La fede e la fenomenologia di Husserl
L’adesione alla fenomenologia di Edmund Husserl sembra aver provocato o quanto meno favorito non solo esperienze e cammini filosofici molto interessanti ma anche vere e proprie conversioni religiose, come nel caso di Edith Stein e di altri illustri pensatori europei la cui maturazione filosofica venne gravitando attorno al pensiero husserliano. Lo stesso Husserl si meravigliava del fatto che nel solco filosofico da lui tracciato fosse sbocciata una notevole fioritura religiosa. E, benché sia molto più probabile che quelle conversioni abbiano a che fare più con percorsi esistenziali “individuali” che non con la specifica pratica fenomenologica, bisogna riconoscere che la filosofia e il metodo fenomenologici husserliani, ad un’analisi attenta delle loro caratteristiche e delle loro più precipue articolazioni, risultano funzionali non solo ad una rigorosa ricerca della verità in senso generale ma anche ad un utile e produttivo approfondimento della verità in senso religioso.
La fenomenologia infatti si basa sul principio della epoché, della messa tra parentesi e quindi della neutralizzazione del mondo esistente, del mondo che mi è qui davanti, a portata di mano, con tutto ciò che contiene: questa cultura, questa etica, questo diritto, questa economia, questa religione e via dicendo. Essa insegna cioè a sospendere il giudizio su tutti i dati della realtà in cui vivo, analizzandoli nelle forme empiriche e nei limiti in cui essi appaiono o si manifestano alla mia coscienza, per coglierne gradualmente, non più in chiave meramente psicologica e in termini di senso comune ma nell’ottica di un lavoro critico-razionale inesauribile ovvero trascendentale, tutti gli aspetti possibili, tutto il senso possibile, tutto il significato più vero e profondo possibile, e in questo senso l’essenza immutabile ed eterna al di là delle sue manifestazioni transitorie o parziali. Naturalmente, la spiegazione della fenomenologia husserliana richiederebbe un discorso molto più lungo e complesso. Ma basti qui fissare l’essenziale: la fenomenologia non vuol far sparire il mondo nella sua oggettività, ma al contrario vuol farlo emergere proprio nelle sue strutture oggettive anche se nel quadro di una coscienza soggettiva indagatrice volta continuamente ad intenzionare ovvero a conferire nel modo più unitario possibile senso teoretico ed etico ad un tempo ai singoli e vari oggetti o contenuti che cadono continuamente sotto il mio sguardo osservativo e nel campo della mia riflessione critico-trascendentale.
Allora ogni volta si tratta di rispondere a questa domanda: che cos’è esattamente questa cosa qui, questa cultura, questa etica, questo diritto, questa economia, questa religione e via dicendo? E, per venire al tema in questione, che cos’è la fede, che cos’è la fede delle particolari tradizioni religiose e della stessa tradizione religiosa cattolica, che cos’è questa nostra fede comunitaria e questa mia fede personale? Fenomenologicamente, non ci si può accontentare dei significati già dati o acquisiti del fenomeno indagato dalla coscienza ma bisogna individuarne aspetti ancora sconosciuti e livelli sempre più profondi. D’onde anche la mia fede sarà sempre suscettibile di verifica, di approfondimento e di revisione: essa non potrà mai essere un’abitudine passiva, uno statico schema mentale, un prodotto culturale e teologico immodificabile. Sempre fede in Dio sarà, ma fede sempre nuova e dinamica in un Dio mai scontato e mai univocamente definibile, in un Dio non sconosciuto ma rivelato e tuttavia mai conoscibile in modo assoluto e definitivo.
