Mario Tronti: un laico benedetto da Dio?

Scritto da Francesco di Maria.

 

Penso che la Chiesa cattolica dovrebbe essere più attenta alla cosiddetta cultura laica, intanto perché la cultura laica non è per definizione una cultura irreligiosa e poi perché a volte essa sa essere sorprendentemente vicina alle ragioni del cattolicesimo sebbene non sia disposta ad assumere l’esperienza del sacro per via dogmatica o dottrinale. Non alludo ai teocon italiani, la cui vicinanza alla chiesa sembra muovere più che altro da chiassose e dubbie esigenze culturalistiche e strumentali (riassumibili sostanzialmente nella necessità di mettere i valori cristiani alla base dell’Occidente soprattutto in funzione antislamica e antimodernista) e non da una vera esigenza di fede o da una sincera ricerca di Dio, ma ad alcuni esponenti del pensiero laico che, in forme più riservate e sempre animate da un composto spirito critico, si sforzano di capire correttamente il vero significato di alcuni tratti essenziali e a volte impopolari del magistero della chiesa e di approfondire lealmente le ragioni della fede cristiana e cattolica al fine di coglierne la reale efficacia veritativa e storico-esistenziale.

Uno di questi esponenti è certamente Mario Tronti, noto per essere stato tra gli anni sessanta e settanta il teorico dell’ “autonomia del politico” e per essere ancora oggi tra i rappresentanti di una “sinistra antagonista”. Egli, a partire dagli anni novanta, è venuto mostrando accanto ai suoi consueti studi filosofico-politici un interesse crescente per la problematica religiosa e per la fede cristiana e cattolica in modo particolare. Nel 1991, in un’intervista rilasciata a Luigi Vaccari (Con i monaci della politica, in “Avvenire”, 2 febbraio 1999), affermava che «come la definizione di laico, anche la definizione di non credente, o la distinzione tra credenti e non credenti, mi sta un po' stretta…In me è presente un forte elemento di fede», e continuava significativamente: «sono abbastanza pronto per una dimensione di fede. Non mi precludo alcuna strada. E' una ricerca aperta: intorno a se stessi, oltre che intorno alla Storia che ci circonda. La preghiera è importante per tutti, non solo per il credente, perché è un momento di autoriflessione, di intimità con le grandi cose che poi uno ritrova in se stesso o ricerca fuori di sé. Dopo l'epoca della secolarizzazione, la preghiera, a cui guardo con molta attenzione, andrebbe riscoperta da tutte le persone pensanti e sensibili». E, precisando che la sua nuova e vigorosa esigenza di spiritualità non fosse stata sollecitata né da delusioni politiche né da sconfitte personali, non potendosi ridurre il suo bisogno e la sua apertura ad una semplice questione psicologica, giungeva ad esprimersi sorprendentemente in questi termini: «oggi dobbiamo convincerci che una vera sinistra, non solo di governo, ma che ambisca anche a trasformare il mondo, non può non avere dentro di sé un'anima di cristianesimo radicale. Questa è la novità». Una novità bellissima e notevole, si direbbe, che la Chiesa avrebbe dovuto accogliere con grande gioia e rinnovata speranza ed elevando canti di lode al Signore.

Nel 1993, ispirandosi ad un noto concetto dossettiano, osservava che nel mondo contemporaneo non ci sarebbe mai stata vera rivoluzione, compiuta nel nome del Cristo redentore, sino a quando il potere economico, quali che siano o dovessero essere le innovazioni istituzionali, fosse prevalso nettamente sul potere giuridico e non si fosse riusciti quanto meno a dare carattere di reciprocità a questo rapporto (M. Tronti, Une révolution, Non, une révolte, in Bailamme, n. 13, giugno 1993, p. 15). Probabilmente qui, nonostante il suo nuovo sentire e la giustezza di questo rilievo, Tronti tendeva ancora ad accentuare la valenza sociale e comunitaria su quella personale del messaggio di Cristo, muovendo forse dal presupposto marxista, parzialmente vero, che l’essere sociale condiziona la coscienza più di quanto la coscienza condizioni l’essere sociale, dove comunque non si esclude affatto che tra questi due momenti intercorra un qualche nesso di reciprocità; tuttavia era ugualmente significativo che per lui Gesù fosse venuto non per legittimare il mondo cosí com’é ma per trasformarlo radicalmente nel nome di un regno profondamente altro dal mondo esistente, nel nome del regno di Dio.

