Benedetto XVI, i vangeli e gli ebrei

Scritto da Francesco di Maria.

 

Se quanto viene anticipato in questi giorni su tutti i giornali corrisponde a verità, temo di non poter condividere la nuova esegesi proposta da Benedetto XVI sul ruolo del “popolo ebraico” nella condanna e nella crocifissione di Cristo, esegesi che appare troppo sofisticata e troppo dubitativa, direi troppo “relativistica”, circa la fondatezza delle parole usate, in vero non a caso e non superficialmente, dall’evangelista Matteo. Infatti Matteo, nell’attribuire a “tutto il popolo” la richiesta della crocifissione di Gesù, per il papa sarebbe in qualche modo responsabile di aver alterato la realtà storica anche perché, egli osserva, è difficile pensare che nel momento dell’acclamazione favorevole a Barabba e sfavorevole a Gesù tutto il popolo ebraico fosse presente e unanimemente impegnato a chiedere la morte di Gesù. A questo rilievo critico il papa contrappone il riconoscimento per cui invece «la realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco». Perché?

Perché in Giovanni, è la risposta, l’espressione “i giudei”, assolutamente priva di implicazioni “razziste”, non indica il popolo ebraico in quanto tale o nella sua interezza ma designa semplicemente l’aristocrazia religiosa del tempio e anche qui con qualche eccezione assai significativa: Nicodemo, Giuseppe di Arimatea. D’altra parte, in Marco il numero degli accusatori di Gesù appare più ampio venendo a coincidere con la “massa” dei sostenitori del terrorista Barabba: ma anche questa massa di gente eversiva, seppur a suo modo aperta alla venuta in terra del Messia e di un Messia politico e guerriero che avrebbe messo subito le cose a posto, non è comprensiva dell’intero popolo di Israele. Si può quindi dire che, in senso giuridico, nel momento in cui Pilato chiede l’acclamazione popolare per decidere se rilasciare Gesù o Barabba, il popolo è effettivamente presente ma in modo ancora parziale ed unilaterale, anche perché i seguaci di Gesù si nascondono per paura e tacciono. Questo sembra dire il papa.

Veramente ci sarebbe anche la testimonianza di Luca, di cui almeno nei resoconti giornalistici non mi pare si faccia menzione. Secondo Luca, Pilato riuní «i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo», come dire tutte le componenti del popolo ebraico, sí che sarebbe arduo sostenere che quest’ultimo non fosse in quella occasione equanimemente e fedelmente rappresentato (Lc 23, 13), sebbene poi lo stesso Luca parli di «una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui» (Lc, 23, 27), cioè su Gesù per la cui tragica sorte erano affranti e addolorati, ma non senza precisare altrove che se i capi religiosi e i soldati lo deridevano e lo insultavano, «il popolo stava a vedere» (Lc 23, 35-37), vale a dire fungeva da semplice spettatore senza alcuna particolare partecipazione affettiva ed emotiva per le terribili sofferenze inflitte a Gesù. Sempre Luca, nel raccontare la profezia di Simeone a Maria e a Giuseppe, scrive chiaramente: «Ecco, egli (Gesù) è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione - e anche a te una spada trafiggerà l'anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2, 34-35), dove ci si riferisce chiaramente al popolo di Israele in generale e quindi al popolo ebraico nel suo insieme o nell’insieme delle sue componenti sociali ed istituzionali anche se non naturalmente ad ogni singolo ebreo. 

