Il coraggio della Chiesa gerarchica
La discussione sul rapporto tra etica ed economia, sin dai tempi di Adam Smith, vero fondatore dell’economia politica classica o della moderna scienza economica, è sempre stata molto complicata. Il mercato è libero e non può essere condizionato da princípi e valori morali o, pur essendo autonomo rispetto alle credenze etiche e religiose, non può rimanere indifferente ad esse? Il mercato detta legge alla politica e allo Stato oppure questi possono e devono interagire e in che misura con le forze e gli interessi economici in campo sino a condizionarne entro certi limiti sviluppo e orientamento?
Il mondo della produzione, i salari, i prezzi, dipendono esclusivamente dai liberi meccanismi interni del mercato e in particolare dalla cosiddetta “massimizzazione del profitto privato” strettamente correlata alla “minimizzazione dei costi” oppure il complessivo mondo economico può migliorare la sua efficienza produttiva e la sua positiva incidenza sociale se sottoposto ad un articolato quadro normativo che preveda l’intangibilità dei diritti sociali del lavoro e dei lavoratori? In un tempo di grave e persistente crisi economica e finanziaria è inevitabile che la politica arretri rispetto all’economia corrente e alle sue pretese sino al punto di omologarsi ad essa o non sarà invece possibile e necessario che l’economia accetti di essere in qualche modo non già irreggimentata ma quanto meno saggiamente regolamentata da una politica statuale e sociale che si preoccupi di crescita economica e di sviluppo a partire e non a prescindere da oggettivi e diffusi bisogni sociali quali il lavoro, la casa, l’istruzione, la sanità?
Sarà ancora sufficiente affermare che l’economia ha bisogno di etica sino a quando la ricerca dei modi specifici di immettere etica in economia non si faccia realmente stringente e cogente da un punto di vista giuridico-normativo e sino a quando in tal senso non le masse sociali restino unilateralmente succubi dei bizzarri giochi del mondo economico ma sia piuttosto quest’ultimo a non potersi più ritenere truffaldinamente sganciato dal rispetto di elementari princípi etici? Se si dice di no al pan politicismo, non si vede perché non si possa e non si debba dire di no ad un paneconomicismo ormai dilagante che, nel depotenziare i compiti tradizionali e insostituibili dell’agire politico, introduce nella civiltà di massa il principio per cui sia il lavoro sia più in generale i diritti sociali storicamente e faticosamente conquistati (il diritto al lavoro, alla pensione, alla salute, all’istruzione e alla formazione e via dicendo) non costituiscano più un discrimine insuperabile della prassi economica ma qualcosa di puramente facoltativo persino in presenza di oggettivi requisiti professionali di competenza e di merito.
Anche perché se l’economia, il profitto senza regole e il denaro facile, finissero per surclassare l’aspirazione individuale e collettiva ad un lavoro non solo gratificante ma onesto e realmente utile o necessario dal punto di vista sociale e comunitario, quale argine potrebbe opporsi al proliferare di spinte sempre più accentuatamente utilitaristiche ed edonistiche e di tendenze sociali sempre più lesive della dignità e della libertà delle persone meno protette? Dunque ha ragione il cardinale Bertone nel dire che senza “rettitudine morale” non c’è “civilizzazione dell’economia” e soprattutto che i diritti sociali, a cominciare da quelli relativi al mondo del lavoro, sono «parte integrante della democrazia sostanziale» per cui l'impegno a rispettarli «non può dipendere meramente dall'andamento delle borse e del mercato» (Rettitudine morale per civilizzare l’economia, in “L’Osservatore Romano” del 3 settembre 2011).
In una concezione cristiana del lavoro e della vita non c’è posto, per usare un’immagine cruda ma realistica, per forme di “macelleria sociale”, giacché anche in tempo di crisi, ma a ben vedere è quasi sempre tempo di crisi, il problema non è quello di penalizzare ulteriormente quei ceti e quelle persone che già conducono una vita stentata o precaria per saldare il “debito pubblico” e per onorare gli impegni nazionali assunti con l’Unione Europea” ma semmai quello di chiamare concretamente (e non si tratta certamente di una chiamata dannosa per l’economia stessa, come tante volte si sente ipocritamente ripetere) i ricchi, i possidenti, i più fortunati a farsi carico, ben più di quanto non siano mai stati abituati a fare, delle necessità economiche e finanziarie nazionali e, in secondo luogo, di creare le condizioni per una ripresa economica effettiva e non fallimentare e quindi tale da coinvolgere non solo alcuni settori produttivi della nazione ma tutti i principali ambiti lavorativi e produttivi del nostro Paese. Nel lavoro infatti, ha detto Bertone, bisogna vedere «ben più che una occupazione o una carriera», bisogna vedere «una vocazione, qualcosa che è connesso e non distinto con lo stesso intimo e ultimo senso della vita umana» ed è per questo motivo che il lavoro umano deve contribuire, misteriosamente ma realmente, «alla nuova creazione, ai cieli nuovi e alle terre nuove» (Ivi).
E ancora: il lavoro vissuto come vocazione per i cristiani non solo «è mezzo ordinario di santificazione perché vissuto come attuazione laica e concreta della volontà di Dio» ma mette anche in evidenza «una dimensione comunitaria della santità, vissuta non più solo nei monasteri e nei conventi, ma anche nelle comunità delle donne e degli uomini del lavoro» (Ivi). Però, proprio «questa visione soggettiva del lavoro richiama e mette in evidenza ancor più la necessità di salvaguardarne gli aspetti oggettivi», per cui «nel contesto della crisi, in cui l'incertezza del lavoro e delle sue condizioni porta a difficoltà personali e sociali gravi…la dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono, con rinnovata urgenza che si continui a perseguire quale priorità l'obiettivo dell'accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti» (Ivi), dove un monito più chiaro e più preciso alle autorità politiche, al governo e allo stesso mondo dell’economia e della finanza, non poteva essere dato.
Ovviamente, per realizzare tutto ciò, la Chiesa non può dare “soluzioni tecniche” anche se non rinuncia ad indicare qualche prospettiva. E’ dalla antropologia teologica delineata da Giovanni Paolo II nella Laborem exercens, in cui «il lavoro è concepito sempre in riferimento alla persona e alla sua dignità», che scaturisce la necessità «di una forma concreta e profonda di democrazia economica. Mentre ieri si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo, come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia. Su questo fondamento si basa l'impegno del magistero e di tutta la Chiesa per una "civilizzazione dell'economia" in contrapposizione alla “forte tendenza speculativa” dell’oggi…Un'economia civile non può trascurare la valenza sociale dell'impresa e la corrispettiva responsabilità nei confronti delle famiglie dei lavoratori, della società e dell'ambiente» (Ivi).
Perciò, ha concluso significativamente e coraggiosamente il segretario di Stato Bertone, «il mondo virtuoso delle cooperative, un mondo da apprezzare e che in tempi di crisi ha dato segni straordinari di lavoro e solidarietà, merita un trattamento migliore di quello che gli è stato riservato nella recente manovra economica del governo italiano» (Ivi). Forse, una volta tanto, resteranno a corto di critiche tutti quei notabili o quei santoni della “coscienza critica” cattolica che generalmente ma non sempre saggiamente sono pronti ad ostentare la loro meraviglia per «il silenzio dei nostri vescovi, delle nostre comunità cristiane, dei nostri cristiani impegnati in politica» (parole pronunciate dal buon Alex Zanotelli in Armi, soldi e silenzi, sul sito “Nigrizia” del 25 agosto 2011).