Anche recentemente ha ribadito questo concetto: «l’irruzione di Gesù nel mondo spezza la continuità storica, ne rappresenta la discontinuità, la frattura», allo stesso modo di come il messaggio neotestamentario annuncia un «antimondo, un’antistoria», quindi la possibilità di una trasformazione radicale. La non accettazione di questo mondo era la cifra più alta del messaggio cristiano e la lotta spirituale, riverberantesi su tutti i piani della vita e della storia, per cambiarlo qualitativamente in modo definitivo, ne era il necessario e più vitale corollario (Il Manifesto, 2 aprile 2008 e Adista, 12 aprile 2008, che riportano il resoconto di un convegno di studi religiosi tenutosi il 30 e 31 marzo 2008 nel cui ambito era intervenuto lo stesso Tronti). Per Tronti la divinità si umanizza per diventare come noi e per sperimentare dall’interno della nostra umanità che essa è debole, è carente, è inadeguata a soddisfare i bisogni vitali che essa stessa esprime, per cui alla fine la divinità fa molta fatica ad umanizzarsi ovvero ad essere accolta ed acquisita fra gli uomini e dagli uomini; in altri termini, la divinità scopre che l’umanità, che questa nostra umanità, pur cosí deficitaria e imperfetta, non riesce ad elevarsi agevolmente alla divinità che resta molto più spesso ambita che conquistata o almeno perseguita. Il fatto è che il Dio-Cristo non è un semplice «maestro di morale», titolo che sarebbe peraltro prestigioso per un filosofo o per un educatore, ma un «rivoluzionario» venuto nel mondo storico-umano per sconvolgerne letteralmente anche se in modo magnanime schemi mentali e pratiche di vita, per cui è da considerare un errore la tendenza ampiamente diffusa anche in ambito cristiano a ridurne il messaggio ad etica. Se c’è un simbolo veramente inimitabile della protesta contro il mondo, questo simbolo è Gesù, «mentre oggi», scrive Tronti, «vedo un appagamento per il mondo cosí com’é. Per me è uno dei modi per indebolire l’annuncio di Cristo» (ivi). E precisa: «Più che la fede in Gesù oggi si dovrebbe recuperare la fede di Gesù che annunciava il “regno”. Era l’annuncio di una rottura radicale, che spezzava la continuità della storia. Questo dovrebbero gridare sui tetti i cristiani» (ivi).

Come dargli torto? Perché è vero che Gesù non è venuto per condannare ma per salvare, ma è altrettanto vero che si potranno salvare solo quelli che avranno aderito concretamente al suo annuncio di salvezza che è appunto un annuncio di trasformazione radicale di noi stessi e del mondo. Anzi, se proprio un’aggiunta si vuole fare a questa idea trontiana di Gesù come “rivoluzionario”, si può affermare che Gesù non è un rivoluzionario ma il rivoluzionario per antonomasia perché egli non propone questa o quella rivoluzione ma l’unica rivoluzione che può cambiare davvero radicalmente e sostanzialmente la vita dei singoli e dei popoli sino a renderla eternamente felice. Immagino che questo punto per Tronti sia ancora molto delicato: un cattolico sincero e coerente non può credere nella bontà umanamente e storicamente risanatrice dell’annuncio rivoluzionario di Gesù senza credere in pari tempo che tale annuncio è l’annuncio stesso di Dio. Non è logico, non è coerente elogiare lo spirito rivoluzionario di Gesù senza credere che egli è Figlio unigenito di Dio o Dio tout court. Non solo: potrebbe essere semplicemente e ancora una volta strumentale parlare di Gesù come di un rivoluzionario perché ciò potrebbe corrispondere ad un narcisistico ed inconfessato desiderio di portare acqua al proprio mulino di teorico della rivoluzione culturale e sociale, anche se è da ritenere che Tronti lo escluderebbe in modo perentorio. Ma, comunque, senza credere in Cristo come unico ed eterno salvatore dell’umanità, sarebbe perfettamente inutile evidenziare la grandezza del suo messaggio di liberazione. Se Cristo non è Dio per quale motivo si dovrebbe ereditarne lo spirito di cambiamento nel sacrificio e nell’amore? E se non è risorto, per riprendere san Paolo, a cosa serve la nostra fede?

