La Chiesa e la filosofia contemporanea
Temo che nella cultura cattolica ci sia un equivoco che rischia di danneggiare sia le ragioni della fede che quelle del sapere, fermo restando che anche la fede è una forma di sapere ponendosi proprio etimologicamente, nell’ambito dell’epoca cristiana delle origini, come “apertura alla conoscenza” delle cose nella loro interezza. L’equivoco è costituito da una persistente e disinvolta tendenza cattolica ad identificare il relativismo con lo scetticismo quasi fossero sinonimi. Però, benché si possa parlare indubbiamente di relativismo scettico o di scetticismo relativistico, non è affatto necessario pensare che il relativismo, cosí come è venuto costituendosi nel quadro della scienza moderna e contemporanea e del relativo dibattito epistemologico, sia intrinsecamente scettico e inevitabilmente funzionale al dissolvimento del concetto di verità e della stessa possibilità di un conoscere universale. E’ curioso che un gran numero di filosofi e teologi cattolici continuino ad avere una concezione limitata e obiettivamente riduttiva del significato e del valore di tanta parte della filosofia contemporanea che, pur non esente da limiti e da inattese cadute dogmatiche, ha nel concetto di “relatività” e di “verità relativa” un punto di forza e non certo di debolezza.
Un filosofo italiano razionalista e marxista come Antonio Banfi cercò di dimostrare molti decenni or sono che la scienza, la storia della scienza, la filosofia della scienza immettono sulla via della ricerca e della individuazione delle forme di oggettività e di universalità della ragione; che esse, pur avanzando tra mille cautele procedurali sulla base di un’impostazione metodologica relativistica (perché non c’è conoscenza al di fuori di un determinato sistema scientifico di riferimento e quindi non c’è conoscenza che non sia relativa a qualcosa come un presupposto teorico, un principio metodologico o una costellazione di teorie o di modelli e di risultati scientifici), non implicano affatto la frammentazione o la polverizzazione della verità ma al contrario una sua crescente integrazione o un suo graduale arricchimento in termini di universalità. Per cui, nella scienza come a maggior ragione nella filosofia che non può esplicarsi ed evolversi al di fuori dei processi e dei progressi scientifici, non c’è semplicemente un relativismo scettico o un relativismo critico demolitivo di ogni certezza e di ogni stabilità conoscitiva ma c’è anche e soprattutto un relativismo critico di tipo universalistico secondo cui ogni certezza del sapere scientifico è universale anche se non assoluta, universale ma sempre suscettibile di revisione e di approfondimento, stabile ma pur sempre all’interno (e dunque relativamente stabile) di una realtà complessiva del conoscere e del sapere che non è statica ma dinamica e destinata ad evolversi lentamente ma continuamente.
Ora, non vedo perché tutto questo debba infastidire tanto le menti dei principali responsabili della gerarchia cattolica quasi che da tutto questo potessero e dovessero derivare per la fede solo danni certi e non invece possibili vantaggi o guadagni. Purtroppo, per un mondo cattolico ostinatamente fermo a certi significati metafisici e ontologici tradizionali della filosofia, questioni come quelle relative al valore regolativo della conoscenza, alla consapevolezza della mancanza di fondamenti certi nella scienza e della costante prevalenza in essa della domanda sull’offerta, all’acquisizione metodologica del nesso tra scienza e “interpretazione” della scienza e di quello tra storia della scienza e scienza della storia, alla riflessione esercitata non solo sul come (sui modi) ma anche sul perché (sulle possibili ragioni strutturali) del processo scientifico, al rapporto di non necessaria identità istituito tra sviluppo scientifico e progresso scientifico, sono come semplici quisquilie, poco più di inutili bagattelle da tenere rigorosamente distinte dalle cose serie.
Ma, in realtà, “la sfiducia” del pensiero contemporaneo “nella verità”, contrariamente a quanto sostenuto di frequente dai principali organi di informazione della Chiesa cattolica, è solo un esito tra molti esiti possibili che lo stesso pensiero contemporaneo ha prodotto o può produrre, perché è nel nome di una razionalità saggia e disciplinata che diverse forme o correnti della filosofia contemporanea vengono esercitando la propria attività di ricerca, ed è nel nome della verità che esse non intendono procedere verso conclusioni che sotto un profilo rigorosamente critico possano apparire legittimamente affrettate e tendenziose.