Ma, ritornando all’esegesi pontificia, un’«amplificazione dell’ochlos di Marco, fatale nelle sue conseguenze, si trova in Matteo (27, 25), che parla invece di “tutto il popolo”, attribuendo ad esso la richiesta della crocifissione di Gesù», donde poi quelle accuse ingiustificate di “deicidio” rivolte agli ebrei da cui essi sarebbero rimasti per sempre marchiati storicamente. Ma perché Matteo ritiene di dover coinvolgere tutto il popolo di Israele ben oltre i fatti storici? Il papa risponde: per motivi teologici, vale a dire per dare spiegazione del terribile destino storico degli ebrei, già preannunciato da Gesù (Mt 23, 37), nella guerra contro i Romani quando quest’ultimi avrebbero distrutto Gerusalemme nel 70 d.C. privando il popolo ebraico della terra, della città e del tempio. Ma il castigo inflitto da Dio agli ebrei attraverso i romani, osserva il papa, non è definitivo bensí funzionale alla loro “guarigione”. Quindi gli ebrei non sarebbero stati ripudiati da Dio ma esortati, sia pure drammaticamente, a ripensare la propria posizione, a convertirsi profondamente a Dio ovvero al Dio di Gesù e a riconciliarsi per sempre con lui. Per cui, secondo Benedetto XVI, quando Matteo fa dire a “tutto il popolo”: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (27, 25), ciò non deve essere inteso come una ipotetica maledizione che avrebbe dovuto colpire gli ebrei di generazione in generazione per l’eventuale “deicidio” da essi commesso benché da essi non ritenuto tale a causa della loro cecità spirituale, ma come benedizione ovvero nel senso che il sangue di Cristo venisse versato a favore degli ebrei, per la salvezza degli ebrei.

Anche qui l’esegesi pontificia sembra scontrarsi con l’evidenza, giacché Matteo intende e vuole intendere inequivocabilmente quelle parole proprio come anticipazione profetica di una condanna, di uno sterminio, di un olocausto (diciamolo pure senza remore di sorta tese a compiacere o a non turbare i nostri fratelli ebrei contemporanei) che si sarebbero potuti abbattere sugli ebrei nel corso della loro storia, specialmente ove quella “punizione” subita dai Romani di Tito nel ’70 d.C. non fosse stata da essi utilizzata e trasformata in occasione di riscatto e di pentimento e di conversione a Cristo. Infatti, in Matteo si legge anche, nella requisitoria di Gesù contro scribi e farisei ipocriti che esercitavano pur sempre una certa influenza sul popolo: «io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l'altare. In verità io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione» (Mt 23, 34-36, corsivo mio). Come si vede, qui il sangue innocente versato non ricade affatto in modo salvifico ma in modo semplicemente e drasticamente punitivo su tutti coloro che ne erano stati o ne sarebbero stati in futuro responsabili: un ragionamento che a maggior ragione deve valere per il sangue innocente di Cristo. Ma i responsabili di un cosí grande misfatto contro il Cristo furono pochi o molti? Questo sembra essere il quesito più sentito dal papa.

Non vi è dubbio che i principali responsabili della morte di Cristo siano, per suo stesso dire (“chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande”, egli dice a Pilato in Gv 19,11), i sacerdoti e la parte più alta della classe sacerdotale, probabilmente quei sadducei contro cui sono rivolti i più veementi attacchi di Gesù. Capi dei sacerdoti, scribi e anziani sono in generale i più indiziati tra i possibili soggetti colpevoli di aver condannato Gesù. Questo però non significa che anche quel popolo, quella folla, quella massa considerevole di gente che si lascia aizzare dai rappresentanti del sacro aderendo poi all’invito a reclamare a gran voce la crocifissione di Gesù, non siano responsabili della sua morte, responsabili peraltro temerari perché si mostrano cosí certi della colpevolezza di quest’ultimo da spingersi sino al punto di chiedere che il suo sangue ricada su di loro e sulle successive generazioni nell’eventualità ritenuta per l’appunto ben poco verisimile che essi in realtà stessero condannando ingiustamente un innocente. Come dire: siamo cosí certi che lui sia una persona malvagia ed empia verso gli uomini e verso Dio che siamo disposti persino ad invocare su di noi e sulle future generazioni del nostro popolo il castigo di Dio.