Tuttavia, il cattolico che ascolta attentamente un uomo e uno studioso come Tronti, può solo guadagnarci, guadagnarci s’intende in ordine alla propria fede. Egli diceva infatti nel 2007: «Se solo un Dio ci può salvare, non spetta a noi dirlo, ma come diavolo si può organizzare umanamente il vivere in questo mondo, questo, sì, ci spetta. La Chiesa, nella sua lotta ambigua con il Moderno ha avuto problemi analoghi. Io raccomando sempre di imparare qualcosa dalla forma politica del cattolicesimo romano. Essa ha contrapposto i tempi biblici, della sua dottrina e della sua istituzione, ai tempi storici dell’esperimento e dell’industria, i tempi appunto del capitalismo moderno. La sua soluzione: il sacro che rallenta il secolo. Badate, questo è problema anche nostro. I tempi della Scrittura, tempi umani, che entrano in conflitto con i tempi storici, sempre più disumani» (Tronti, Per un laboratorio di cultura politica a sinistra, in Sede di Rifondazione comunista di Pescara, 6 novembre 2007). Un franco apprezzamento della politica religiosa della Chiesa cattolica, come si vede, che dovrebbe appunto indurre molti cattolici, sempre pronti ad avventarsi su talune presunte posizioni di chiusura della Chiesa, a ripensare alle proprie critiche forse premature o inopportune. In altri termini, la fede non può cambiare con e come tutte le altre cose soggette al dominio capitalistico della tecnica, la fede con tutti i valori che implica resiste al tarlo erosivo della moderna mentalità strumentale dell’uso e del consumo perché punta su realtà etiche e spirituali stabili e rocciose che sono in conflitto con le realtà effimere e sempre mutevoli di questo mondo, con il divenire affannoso e disumanizzante di questa vita.

Dunque, per Tronti la Chiesa assolve una importantissima funzione: quella «di trattenere la modernità, di ritardare l'accelerazione dello sviluppo» (Intervista a Tronti, Quel circolo di sacro e secolare, in Il Manifesto 29 aprile 2005). Antropologicamente ormai si pone un problema molto serio a livello planetario, vale a dire il contrasto fra una accelerazione sempre più vertiginosa «del tempo nella produzione, nei consumi, nelle comunicazioni, nell'uso di massa della tecnologia, e i tempi umani che non riescono ad assorbirla, fanno fatica a starle dietro, con tutte le conseguenze che ben conosciamo in termini di comportamenti di massa: assunzione superficiale dell'innovazione, accettazione leggera di tutto quello che passa il mercato, acquisizione volgare del benessere e della ricchezza» (ivi). Una sinistra moderna, osserva Tronti per la parte politica che lo riguarda direttamente, «dovrebbe farsi carico di questa contraddizione invece di mettersi al seguito della corsa», invece cioè di rincorrere sempre e comunque il nuovo che avanza modellando pensiero e agire politici unilateralmente su di esso senza mai preoccuparsi di “trattenere” qualcosa, di “ritardare” per l’appunto «l’accelerazione dello sviluppo» su tutti i piani della vita storica individuale e collettiva.

MaTronti nota anche che la Chiesa, in tanto può assolvere efficacemente tale funzione in quanto essa continui ad opporsi alla riduzione della fede a pura «etica delle buone intenzioni o dei buoni comportamenti che perdono il senso originario della fede», e più esattamente il senso originariamente conflittuale della fede rispetto al mondo e il connesso e annesso radicale senso di liberazione dal mondo che la fede in Cristo o meglio la fede di Cristo implicitamente ed esplicitamente coltiva. Da ciò può farsi conseguire, diciamo noi, che quando la Chiesa predica che Cristo è il Figlio di Dio è bene che su questo non sia disposta ad indietreggiare proponendo magari interpretazioni sofisticate che vengano attenuando il significato forte, realistico di questa asserzione, perché in caso contrario autorizzerebbe forme di scetticismo sempre più marcate e pericolose sulla solidità dei valori di cui è portatrice, e anche quando perentoriamente e solennemente proclama la resurrezione di Cristo essa fa bene a non transigere su certe versioni “deboli” ovvero puramente simboliche dell’evento più importante della fede cristiana. La Chiesa non si fonda su semplici interpretazioni di fatti, come vorrebbe una certa ermeneutica teologica, ma solo su fatti, su fatti oggettivi in cui credere e in cui credere perché oggettivi.