In altri termini, cosí come non si tratta di mettere in discussione la verità o le verità del mondo, allo stesso modo non si tratta, per chi già crede, di mettere in discussione la fede e la sua universalità ma di giustificarla criticamente secondo un processo di ricerca che non ha mai termine. Quello che vale per la scienza vale anche per la fede: la scienza non può e non deve adagiarsi su metodi e risultati acquisiti ritenendoli ormai ovvi scontati e definitivi, la fede non può e non deve vivere solo di formule e riti che si tramandano di generazione in generazione ma soprattutto di una interrogazione spirituale sempre attiva circa le ragioni e i modi della nostra stessa fede e delle nostre specifiche credenze religiose. Per un cattolico, per esempio, Cristo è via, verità e vita, ma il problema, fenomenologicamente parlando, è che quella via, quella verità e quella vita, non sono mai completamente raggiungibili nell’ambito delle nostre attuali facoltà o strutture conoscitive, morali e spirituali. Cosí com’è ora, nella sua presente condizione storica, l’uomo può e deve solo fidarsi di Cristo come via che conduce alla verità assoluta e alla vita eterna, ma egli sa o deve sapere che né quella via è da lui totalmente sperimentabile, né la sua sete di verità e di vita potrà estinguersi sia soprattutto in quanto soggetto storicamente itinerante sia anche in quanto soggetto eventualmente destinato ad ottenere un giorno il privilegio di vedere faccia a faccia Dio stesso.
Bisogna però precisare che la fenomenologia in quanto tale non è né credente né agnostica, nel senso che essa è una filosofia della coscienza naturale che tende ad elevarsi verso condizioni soggettive sempre più alte di visibilità critica ed interpretativa, le quali però, proprio perché condizioni soggettive che tali restano pur in uno sforzo di sempre più qualificata oggettivazione, possono spingere la coscienza sino a renderla o fedelissima catecumena o incredula irriverente. Ciò è vero anche se Husserl, di origine ebraica e convertitosi poi al cristianesimo, nonché capace di condurre una vita austera e quasi monastica, ebbe a rimproverarsi significativamente di aver affrontato troppo tardi la questione religiosa, impegnato com’era nella ricerca inesausta dei fondamenti del sapere. Per cui non c’è dubbio che l’impostazione fenomenologica sia utilissima anche in rapporto al problema della fede e dei diversi livelli possibili di profondità e validità della fede stessa. Si può giungere ad affermare che un sano sguardo fenomenologico sia già implicitamente contenuto nell’orizzonte evangelico del Verbo di Dio, giacché il Salvatore ha ben mostrato come la salvezza passi attraverso una battaglia spirituale senza fine ed una trasformazione qualitativa continua della propria vita interiore.
Sospendere fenomenologicamente il giudizio su Dio e su quanto vi sia annesso e connesso non significa mettere in discussione o negare né l’esistenza di Dio né la sua giustizia e la sua misericordia, ma verificare in che modo Dio esista e sia giusto e buono non per sentito dire, non in modo estrinseco o derivato, ma attraverso la mia personale e consapevole percezione esistenziale e nei modi e limiti in cui la mia coscienza non passiva ma attiva e riflessiva possa consentirmi di pensare, volere e amare Dio stesso. Cosí come ridurre fenomenologicamente Dio alla coscienza non implica il disconoscimento della assoluta trascendenza ontologica di Dio anche rispetto alla coscienza umana ma una lettura quanto più rigorosa e fedele possibile, quanto più completa ed esaustiva possibile, della potenza e della grandezza senza fondo di Dio, della sua giustizia e della sua sapienza incommensurabili, del suo amore abissale e sempre sorprendente. E una lettura che è ad un tempo soggettiva ed intersoggettiva perché anche il mondo intersoggettivo rientra e condiziona (non solo nell’atteggiamento naturale ma nello stesso atteggiamento critico-fenomenologico) l’attività intenzionale della soggettività. Il che, come può ben capirsi, viene implicando una crescente personalizzazione e una radicale interiorizzazione di Dio e della stessa fede in Dio. Cosí Dio, anche nella sua forma cattolica, cioè in quella che per molti di noi è la sua rappresentazione più universale, non resta altro dalla mia coscienza di singolo credente pur dovendosene riconoscere l’assoluta alterità ontologica e il suo amore infinito, non è più un concetto astratto e una credenza sincera ma ancora vaga e generica bensí amore in me e per me che viene manifestandosi ininterrottamente e con modalità e tonalità sempre inedite nel flusso della mia coscienza e nella perenne problematicità dei miei “vissuti” (erlebnisse) spirituali.