D’altra parte, anche nel vangelo di Giovanni, che insieme a quello di Marco il papa considera il più obiettivo e il più fedele alla realtà storica, si riconosce chiaramente che a non accogliere il Cristo non sarebbero stati solo i grandi sacerdoti ma i suoi conterranei in genere, i suoi stessi connazionali e correligionari, insomma “i suoi”: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 11). A meno di acrobazie linguistico-semantiche particolarmente spericolate, l’espressione “i suoi” non può significare altro che questo. Certo, il popolo di Israele, quando Gesù entra a Gerusalemme, è pronto ad accoglierlo come un re, come un Messia, come il liberatore da sempre atteso e agognato, ma esso in realtà sta fraintendendo Gesù e la sua opera di salvezza e gli tributa festeggiamenti e onori solitamente riservati a grandi capi politici, ad uomini eccezionali che liberano politicamente e materialmente le masse popolari dalle ingiustizie e dai soprusi di ogni genere. Israele riconosce a Gesù la statura del liberatore ma fraintende in modo grossolano la natura della sua opera di liberazione, donde poi la successiva delusione che si sarebbe trasformata in rancore e odio, in un odio senza ragione (Gv 15, 20-23). E’ Gesù stesso che si accorge subito di questa ambiguità popolare: infatti, recita ancora Gv 2, 23-24, «mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti». D’altra parte, Gesù non è solo a Gerusalemme che viene respinto, essendo stato già rifiutato dagli abitanti di Nazaret (Mc 6, 1-6).  

Ma è certo a Gerusalemme, e non solo nella Gerusalemme dei palazzi del potere religioso ma anche nella Gerusalemme popolare dei ceti più umili e socialmente meno influenti, che la parola del Signore sarebbe stata alla fine respinta, sia pure ovviamente con le dovute e non trascurabili eccezioni, nella forma più eclatante e clamorosa: la croce. Infatti non è solo questo o quel capo religioso, questo o quel fariseo che non capiscono il senso del messaggio di Gesù, ma sono gruppi di persone molto estesi ed eterogenei, tanto che sempre Giovanni, Giovanni non Matteo, parla di folla: «Allora la folla gli rispose: “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come puoi dire che il Figlio dell’uomo deve essere innalzato? Chi è questo Figlio dell’uomo?”» (Gv 12, 34). Da notare: proprio sulla croce Gesù ha accanto a sé due poveracci, due malfattori di estrazione sociale probabilmente molto bassa ed è significativo (direi emblematico del fatto che anche tra gli appartenenti a umili ceti sociali il Cristo sarebbe stato “segno di contradizione”), che uno si converta a lui mentre l’altro resti apparentemente lontano da lui.

Sia ai livelli più alti, sia a quelli più bassi della società ebraica, Cristo qualche volta è accettato, qualche volta è respinto, anche se a giudicare dall’esito che avrebbe avuto il processo popolare contro di lui, si deve necessariamente concludere che la stragrande maggioranza del popolo ebraico, pur potendosi riconoscere in essa una scala piuttosto variegata di responsabilità, abbia inteso misconoscerne la divinità e la reale potenza salvifica. E perché? Anche perché, contrariamente alle sue aspettative, Gesù, per usare le parole del papa, «non è un rivoluzionario politico, il suo messaggio e il suo comportamento non costituiscono un pericolo per il dominio romano», sebbene in realtà fosse e sia il vero e unico rivoluzionario in senso proprio della storia passata presente e futura dell’umanità e il suo messaggio e il suo comportamento dovessero determinare di lí a poco non solo un pericolo mortale per l’impero e il dominio romani ma il loro stesso definitivo tramonto.

Sul blog di Andrea Tornielli è stato ben osservato che Matteo, che scrive sotto ispirazione divina il suo vangelo non molto tempo dopo la resurrezione di Gesù, dietro la volontà della folla di condannare a morte il Cristo percepisse in modo inequivoco la volontà omicida di un intero popolo, anche perché insieme a tutti gli altri apostoli Matteo avrebbe subito dopo sperimentato personalmente la difficoltà di rimanere e di operare all’interno della stessa comunità ebraica. Se gli apostoli avessero avuto a che fare solo con un’aristocrazia sacerdotale avversa al loro Signore, e avversa per pura e semplice “invidia” e per un miserabile spirito di rivalità e di competizione, e se invece avessero potuto valersi di un popolo nuovamente osannante a Gesù come nel giorno del suo trionfale ingresso a Gerusalemme, essi non avrebbero dovuto patire tutte le persecuzioni e spesso il martirio cui dovettero soggiacere già in terra di Israele.