Cristo non ebbe fede in questo mondo, che riteneva per l’appunto fosse da salvare più che da accettare passivamente o da servire acriticamente, ma la sua fede nel radicalmente Altro, ovvero il regno del Padre suo celeste, comportava un conflitto con il mondo, non un conflitto violento e distruttivo ma un conflitto permanente ben più decisivo e produttivo della mente, del cuore e della volontà che avrebbe fatto ricadere sugli stessi credenti, questo sí, l’incomprensione, l’odio e la violenza del mondo, ivi compresa probabilmente una parte dello stesso mondo cattolico. Ora, se il credente addomestica questo sano e santo spirito di conflitto che la fede di Cristo promana, la sua fede in Cristo non potrà che essere falsa e inautentica. Il conflitto della fede cristiana è un conflitto salvifico, escatologico, che spinge continuamente la persona e l’umanità verso forme sempre più giuste e perfette di vita, e da questo punto di vista, secondo Tronti, un serio e credibile progetto politico non può che fondarsi su una fede conflittuale ed escatologica di tipo cristiano.

Come dice Ratzinger, è sempre Tronti ad osservare, «“più una religione si assimila al mondo più diventa superflua”. Ha ragione, e la frase vale anche per la politica: più la politica si assimila al mondo, a ciò che è cosí com’è, più diventa superflua» (ivi). E, per ciò stesso, egli ritiene sia un grave errore «consegnare alla laicità un declinazione antireligiosa. La laicità di cui abbiamo bisogno è più una interpretazione del sacro che un’assunzione del secolo. Su questo possiamo trovare un vero reciproco ascolto con altre sensibilità alternative. Credetemi, c’è più varietà di posizioni e libertà di pensiero in quella “complexio oppositorum” che è la Chiesa cattolica, di quanto ne potete trovare nel pensiero unico del Fondo monetario internazionale. Non sbagliamo bersaglio. Il nemico, il nemico non l’avversario, è questo, non quella. Più in generale, sulla denuncia dei mali del mondo e sul destino dell’essere umano, tra la dimensione del politico e la dimensione del religioso coltiverei oggi più la possibilità di un incontro strategico che l’occasione di un conflitto quotidiano» (Tronti, Per un laboratorio di cultura politica a sinistra, 2007, cit.).

La Chiesa cosa cerca di fare? Cerca, come si è visto, di contrastare il male della modernità o postmodernità che dir si voglia proponendo in pari tempo il bene da fare o da compiere. E la stessa cosa si è chiamati a fare dal punto di vista politico: «devi governare la società superandone la forma e i limiti attuali» (Quel circolo di sacro e secolare, cit.). Ma, si dirà, se governi questa società capitalista come farai poi a superarla? D’altra parte, non è forse vero che chi non accetta il capitalismo non può accettare di governarlo? Per Tronti la difficoltà qui è solo apparente ed egli ritiene di poterla superare utilizzando le due categorie del “religioso” e del “politico”. Non religione e politica, si badi, ma “religioso” e “politico”. Religione e politica sono fatte di apparati, di gerarchie e strutture, di organizzazione e propaganda, mentre il “religioso” e il “politico” sono dimensioni ineliminabili della nostra vita e di cui gli uomini hanno bisogno indipendentemente dalle forme istituzionali e burocratiche che tali dimensioni vengono assumendo volta per volta storicamente.

In particolare per quanto riguarda il “religioso”, esso, dice Tronti, è «un bisogno umano, legato alla imperfezione, alla fragilità e transitorietà di noi esseri terreni…è una dimensione eterna con cui bisogna fare i conti, ed è stato», si noti questa sua affermazione singolarmente coraggiosa e onesta, «un errore storico delle ideologie novecentesche emancipatrici e liberatrici quello di contrapporsi al sentimento del religioso nell’uomo, contrapposizione del resto insensata, anche perché l’appartenenza ad una fede ideologica terrena, trae alimento secondo me anche da questa dimensione del religioso» (Intervista del 2-8-2008 di Giorgio Fazio a M. Tronti in “Il giornale di filosofia”).

