La fede cristiana e Freud
Erich Fromm ha scritto: «Sigmund Freud senza dubbio considerava la credenza in Dio come un'illusione che uomini e donne maturi devono abbandonare. Per Freud l'idea di Dio non è una menzogna, ma un prodotto dell'inconscio che deve essere interpretato psicologicamente. Un dio concepito come una persona non è altro che una figura paterna ingrandita; il desiderio di una divinità ha origine nel bisogno di giustizia e nell'aspirazione all'immortalità. Dio è solo una proiezione di questi desideri, ed è temuto e adorato dagli esseri umani a causa dell'insicurezza di cui essi non sanno liberarsi. Secondo Freud, la religione appartiene propriamente all'infanzia della razza umana, è stata una fase necessaria della transizione dall'infanzia alla maturità, e ha promosso valori etici che erano indispensabili alla vita sociale. Ora che l'umanità è matura, però, la religione deve essere abbandonata» (Marx e Freud, Milano, Il Saggiatore, 1998). La religione sarebbe dunque “un’illusione”. Per Freud essa è anche “un pericolo” in quanto «tende a santificare certe cattive istituzioni umane con cui si è sempre alleata; inoltre la religione tende a impoverire l’intelligenza, insegnando a credere a un’illusione e proibendo il pensiero critico» (Ivi), dal momento che si può facilmente constatare la differenza e il contrasto che passano tra la vivida intelligenza del bambino e l’impoverimento della ragione che si verifica generalmente nell’adulto medio, il più esposto all’influenza coercitiva e consolatoria ad un tempo della religione (Ivi).
Freud adduce buone argomentazioni a sostegno della tesi per cui, nel vietare di usare criticamente le proprie facoltà in determinate direzioni, la Chiesa non può che contribuire ad abbassare l’acume critico del soggetto danneggiandone in misura più o meno sensibile le capacità razionali e rendendo più complicato il compito umano di salvaguardare ideali e valori universali come appunto la razionalità, la ricerca dei mezzi più idonei a riconoscere e a ridurre le sofferenze umane, la libera e non dogmatica individuazione del senso o dei sensi più profondi e non mistificati della moralità umana con conseguente ed annessa possibilità di tendere ad una convivenza civile quanto più possibile sottratta a mitici ed astratti autoritarismi paternalistici e repressivi pure inevitabili per il mantenimento stesso della civiltà (Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Boringhieri, 1971).
Con il progredire della scienza, è possibile che l’uomo in generale sia capace di rinunciare all’«illusione di un Dio paterno», rendendosi conto «di essere solo nell’universo, e di non contare nulla», ma trovandosi al tempo stesso nella condizione di poter contare solo sulle sue forze e sulla consapevolezza di dover affrontare la realtà circostante attraverso la migliore utilizzazione possibile delle sue energie psichiche e delle sue risorse umane. Come scrive ancora Fromm: «L’autorità minaccia insieme e protegge: solo l’uomo libero che ha saputo emanciparsene è in grado di usare le proprie facoltà razionali e di capire oggettivamente il mondo e la propria parte in seno ad esso. Le illusioni sono cadute, ma egli possiede in cambio la capacità di sviluppare e mettere in uso tutte le sue facoltà. Solo facendoci adulti, e smettendo di lasciarci guidare e intimorire dall’autorità, come i bambini, possiamo trovare il coraggio per pensare con la nostra testa. Ma è vero anche l’inverso, che solo trovando il coraggio per pensare con la nostra testa possiamo emanciparci dall’autorità» (cit.).
