Napolitano e i cattolici italiani
So di non poter parlare a nome e per conto di tutti i cattolici italiani, né in verità ho mai preteso di rappresentare il pensiero dei miei correligionari. Ma, come ho fatto sino ad oggi nell’ambito delle colonne di questo sito, anche per quanto riguarda il rapporto tra Napolitano e i cattolici intendo esprimere da cattolico, pur nel rispetto dell’uno e degli altri, un mio punto di vista che risulterà probabilmente critico rispetto all’ampia pubblicistica esistente al riguardo. Sí, perché altro è il rispetto che si deve al capo dello Stato italiano, altro è invece il conformistico e servile ossequio che molti di noi, anche cattolici, sembrano volergli tributare, soprattutto sulla carta stampata, ogni qual volta egli apra bocca per esprimere giudizi e valutazioni.
Innanzitutto non condivido interamente la tesi maggioritaria secondo cui il nostro presidente sarebbe un beniamino di tutti e verrebbe accolto in ogni sua visita ufficiale come una specie di salvatore della patria, pur bisognosa obiettivamente di persone capaci di tutelarne i princípi e i valori fondanti soprattutto in un periodo in cui il governo del paese è nelle mani di avventurieri della politica: non perché non sia vero che gli vengano riservati molti applausi ed accoglienze festose ma perché questo non implica affatto che tutti siano partecipi di tali sentimenti entusiastici e condividano assolutamente tutto della sua attività istituzionale, tant’è vero che, benché molti giornali deliberatamente si autocensurino, talvolta (si veda gli studenti di Pisa, per esempio) viene anche sonoramente fischiato.
Ma poi, entrando nel merito delle sue posizioni, non vedo come, almeno per quanto riguarda i cattolici che dovrebbero avere un sacro culto della verità, le si possa definire sempre e indiscriminatamente ineccepibili o esemplari. In particolare sul terreno economico si resta francamente perplessi per le idee che Napolitano viene e non da oggi esprimendo in qualità di rappresentante supremo dell’unità nazionale (art. 87 della Costituzione). E’ recentissima, in riferimento alla dura e reiterata presa di posizione dell’Unione Europea verso l’Italia, la sua nota in cui afferma, pur criticando en passant le “espressioni pubbliche” di alcuni capi di Stato e di governo europei come “inopportune e sgradevoli”, che «dobbiamo compiere tutte le scelte necessarie per ridurre il rischio a cui sono esposti nei mercati finanziari i titoli del nostro debito pubblico, rendere più credibile il nostro impegno ad abbattere tale debito e a rilanciare la crescita economica. Nessuno minaccia l'indipendenza del nostro paese o è in grado di avanzare pretese da commissario. Ma da 60 anni abbiamo scelto - secondo l'articolo 11 della Costituzione e traendone grandissimi benefici - di accettare limitazioni alla nostra sovranità, in condizioni di parità con gli altri Stati: e lo abbiamo fatto per costruire un'Europa unita, delegando le istituzioni della Comunità e quindi dell'Unione a parlare a nome dei governi e dei popoli europei».
In sostanza, per Napolitano il governo italiano avrebbe l’obbligo di assecondare per filo e per segno le richieste dei vertici politici e finanziari europei, perché solo in tal modo sarebbe possibile ridurre il rischio (rischio non coincidente peraltro, è da osservare, con un sicuro pericolo imminente, e non implicante di necessità una catastrofe ineluttabile) «a cui sono esposti nei mercati finanziari i titoli del nostro debito pubblico», abbattere quest’ultimo e, dulcis in fundo, «rilanciare la nostra crescita economica». E’ del tutto evidente la natura politica più e oltre che istituzionale di queste parole, perché da un punto di vista rigorosamente istituzionale il nostro presidente dovrebbe attenersi unicamente alle decisioni governative, senza tentare di condizionarne l’esito, prestando semmai la dovuta attenzione al fatto che tali decisioni non contravvengano in modo palese ai dettami degli articoli 3 e 4 della Costituzione, di cui egli è o dovrebbe essere il supremo garante. Ciò mi pare difficilmente contestabile a prescindere dal fatto che “nessuno” minaccerebbe “l’indipendenza del nostro paese”, laddove è pur comprensibile ma non per forza condivisibile che Napolitano non se la voglia guastare con altri capi di Stato.