Ecco: proprio alla luce di queste due categorie si può comprendere come sia possibile governare una società malata o ferita senza che sia inevitabile assecondarla o rimanerne prigionieri e come sia possibile essere radicalmente critici verso questa stessa società senza che ciò comporti necessariamente sotto il profilo morale e politico il rifiuto aprioristico di governarla. In che senso? Nel senso che il politico che vive solo di princípi e tensione morale prescindendo totalmente o prevalentemente dalle innovazioni e dalle molteplici realtà dello sviluppo si condanna ad un’assoluta cecità e sterilità. E, ugualmente, il religioso che proponga una spiritualità disincarnata e avulsa da concreti e specifici processi di “ammodernamento” del mondo e della stessa esistenza personale non può più fungere da “lievito” della vita e del mondo stessi appunto perché sostanzialmente non li vede o li ignora. E anche nel senso che, viceversa, «il politico che si affida soltanto all'innovazione non controlla più i tempi del rapporto sociale e ne viene travolto. E così il religioso che si affida a sua volta all'innovazione perde l'essenziale del rapporto di fede» (Quel circolo di sacro e secolare, cit.).

Purtroppo è già accaduto che la Chiesa, aprendosi troppo ai richiami massmediali della comunicazione di massa e ad esigenze troppo “moderne” o presunte tali, abbia finito per annacquare o intiepidire una fede religiosa che per sua natura è invece o dovrebbe essere granitica, e infatti dopo il Concilio Vaticano II, che in sé «fu una grande rottura dello schema tradizionale di una Chiesa gerarchica e papista» (ivi), ci si sarebbe avviati lentamente ma inesorabilmente verso un esito indesiderato: quello dell’avvento di «una chiesa di credenti senza fede, con le piazze piene e le chiese vuote», a cui il neoeletto papa Benedetto XVI disse subito «di voler reagire» (ivi): «infatti nella prima omelia papale ha parlato di un Dio emarginato, oltre che di una Chiesa che fa acqua, usando quella bella metafora degli apostoli che tirano una rete piena ma strappata, da cui i credenti nella fede sono fuggiti, con la conseguenza dei “deserti interiori” che provocano “santa inquietudine”. Una deriva ben visibile in quella piazza San Pietro piena di segni più profani che sacri, telecamere e telefonini e applausi» (ivi). La stessa cosa succede per la politica di oggi: «grandi raduni ma pochissima intensità di visioni» (ivi).

Proprio papa Benedetto XVI ha cercato di invertire la direzione di marcia rimettendo Dio, i suoi comandamenti, la corrispondenza dei fedeli alla sua volontà al centro della fede e della religiosità cristiana. Opponendosi ad una eccessiva libertà liturgica e teologica, sottolineando fortemente il ruolo della tradizione nel quadro delle elaborazioni dottrinali della Chiesa, ripristinando una concezione “forte” della fede in Cristo, egli ha cercato di restituire credibilità alla Chiesa nel momento stesso in cui ha tentato di conferire senso o maggior senso alla fede individuale e collettiva di milioni e milioni di credenti. E’ da precisare che il giudizio sostanzialmente positivo da Tronti espresso su papa Benedetto è del 2005 e non è dato sapere se oggi abbia confermato o rettificato quel giudizio. Ma ciò che gli importa evidenziare è che il problema del credere è di fondamentale importanza per la stessa civiltà umana: «ho più paura dell’incredulità che del credere. E’ stato detto che il problema oggi non è che non si crede più a niente, ma che si crede a tutto, ma a veder bene si crede a tutto proprio perché non si crede più a niente, cioè perché non si ha più una fede propria, e si diventa disponibili a credere a ciò che viene raccontato e offerto dal mercato» (Intervista di G. Fazio a Mario Tronti, 2008, cit.).

Credere in qualcosa di vero, in qualcosa di universale, in qualcosa che non cambi ad ogni stormir di foglia: attraverso la pena del pensare, per usare un’espressione hegeliana, ma anche del sentire, sempre in funzione non di una verità ma della verità da raggiungere e della giustizia da praticare. A cosa si deve oggi, è un’altra riflessione trontiana, il cosiddetto “ritorno del sacro” se non ad un bisogno di umanizzazione nella verità e nella giustizia del rapporto che l’uomo ha con il mondo e con gli altri e che, a voler cavalcare unilateralmente o indiscriminatamente la gigantesca onda della moderna ragione strumentale ed utilitaristica, non può che trasformarsi in un rapporto freddo e meccanico di tipo tecnico-economico, in un rapporto senz’anima e spersonalizzato? Ma il “sacro”, per l’appunto, non ha a che fare con la chiacchiera o con la notizia del giorno bensí con una notizia, con una buona notizia che resta, che permane, che dura nel tempo e si imprime indelebilmente nella coscienza inducendola a decidere nel nome di valori stabili e ad agire per un sovvertimento qualitativo di se stessi e del mondo, per una trasfigurazione spirituale quanto più elevata possibile dell’umanità che è in tutti e in ognuno di noi.