Posto il concetto per cui la religione è una nevrosi ossessiva, Freud, affidandosi ad un’attenta osservazione empirica dei fenomeni psichici umani e ad una ragione analitico-comparativa molto stringente e rigorosa, rileva non senza ragione, come scrive don Marcello Stanzione, che «taluni malati mentali hanno delle condotte troppo rigide. Essi si lavano le mani diverse volte al giorno, mettono e tolgono i propri abiti sempre nello stesso senso, applicano tutto un cerimoniale nella vita quotidiana. E se non osservano questi “riti”, se ne sentono profondamente angosciati, al punto che tutta la loro vita è letteralmente avvelenata da questi timori, da queste costrizioni, dagli obblighi e divieti che si sono dati da se stessi. Ora, secondo Freud, le condotte religiose rassomigliano in molti punti a queste condotte malate: il credente...si sottopone a tutto un rituale fatto di gesti, di parole, di preghiere alle quali si sottomette meticolosamente e meccanicamente secondo un codice che gli è imposto dall’esterno. La religione è dunque una nevrosi, una patologia della psiche» (Dio? Per Freud è una proiezione dell’immagine del Padre, in “Pontifex” del 22 ottobre 2008).
Ora, per noi cattolici non dovrebbe avere una grandissima importanza la probabile unilateralità dell’indagine con cui Freud giunge a sostenere che la religione corrisponde sempre ad un bisogno irremovibile di paternità, motivato dalla presenza di un senso di colpa verso il padre “ucciso” o violato e dalla successiva spinta ad una riconciliazione con il padre stesso; e che, pertanto, «in ogni adulto vi è in effetti un bambino da consolare: “la vita è troppo pesante, ci infligge troppe pene, delusioni, compiti insolubili. Per sopportarla non possiamo fare a meno dei sedativi”» (Ivi). Così ci sono adulti che si rifugiano nella religione «come altri nella droga od il piacere erotico» (Ivi). Per noi invece molto più importante è usare le osservazioni freudiane per vedere di capire meglio e bene i diversi modi possibili in cui la fede può essere vissuta: e non c’è alcun dubbio che nel mondo cristiano e cattolico la religione sia vissuta non di rado come “una nevrosi” e come “una patologia della psiche”, proprio in conformità a quanto denunciato da Freud.
Come nota perspicacemente don Marcello Stanzione, «la critica di Freud non è inutile se essa ci ricorda che Dio non è» e non può essere «solamente l’espressione dei nostri desideri infantili!». Essa ci permette in realtà di verificare la validità e la correttezza spirituale delle immagini, spesso soggette a distorsioni o ad usi arbitrari, che ognuno di noi tende a farsi di Dio stesso (Ivi), e di prendere eventualmente coscienza che la nostra fede necessita di essere rettificata e resa più coerente con i dati biblico-evangelici a loro volta suscettibili di parziale e graduale revisione e approfondimento e tuttavia dotati di una inoppugnabile oggettività di senso. Alla luce di tale avvertenza, appaiono francamente eccessivi e fuorvianti i toni e gli epiteti riservati allo scienziato viennese da alcuni interpreti o siti cattolici che si affannano a sottolineare come Freud fosse un “ateo dichiarato” e quindi “totalmente inetto a comprendere il mistero di Cristo” e capace di dire su Cristo, sulla Chiesa o sulla vita cristiana solo “un cumulo di inesattezze” (cfr., per esempio, il sito “Apologia cattolica”). Non sembra affatto necessario fare di Freud “un potente antiCristo” (Ivi) che cercherebbe di inoculare dubbi satanici e devastanti nella coscienza di tanti cristiani contemporanei.
Certo, molti cristiani e cattolici perfettamente consapevoli della vera natura della fede in Cristo e del significato e delle implicazioni reali della testimonianza cristiana, sanno bene, e saranno sempre in grado di sostenere con buone ragioni che la scienza non potrà mai soppiantare la fede religiosa almeno da un punto di vista teorico e spirituale e che la fede non è necessariamente il prodotto di una mente infantile, immatura e incolta. I buoni cattolici, tra i quali vanno inclusi moltissimi spiriti semplici che sanno felicemente intuire le verità della fede anche se non sono sempre attrezzati culturalmente per spiegarle o dimostrarle sul piano logico-argomentativo, non possono a ragion veduta condividere l’idea freudiana della religione come di «semplice autoappagamento» o come «una favola per bambini inventata dagli uomini per soddisfare le loro incertezze» (Ivi) e certe loro ancestrali carenze psichiche e affettive.