Ma il punto più discutibile è il riferimento di Napolitano alla seconda parte dell’art. 11 della nostra Costituzione che recita testualmente: l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Per non apparire troppo sottile eviterò di storicizzare, con l’aiuto di esperti giuristi, il pensiero qui espresso dai nostri padri costituenti, ma le limitazioni concordate da tutti gli Stati e fra tutti gli Stati, a cominciare da quelli europei, all’indomani della seconda guerra mondiale, dovevano essere funzionali più che altro al mantenimento della pace e alla non proliferazione di nuove guerre, ed è in questo senso specifico che anche l’Italia, principale responsabile con la Germania del secondo conflitto mondiale, si sarebbe effettivamente impegnata a promuovere e a favorire «organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» (ONU, NATO, per esempio).
Ma cosa c’entra questo con la forzata e pretenziosa interpretazione secondo cui quelle “limitazioni” avrebbero potuto e dovuto intendersi anche come direttamente finalizzate a specifiche questioni economiche di Stati e tra Stati e più esattamente ad ipotetiche misure economico-finanziarie talmente restrittive che avrebbero potuto anche gettare nel panico e nella disperazione, sia pure nel nome della “crescita” e di una opinabile futura prosperità, moltissimi popoli ivi compresi quelli europei? Altro che «pace e giustizia tra le nazioni»! Violenza, somma iniquità e probabili rivolte sociali, dovrebbe pensare piuttosto il nostro capo dello Stato, al pari della Chiesa che, per mezzo del Pontificio Consiglio per la giustizia e per la pace, ha chiesto recentemente una radicale «riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un’Autorità pubblica a competenza universale»!
Anche per questo non capisco proprio il tacito avallo dato da molti cattolici alle prese di posizione forse “europeiste” ma certamente mistificanti e ingiuste del presidente Napolitano, la cui pervicace insistenza nel ribadire anche oggi a Bruges con piglio particolarmente risentito e recriminatorio la necessità per l’Italia di procedere alle cosiddette “riforme strutturali” (a cominciare dalle pensioni, naturalmente), che a dire il vero sono in corso già da parecchio tempo nel nostro Paese (anche se Napolitano forse non se ne è accorto), lo fa apparire più come un autorevole ma cinico rappresentante dell’Aspen Institute, di cui i cittadini italiani non sanno nulla ma su cui farebbero bene ad informarsi immediatamente, che non un autorevole e affidabile rappresentante della democrazia repubblicana italiana.
In fin dei conti, un paese molto più arretrato economicamente dell’Italia, l’Argentina, che dichiarò a suo tempo il suo default, il suo fallimento, non seppe poi risalire la china e rilanciare brillantemente la sua crescita economica e sociale? Per quale motivo l’ex esponente del partito comunista italiano non riesce proprio ad ammettere che i giochi in economia non sono mai definitivi e assolutamente prevedibili e che l’Italia, qualora non pagasse il suo debito pubblico sulla base delle ricette lobbistiche europee e mondiali, potrebbe uscirne alla grande, anche senza conoscere la pesantissima via crucis che dovettero sperimentare gli argentini? Come può il capo dello Stato repubblicano e democratico italiano affermare che «nessuna forza politica può continuare a governare, o può candidarsi a governare senza mostrarsi consapevole delle decisioni, anche impopolari, da prendere ora»? Ma dove sta scritto che una forza politica, per ben governare l’Italia, deve per forza allinearsi alle direttive europee? Che razza di democrazia è mai questa? E poi impopolare sarebbe semmai la decisione di fissare una bella patrimoniale per i tanti redditi altissimi che esistono in questo paese, la decisione di mandare direttamente in galera i grandi evasori fiscali, oppure di erogare finanziamenti a ricchi industriali ed imprenditori solo in ragione della loro capacità di favorire la produttività e la ricchezza nazionali anche in tempo di crisi, sebbene la storia sia fatta più di tempi di crisi che non di tempi di normalità (tanto che la crisi è, a ben vedere, la sua normalità), dando in pari tempo stabile occupazione e sulla base di garanzie giuridiche ben precise a migliaia e migliaia di lavoratori, ad un numero sempre crescente di giovani seri e qualificati che sembra non abbiano più un futuro in cui investire le proprie legittime speranze.
