invitare i propri fratelli, quanto più caritatevolmente possibile, a riflettere sui nostri tempi e sui nostri costumi e a prendere eventualmente posizione contro la realtà del presente. Almeno questo egli deve fare con tutte le sue forze, anche se nel frattempo dovesse accadere che i più, “democraticamente” educati ad una vita ‘civile’ fiacca e vile, stiano a guardare, assistendo scettici e passivi agli eventi.