Moralismo, moralità e fede

Scritto da Francesco di Maria.

 

Quando si parla di moralismo forse sarebbe opportuno tener presente anche la specifica dimensione storico-filosofica della relativa problematica, perché trattare di questioni su cui è venuta esercitandosi sistematicamente la riflessione dei filosofi come se esse nascessero oggi per la prima volta nella nostra mente, non è né corretto né proficuo. L’avvertenza è doverosa e resta certamente sullo sfondo di ogni analisi critica realmente consapevole, anche se qui il problema è quello di intendersi con sufficiente chiarezza e con una certa rapidità sul significato di termini come moralismo e moralità su cui oggi tende a farsi molta confusione. Moralismo di per sé non è un termine negativo, perché denota l’attività intellettuale di chi si occupa di problemi morali e si sforza di esprimere giudizi obiettivi su comportamenti individuali e sociali, personali e comunitari, in ordine ai molteplici aspetti dell’agire morale nella società e nel mondo. Cosí anche il termine moralista può essere usato in un’accezione positiva, se si riferisce a chi sine ira ac studio, senza prevenzioni e senza pregiudizi, senza disinvolte semplificazioni e arbitrarie generalizzazioni ma anche senza generiche ed astratte assoluzioni ecumeniche, cerca di cogliere la complessità del mondo morale e dei rapporti morali tra gli uomini, oppure anche a chi con i suoi giudizi limpidi e sferzanti tenta di contribuire a rompere il muro invisibile di ipocrisia, di falsità e di arrivismo che circonda numerosi e molteplici atti e atteggiamenti di vita ordinaria.   

Di fatto però succede che il moralismo si muova sulla china della critica preconcetta e malevola, premeditata e offensiva o vendicativa, perdendo quindi quella reale valenza morale che dovrebbe animarlo per acquisire invece una valenza puramente strumentale in ragione della quale alla serietà e linearità del giudizio si sostituisce la faziosità e la malvagità della condanna. Lo stesso moralista allora può evocare l’astuzia e la subdola abilità di chi non ha vero interesse per i valori morali in termini di verità ma usa piuttosto i valori morali in funzione di interessi o scopi manifesti o nascosti, di natura strettamente personale o di gruppo. Alla moralità usata in modo falso e puramente retorico, e quindi “moralistico” nel senso deteriore del termine, può contrapporsi solo una moralità, basata su una schietta e coerente adesione a princípi e valori di ineccepibile significato morale.

Un filosofo marxista italiano della prima metà del novecento, riferendosi polemicamente al moralismo staliniano, a quel moralismo «sovraccarico di retorica, infarcito di doppie verità, basato sulla doppia morale», in vero cosí diffuso e radicato anche nella società contemporanea occidentale e italiana dell’inizio di questo terzo millennio, sosteneva nel 1944 che, per sintetizzarne il punto di vista con il commento di Ferruccio Capelli (La cultura a Milano nel secondo dopoguerra, in sito della Casa della cultura di Milano), ad esso doveva contrapporsi «la moralità intransigente e laica di chi vuole indagare e capire i fatti con sguardo critico, con tensione di verità per ricercare la coerenza tra le proprie scelte e i propri valori». Per il laico e marxista Banfi, a dire il vero, anche una certa inerzia civile e politica, anche quel rassegnarsi ad un mondo terreno ineluttabilmente iniquo, e insomma anche quella propensione tipica di un certo cattolicesimo a rinviare in un mondo di là da venire la soluzione di ogni problema terreno, avevano ben a che fare con uno stolto e sterile moralismo, ma di contro a qualsivoglia forma o versione di moralismo egli proponeva una moralità lucidamente e onestamente protesa a costruire un mondo più giusto e più libero fondato innanzitutto sulla verità e sulla sostanziale integrità della propria vita e su una oggettiva e legittima aspettativa sociale di un mondo migliore.    

Da un punto di vista strettamente cattolico, don Luigi Giussani una volta  definí il moralismo come «la corruzione della moralità» e come effetto di una presuntuosa sopravvalutazione della propria integrità personale rispetto a quella altrui, da una parte, e di intolleranza non tanto verso il male quanto verso un prossimo diverso da sé, dall’altra.  