In effetti, gli ebrei che si sarebbero convertiti a Gesù dopo la sua morte sarebbero stati davvero pochi, un’esigua minoranza, e il cristianesimo, soprattutto grazie all’opera svolta da Paolo, si sarebbe diffuso fra i gentili, cioè fra i pagani, e non tra gli ebrei di quell’epoca. Quindi, al di là della responsabilità giuridico-penale della morte di Gesù, e anche dopo il momento della crocifissione, e si può anche dire in grandissima parte lungo tutti i secoli della storia umana sino ad oggi, nel popolo ebraico sarebbe rimasta una cecità, una durezza di cuore, una ostinata e superba indisponibilità a riconoscere il Cristo come Figlio di Dio e come Dio egli stesso, come unico e potente Salvatore di tutta l’umanità. A ben vedere, non è questo atteggiamento mentale e spirituale, che attraversa tenacemente tutti i secoli della storia, la vera volontà deicida del popolo ebraico come del resto ormai di tutti coloro che continuano a respingere il Cristo e dunque a desiderarne la morte? Non si può davvero non sottoscrivere quel che è stato affermato ancora una volta sul blog di Tornielli: «il popolo eletto di Israele scelto e privilegiato da Dio, da cui doveva nascere il Messia, preannunciato da tutti i profeti, non ha riconosciuto il Messia!».

Ma questo oggi deve costituire per i cristiani non motivo di risentimento e di polemica verso i fratelli ebrei, ai quali tuttavia non possono non ricordare la verità della loro storia in quanto momento integrante e costitutivo di tutta la storia umana religiosa e cristiana dell’intero genere umano, quanto motivo di riflessione e di prudenza nel non sottovalutare come anche essi a loro volta, quale che sia il loro ruolo sociale e il loro ruolo in seno alla stessa comunità ecclesiale, potrebbero essere incorsi o potrebbero incorrere storicamente ed esistenzialmente in un’impercettibile ma graduale e reale perdita di contatto con il Dio di Gesù e con il più profondo e genuino insegnamento salvifico del Figlio unigenito di Dio.

Ma, per quanto riguarda gli ebrei, va ancora detto che il sangue innocente di Gesù sarebbe ricaduto su di loro in senso salvifico se, dopo la crocifissione e dopo il massacro del 70 d.C., avessero cercato la propria “guarigione” da quella cecità che li aveva condotti a misconoscere il Redentore. Non essendosi invece convertiti al Cristo in tanti secoli di storia, salva facendo sempre la possibile buona fede di tanti percorsi spirituali e religiosi prettamente individuali, non si può escludere teologicamente che, al di là delle intenzioni pacificatrici benché forse irrealistiche del pontefice, quel sangue versato per gli stessi ebrei e per tutti non possa essersi trasformato e non possa ancora trasformarsi in motivo di condanna e di ulteriori tragedie per il popolo ebraico e per tutti coloro che dovessero emularlo.

Per essere chiari sino in fondo, non può a tutt’oggi ritenersi ingiustificata la posizione di chi pensa che, anche alla luce della complessiva storia ebraica, quelle terribili parole che Matteo mette in bocca a “tutto il popolo” avessero sí come suggerisce Benedetto XVI un significato teologico ma teologico in quanto profetico e profetico non in quanto univocamente salvifico ma anche in quanto potenzialmente distruttivo e catastrofico. Più in generale è inevitabile che, se il sangue divino di Cristo non viene usato dagli uomini a scopi di salvezza, esso, tenuto fuori dalla loro vita e dalla loro storia, non possa beneficamente e salvificamente irrorare né l’una né l’altra lasciandole di conseguenza totalmente sguarnite e indifese dinanzi alle sventure e ai disastri naturali del mondo, provocati dalla devastante e non arginata presenza in esso del peccato originale ed attuale degli uomini.

Perciò, per non credenti e credenti, per ebrei e cristiani, per non cattolici e cattolici, non si dà miglior auspicio di quello indirettamente contenuto nell’esortazione di nostro Signore: «Convertitevi e credete al vangelo!».