Queste sarebbero, insieme a tante altre sagge e necessarie misure governative da prendere, decisioni impopolari, ma su esse il capo dello Stato non ha ritenuto e non ritiene di spendere neppure una parola, limitandosi semplicemente a postulare un futuro di prosperità che non verrà mai perché ipocritamente o comunque erroneamente basato su valutazioni arbitrarie che possono favorire soltanto ristrette oligarchie economico-finanziarie e non già un intero popolo. Sicché le decisioni che egli auspica non sono impopolari ma antipopolari, ovvero non rispondenti realisticamente alle reali necessità della stragrande maggioranza della popolazione italiana e comunque inique e persino incostituzionali.
Che il capo dello Stato italiano si senta «corresponsabile, nel bene e nel male, dell'esperienza compiutasi in Europa negli scorsi decenni», è qualcosa di molto personale che in ogni caso non può indurlo a dichiarare, come invece ha ritenuto incautamente di fare, che l’interesse nazionale italiano coincida con l’interesse europeo e più segnatamente con le raccomandazioni pressanti e molto simili a vere e proprie ingiunzioni della Banca Centrale Europea. Questi sono discorsi eminentemente e sgradevolmente politici che un capo di Stato, costituzione italiana alla mano, non dovrebbe permettersi di fare, per il semplice fatto che egli non ha né un potere legislativo, né un potere esecutivo, né un potere di indirizzo da far valere in quanto rappresentante di una unità nazionale che è tale non se pensata astrattamente ma solo se intesa come coesistenza o sintesi di molteplici punti di vista popolari, giacché il suo potere è solo quello di accertare la legittimità costituzionale delle leggi emanate dal governo, degli stessi comportamenti personali di quanti esercitano il potere esecutivo, il potere legislativo e il potere giudiziario, e più in generale il rispetto delle norme costituzionali anche in riferimento al suo proprio ruolo istituzionale (art. 87).
Certo, egli può “inviare messaggi alle camere” ma solo perché siano rispettate tutte le procedure costituzionali nel rispetto dei contenuti e delle stesse finalità previsti dalla Costituzione, e non già per indurle ad approvare i desiderata di altri stati, di alte agenzie o istituzioni politiche e finanziarie europee e mondiali, o dello stesso presidente della repubblica italiana. Ma poiché Napolitano, con spiacevole sicumera, ritiene che «nulla può farci tornare indietro dall’euro» e che nessuno deve illudersi che possa avvenire esattamente il contrario, i cattolici italiani di mente e di cuore, quelli che nella loro carne e nel loro spirito portano impresse le beatitudini evangeliche, quelli che pochi o molti che siano intendono condividere qui ed ora con i meno fortunati e i più oppressi lo spirito cristiano di comunione e di giustizia nel segno della verità e non della menzogna, non possono esitare a dirgli con molta franchezza: noi non le crediamo e non pensiamo affatto che dai suoi ragionamenti e dai suoi accesi proclami possano discendere «risposte persuasive» per i cittadini italiani, a meno che questi non si chiamino, solo per fare dei nomi, Mario Draghi, Romano Prodi, Massimo D’Alema, Enrico Letta, Fedele Confalonieri, Lucia Annunziata, Paolo Mieli, Francesco Caltagirone, Cesare Geronzi, Franco Frattini, Gianfranco Fini, Gianni Letta, Luca Montezemolo, Sergio Marchionne, Emma Mercegaglia, Giuliano Amato o John Elkann, tutti soci dell’Aspen Institute e non solo.
Signor Presidente della Repubblica, come ha ribadito recentemente la nostra Chiesa, non è l'economia che deve orientare la cultura e la politica ma sono, al contrario, cultura e politica a dover orientare l'economia e a doverle fissare orizzonti e limiti oltre cui non possa e non debba andare. Cultura e politica: non però politica senza una cultura intrisa di sensibilità umana e sociale.