Naturalmente, questi due termini (moralismo e moralità) potrebbero essere caratterizzati ancora a lungo, ma ciò che si è detto fin qui è forse sufficiente a chiarire come sia necessario distinguere tra il moralismo becero e predicatorio, quietistico e conservatore, ipocrita e sprezzante dell’«anima bella», che dall’alto della sua torre, ovvero del suo orgoglioso e narcisistico isolamento dal mondo, nonché della sua presunta superiorità o della sua sostanziale ed interessata asocialità, si limita a sputare sentenze sul “marcio” che ci sarebbe nel mondo stesso e su coloro che disturbano i suoi tranquilli e ordinati progetti umani e sociali, e la moralità fresca ed energica, volitiva e fattiva, di chi, pur nella consapevolezza dei propri limiti, non teme di sporcarsi le mani in una dura esperienza di lavoro e di dolore quotidiani per sentirsi realmente autorizzato a rivolgere uno sguardo dignitoso e severo ad eventuali accaparratori e dissipatori del bene comune.

Ci possono essere dunque, sia tra i laici sia tra i credenti, moralisti pedanti o indegni e moralisti assolutamente incisivi ed efficaci anche se sprovvisti di un’aureola di santità. Ma anche quando la distinzione tra il moralismo e la moralità viene riconosciuta, non è ancora detto che non si sia delle persone amorali o immorali o semplicemente superficiali e in definitiva nemiche di una sana moralità. Il buon moralista laico o credente è colui che, capace di sincera conversione quotidiana e di continuo rinnovamento interiore (nel caso del credente), capace di rispettare coerentemente i princípi e i valori (posto che tali siano realmente) in cui crede o dice di credere (nel caso del laico non credente), avverte poi non il diritto ma il dovere di intervenire privatamente o pubblicamente, con sobrietà ma talvolta anche con salutare durezza, nella speranza di contribuire non solo a ripristinare una verità o una giustizia negate ma anche ad illuminare e a potenziare coscienze e volontà alla ricerca di un sicuro e stabile orientamento morale.               

  In particolare, per quanto riguarda il cattolico, egli non giudicherà mai per arroganza o per vanagloria né per diffamare o distruggere l’avversario, ma solo e sempre per onorare la verità in uno spirito di carità verso Dio e verso il genere umano assumendo sempre la difesa attiva di deboli ed oppressi, di persone sfruttate ed ingiustamente discriminate. Perciò egli non amerà le pose (di moralista lagnoso o orgoglioso o punitivo o paternalista o dispotico o anche mellifluo) e non si metterà in posa verso nessuno. Sarà un onesto moralista ma, nel caso in cui non abbia le capacità naturali e i mezzi tecnici per esserlo, sarà soprattutto o esclusivamente un buon testimone di Cristo, se non parlerà genericamente e polemicamente di “immoralità” e “disonestà”, mancando di spiegare quali princípi concreti e definiti siano stati infranti e quali siano i comportamenti corretti da tenere; se non si limiterà a chiedere che la società sia più morale e a criticare i difetti o i vizi altrui senza mai vedere quelli propri o razionalizzandoli e giustificandoli sempre senza alcuna esitazione; se infine, nel nome di presunti o reali ideali dotati di elevato valore morale, non cederà alla tentazione di mettere in pratica, come tanti altri che né sono credenti né sono in possesso di un sicuro senso della moralità, la legge del “fine che giustifica i mezzi”.  

Il testimone di Cristo non è uno che si arrabbia perché coloro che volta a volta diventano implicitamente o esplicitamente oggetto delle sue critiche o dei suoi rilievi non sono come lui, ammesso che l’esemplarità della sua condotta sia davvero pari a quella che egli pensa di avere, ma è uno che, prima di giudicare e di criticare, ha già fatto mille volte i conti con se stesso e desidera semplicemente mettere a frutto la grazia e i doni che Dio gli ha elargito in modo del tutto gratuito. Il moralista cristiano e, più in generale, il testimone di Cristo è anche uno che non è ricattabile, perché, a chi gli dice di ricordarsi ancora molto bene dei suoi trascorsi di peccatore incallito, egli risponde umilmente: “sí, hai ragione, ho molto peccato nella mia vita, ma il Signore mi ha soccorso e mi ha guarito e mi ha dato la grazia, che cerco di onorare al meglio delle mie possibilità, di essere suo testimone per sempre con l’azione e con la parola”.