Pertanto, non è giusto ritenere che la filosofia contemporanea, di cui peraltro non si intende disconoscere né certa superbia speculativa né certo malefico orgoglio laicista che collidono talvolta in modo stridente e paradossale con la sua pur dichiarata autonomia critica e razionale, si accontenti sempre «di verità parziali e provvisorie, senza» mai «tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana personale e sociale» (G. Paolo II, Fides et ratio, 5). Le domande radicali, invece, vengono poste, anche perché alcune correnti filosofiche contemporanee, come ad esempio la fenomenologia husserliana, sono degnissime interpreti della filosofia come interrogazione radicale su tutti gli aspetti della realtà storico-esistenziale e storico-filosofico e culturale dell’umanità, ivi compresi naturalmente quelli di natura eminentemente religiosa. Ciò che indubbiamente tali correnti non danno sono «risposte definitive a tali domande» (Ivi), ma è del tutto ragionevole che ciò accada dal momento che persino un uomo di grande fede, e tuttavia sorretto da un’intelligenza altrettanto grande, non può non rendersi conto che tra le verità della sua fede e le vie o i processi mentali e razionali per arrivarci non sussiste un rapporto lineare di semplice continuità ma un rapporto abbastanza complesso e faticoso di continuità-discontinuità che solo con l’apporto decisivo della grazia divina può aprirsi alla visione chiara e ultimativa di una verità assoluta che si può appunto vedere o intravedere attraverso le segrete risorse intuitive dello spirito ma solo in parte spiegare con la ragione.
Perciò, non bisogna avere fretta e non bisogna svalutare il pensiero critico e razionale della filosofia laica contemporanea, che si badi può ben essere anch’essa, anche per chi crede fervidamente, una manifestazione della sapienza divina, manifestazione di cui il pensiero cattolico dovrebbe fare semmai buon uso per arricchirsene e non per lasciare che altri la utilizzino dogmaticamente e sistematicamente in funzione antireligiosa e anticristiana.
E’ assolutamente giusto che la «Chiesa creda che il senso ultimo di tutte le cose si trovi in Gesù, indicando così il senso globale della vita e della storia» (Luis Francisco Ladaria Ferrer, La falsa modestia della filosofia contemporanea, in “Zenit” del 30 ottobre 2009). Cristo è la verità, ma Cristo vuole che alla verità che è lui stesso gli uomini giungano attraverso le loro concrete e personali esperienze di vita, attraverso i loro meccanismi mentali che non possono prescindere dalle loro particolari origini o dai loro specifici condizionamenti esistenziali, attraverso una fede che non svaluta il proprio modo di pensare e di essere pur profondamente rinnovando l’uno e l’altro, attraverso una fede quindi che scaturisce dalle verità parziali e relative della esistenza quotidiana, e non attraverso presunte dimostrazioni filosofiche o discorsi teologici forse rigorosi e ordinati ma spesso incomprensibili a chi semplicemente ha bisogno di Qualcuno che vivendo e soffrendo come lui sappia fargli capire che basta credere in Dio con una onesta condotta di vita per essere eternamente felice.
Cristo è la verità, e una verità assoluta che va tuttavia capita, indagata, approfondita sino alla fine della vita e della storia, ma se di lui si fa, sia pure in buona fede, un uso distorto o tendenzioso o comunque incauto, egli non è più la verità ma si trasforma in un simulacro di verità che alla lunga rischia di trasmettere in molte coscienze itineranti sconforto e disillusione più che fede e speranza, un senso di solitudine e di fastidio più che di ammirazione per un Dio che, a causa di un inconscio ma eccessivo desiderio di imporlo soprattutto con strumenti intellettuali e per mezzo di un’intelligenza teologica pur sempre limitata, si sarà forse contribuito ad allontanare dal sentire comune di molti uomini semplici.