Tuttavia, il mutamento degli stili di vita e di pensiero non si acquisisce facilmente attraverso le pur complesse e laboriose disquisizioni della mente indagatrice, ma attraverso un esercizio spirituale ininterrotto dell’uomo nella sua indissolubile unità psico-fisica e intellettivo-volitiva: si tratta di lottare senza tregua contro il peccato e l’errore, contro il vizio e l’epidermicità del vivere, contro ogni genere di iniquità e violenza. Si tratta cioè di rimanere sempre antagonisti rispetto ad un mondo di menzogna e di prevaricazione, di falsità e di oppressione, che si annida o è sempre in agguato nella società come in ogni individuo. E tutto questo continua a valere sia per il “religioso” che per il “politico” anche se nell’ambito del “religioso” si percepisce la possibilità di una salvezza non meramente mondana. Tronti, nell’analizzare il rapporto tra politica e spiritualità, ha visto in quest'ultima «l'ultima frontiera della resistenza, l'ultima forma dell'antagonismo rispetto all'ordine esistente», da cui si origina quel «devastante processo di "volgarizzazione" del mondo e della vita» che è stato «promosso negli ultimi anni dal circuito produzione circolazione- distribuzione-consumo» (Incontro su “politica e spiritualità”, Roma, giovedì 16 novembre 2006, in Adista n. 6 del 20-1-2007).

Pertanto la spiritualità non può essere che conflittuale, non paciosa o pacificante a prescindere da un sentire conflittuale ma pacificante a partire proprio da quest’ultimo: «Stare in pace con se stessi, oggi, significa entrare in guerra col mondo»: questa è la spiritualità per Tronti. A dire il vero, questa è anche la spiritualità evangelica, perché Gesù, come è noto, non è venuto a portare la pace ma una spada (Mt 10, 34-37), ovvero lo spirito di fedeltà a Dio in un impegnativo spirito di combattimento contro il peccato e tutto ciò che favorisce la morte della vita spirituale. Ecco: forse, ma non saprei dire in che misura, quel concetto di peccato è ancora oggetto della elaborazione spirituale trontiana.

Tuttavia, solo se si muove dalla consapevolezza che non la pace ma il conflitto o meglio uno spirito conflittuale vissuto non nell’odio ma nell’amore, non nell’ambizione di potere ma nella libertà da ogni ambizione, è il presupposto dell’annuncio evangelico, si possono poi intendere le parole di Gesù: vi lascio la pace, vi dò la mia pace (Gv 14, 27): cioè, non vi lascio in pace come vuole il mondo e non vi dò la pace che dà il mondo; io che sono la via, la verità e la vita non vi dò una falsa tranquillità, non vi dico di non darvi troppo pensiero delle vostre colpe e dei vostri limiti, come delle altrui necessità spirituali e materiali, né vi esonero dal portare con amore croci molto pesanti se questo è consentito e reso possibile dal Signore Dio vostro, né infine vi autorizzo a testimoniare la vostra fede solo a parole e su questioni marginali, ma vi dico che sarete in pace se vi convertirete continuamente e sinceramente alla verità che vi ho insegnato attraverso la mia parola e la mia vita, se malgrado ogni contrarietà obbedirete nel miglior modo possibile ai miei comandi in ogni circostanza della vostra vita. Io vi lascio la pace: se vi metterete alla mia sequela l’esito sarà la pace, perché vi sentirete e sarete in pace verso Dio e verso gli uomini qualunque cosa accada, vi sentirete felici anche se soffrirete molto; anche se per seguirmi dovrete entrare in conflitto con l’uomo vecchio che è in voi e con le oggettive strutture di peccato su cui il vostro mondo è basato, alla fine ad aspettarvi ci sarà la pace, la felicità, non l’angoscia e la disperazione. Vi dò la mia pace: anche se, per seguire me, dovrete sperimentare privazioni e sofferenze, vi sentirete ugualmente felici perché mi sentirete con voi e mi sentirete operare attraverso di voi. Dio sarà realmente con voi se verità, giustizia e spirito di riconciliazione nella carità saranno i tre elementi costitutivi e imprescindibili della vostra pace spirituale e della pace che perseguirete per il mondo.