Perciò, la fenomenologia può ben configurarsi come prezioso strumento di permanente conversione spirituale della persona e dell’umanità anche se tale strumento nulla potrebbe senza l’azione determinante della grazia divina. Ovviamente, questo strumento, che può essere usato in qualunque contesto esistenziale e con un’efficacia variabile e dipendente dalla qualità delle operazioni spirituali più che intellettuali soggettive, non toglie nulla alla oggettività e alla pregnanza storica delle forme in cui la fede sia stata tramandata: e in tal senso, per un cattolico, la Chiesa rimane pur sempre maestra insuperabile di fede. Esso però può consentire che il sentire del singolo credente non si relazioni al sentire della Chiesa in termini di sudditanza o di subordinazione pura e semplice ma in termini di vera e reciproca comunione spirituale che imponga sia alla Chiesa come gerarchia e come istituzione sia ai credenti come “pietre viventi” della Chiesa stessa il dovere dell’ascolto e del reciproco arricchimento spirituale, per cui può essere condivisibile quanto affermato da Alwin Diemer: «Dio stesso è per me ciò che egli è a partire dalla mia personale realizzazione della coscienza; io non posso, per paura di essere blasfemo, sviare i miei pensieri, il mio sguardo: bisogna guardare il problema in faccia» (Edmund Husserl. Versuch einer systematischen Darstellung seiner Phànomenologie, A. Hain, Meisenheim/Glan 2 ediz. 1965, p. 27, cit. in Xavier Tilliette, Dall’intersoggettività a Dio. Un cammino non confessionale verso Dio, in Breve introduzione alla fenomenologia husserliana, Lanciano, Itinerari, 1983, pp. 29-39). Dove, a ben vedere, questa potente istanza di trasformazione spirituale (metànoia), non è ciò che il cristianesimo può ricevere dalla fenomenologia ma piuttosto ciò che la fenomenologia ha saggiamente ereditato dal cristianesimo e dal suo universale messaggio di senso salvifico.
Non è per voler essere troppo complicato che io voglio sapere, voglio capire, voglio chiarire a me stesso le cose della teologia o del magistero ecclesiale, ma al contrario è solo per quell’esigenza di semplicità che anima tutti coloro che vogliono riporre la loro fede in cose realmente comprese, vissute, amabili ed amate, al di là delle forme ufficiali e già accreditate in cui generalmente vengono rappresentate. Non è stato forse detto autorevolmente che il regno di Dio è in mezzo a noi e dentro di noi?
Ecco: per via fenomenologica questo concetto viene ripreso e riproposto, per cui tutto ciò che è Chiesa può venire accolto in ognuno di noi con l’amorevolezza e lo spirito di carità di chi vuole capire non per superbia ma per essere più vicino a Dio, e può diventare oggetto di filiale obbedienza non per paura o per viltà ma per servire Dio e il prossimo in modo quanto più possibile libero, responsabile e generoso. Il credente quindi diventa uno che innocentemente e non colpevolmente vuole capire, vuole interloquire, vuole risposte chiare e convincenti per poter orientare razionalmente e rettamente il suo pensiero e la sua vita. Come lo stesso Husserl scrisse una volta, il fenomenologo è «un bambino nel regno dello spirito puro», «nel regno di Dio» (Husserliana, VIII, 123, 227, 433 in Tilliette, cit.). Più la trascendenza di Dio si radica nell’immanente e ansiosa ricerca della coscienza, più si chiariscono agli occhi di quel bambino le sue necessità più vitali e i suoi più inderogabili compiti spirituali. Più quel bambino chiede di sapere, maggiori sono gli orizzonti di luce e di amore che si spalancano nella e sulla sua vita. E si capisce perché per lui la Chiesa non possa essere un fine ma, per volontà stessa di Dio, un mezzo, un mezzo importante attraverso cui si possa rendere sempre più visibile e chiara l’identità e la presenza di Dio tra gli uomini e in ognuno di essi.