Ma essi possono e devono riconoscere obiettivamente che Freud non è un ciarlatano, un venditore di fumo e di inganni. Freud, pur dovendo come tutti rendere conto a Dio dei suoi pensieri e delle sue opere, è uno scienziato di altissimo valore di cui la cultura umana non potrà non fregiarsi per sempre. La psicanalisi, da lui fondata, non è annoverabile tra le futili e chiassose bagattelle escogitate dal pensiero umano, ma una teoria medico-scientifica che, pur non esente da limiti ed errori soprattutto nelle sue applicazioni allo studio della civiltà umana e dei fenomeni per cosí dire sovrastrutturali ad essa connessi, ha contribuito a cambiare notevolmente nel corso del novecento i nostri modi di pensare, le nostre credenze, i nostri stili di vita sino al punto che la sua importanza e la sua utilità non potranno essere mai più disconosciute o negate.
E, grazie alla psicanalisi, anche la fede cattolica può essere “purificata”, soprattutto tenendo conto che la prima è di grandissimo aiuto nel sondare, nel decifrare e nello scoprire i fondali più nascosti della realtà psichica umana e quel mondo sommerso di “eccitazioni” continuamente “ribollenti” che è l’inconscio dell’uomo e della donna. Non è in effetti nella parte più oscura di sé che il cristiano è chiamato a fare pulizia, a mettere ordine, ad accogliere la pace salvifica ma per nulla tranquillizzante di Cristo? Gli interrogativi della psicanalisi non sono affatto “demoniaci”: è bene che i credenti siano persone ben avvertite delle vere ragioni della loro fede e siano in grado di stabilire la sincerità e la profondità del loro credere e del loro particolare modo di credere. Tutto ciò che può aiutare il credente a rendere più pura, più solida, più incisiva e attendibile la propria fede, deve essere accolto e valorizzato dalla comunità ecclesiale, a prescindere dal fatto che provenga da ambiti non cristiani.
D’altra parte, non è vero che la scienza e la terapia psicoanalitiche tendano a deresponsabilizzare la persona, perché al contrario tendono ambedue a rendere la persona quanto più consapevole possibile dei suoi possibili traumi psichici, dei suoi eventuali disturbi mentali, delle sue difficoltà emozionali ed affettive, e a porla quindi nella condizione ottimale di governare responsabilmente le sue pulsioni mettendo loro le briglie se troppo distruttive o mettendo loro saggiamente le ali se troppo coattive ed oppressive. Certo, la psicanalisi non appare in grado di capire l’insegnamento oblativo di cui parla il vangelo, l’invito ad amare gli altri come se stessi, l’estremo sacrificio di sé nel nome di Cristo, e anzi qui è netta la sua erronea presa di distanza da questi che ritiene le tipiche espressioni di irrazionalità della religione cristiana la cui pretesa di avere un’origine divina cozza secondo Freud contro ogni più elementare norma di buon senso. Ciò non toglie tuttavia che l’onesto credente in Cristo potrà e dovrà utilmente avvalersi del contributo scientifico freudiano per tracciare una linea sufficientemente chiara di confine tra una fede malata o patologica anche se accolta e rispettata dal mondo e una fede sana ed equilibrata anche se odiata e disprezzata dal mondo (cfr. anche E. Pavesi, S. Freud, religione e Chiesa cattolica, “Cristianità” n. 175-176, 1989, nel sito “Alleanza Cattolica”).
Se anche Freud può aiutarci a liberarci da una religiosità distorta ed alienante e da una fede vissuta e praticata in modo abnorme, noi abbiamo il dovere di ringraziarlo, esattamente come abbiamo il dovere di mostrarci grati verso chiunque, credente o non credente, ci consenta di fare della nostra fede qualcosa di meglio e di più significativo di una mera “illusione” (Freud, L’avvenire di un’illusione, del 1927, pubblicato in “Il disagio della civiltà”, già cit.), sempre sicuri tuttavia, per grazia di Dio, che la fede in Gesù, in sé considerata, non sia affatto una pura “illusione” o una semplice estraniazione dalla realtà.