Questa è la pace di cui parla Gesù, questa è la spiritualità che propone Gesù: l’essere in pace con se stessi nel suo nome comporta dunque che si sia sempre antagonisti rispetto alle iniquità del mondo e alle iniquità che portiamo anche in noi, confidando nel suo aiuto misericordioso e operando in funzione di un regno che è già in mezzo a noi umanità redenta, ma che, persino nel migliore dei casi, non potrà essere compiutamente di questo mondo perché la perfetta giustizia non può essere di questo mondo bensí di un mondo trascendente ma reale di cui, a certe condizioni, potremo essere pienamente partecipi. Perciò chi ama Gesù deve essere sempre aperto e in pari tempo sempre chiuso al mondo, sempre aperto alle povertà e alle necessità effettive del mondo ivi comprese quelle strettamente personali, e sempre chiuso alle sue ingiustizie e ai suoi molteplici abusi.

Donde, pure, non sarà veramente cristiana quella “retorica dell’altro” tanto detestata da Tronti e da lui ritenuta presente anche in certa predicazione cristiana, vale a dire quella spiritualità che «dice di essere laici, tolleranti, ecumenici, multietnici, interreligiosi, aperti all'altro, e bla bla», perché essa non appartiene allo spirito originario della dottrina cristiana, la quale, presupponendo un’effettiva capacità di discernimento alimentata dalla preghiera e sostenuta dall’“alto”, è dottrina di carità nella verità e di verità nella carità, e nella quale non vi è spazio per il “politicamente corretto”, per la diplomazia, per il buonismo ad oltranza, per l’ostentazione di sentimenti di pietà che non siano oggettivamente esercitati o esercitabili, per un amore tanto annunciato e proclamato quanto eluso o tradito e per relazioni umane ed interpersonali di natura comunitaria solo ipocritamente concepite e vissute ma in realtà mai praticate e non praticabili o per pigrizia o perché a ragion veduta indesiderabili e inopportune anche sotto il profilo spirituale.

Il cristiano, se è tale, sa di pensare e agire sotto l’occhio misericordioso ma vigile e severo di Dio: dunque non può fingere, non può imbrogliarsi e imbrogliare nessuno, non può permettersi di pensare e agire ipocritamente, anche se può sempre pentirsi con sincerità dei suoi errori e chiedere perdono al prossimo e al Signore. Per cui non si può essere laici sino al punto di mettere sotto i piedi princípi basilari seppur squisitamente religiosi della propria vita, tolleranti sino al punto di favorire la menzogna o la delinquenza, ecumenici verso coloro che usano le altrui aperture teologiche e spirituali solo per accrescere la propria visibilità e il proprio potere d’influenza, multietnici dove non esistano realmente idonee strutture o condizioni di accoglienza e di immediata integrazione sociale e culturale, interreligiosi dove il dialogo sia semplicemente un dialogo tra sordi e aperto a chi ha una fede altra dalla nostra senza alcuna cautela ed avvedutezza. La spiritualità della carità è una spiritualità generosa e talvolta anche temeraria o imprudente ma non può essere maldestramente confusa con una forma di stupidità o di allarmante e controproducente ingenuità. Soprattutto non deve essere scientemente utilizzata in modo strumentale, perché, essendo l’amore o la carità il nome più sublime di Dio insieme alla verità e alla giustizia, commetteremmo l’orribile peccato di “nominare il nome di Dio invano”.

Certo, per essere sicuri che tutto questo possa avvenire in modo lineare e ineccepibile occorre pur sempre pregare Dio di far scendere il suo spirito su di noi affinché provveda ad illuminare le nostre menti e a fortificare i nostri cuori. Anche Tronti invoca uno spirito di verità ma poi si chiede se sia proprio necessario che questo spirito sia santo, se lo spirito non possa essere «spirito senza aggettivi» (ivi). La risposta cattolica è che questo Spirito di verità è Santo perché senza lo spirito santo di Dio Padre e di Dio Figlio, senza la dinamica energia spirituale che discende dalla intensa e vitale relazione d’amore intercorrente tra l’uno e l’altro e tra essi e tutti gli esseri creati, lo spirito umano non è completamente capace di elevarsi alla verità nella sua interezza o alle verità più profonde e decisive della nostra vita. E bisognerà che un laico cosí sapiente e saggio, cosí acuto e profondo, come Tronti, di cui avrebbe tanto bisogno il pensiero cristiano e cattolico, sia benedetto da Dio per darcene quanto prima lui stesso una diretta e personale testimonianza.