Rifondare l'economia secondo il vangelo

Scritto da Francesco di Maria.

 

E’ sempre opportuno tentare di rifondare l’economia, che è una dimensione essenziale della vita associata, per correggerne anomalie, incongruenze, distorsioni o vere e proprie degenerazioni, e riorientarla cosí non solo verso la produzione di un benessere materiale quanto più possibile allargato o partecipato ma anche e innanzitutto verso il soddisfacimento di inderogabili priorità di ordine umano e sociale. Ma se l’economia, e in primo luogo il diritto al lavoro, vengono rifondati nel senso di un loro progressivo sganciamento e di una loro irreversibile autonomizzazione  da fondamentali vincoli etico-giuridici ai fini di un perseguimento sempre più indiscriminato della cosiddetta libertà di impresa e in ossequio ai giochi sempre più ambigui e cinici dei mercati, il risultato non può essere altro se non un irreversibile impoverimento delle masse sociali, una inevitabile riduzione del potere d’acquisto, un crescente decremento della produzione e della ricchezza, l’insorgenza di convulsioni sociali sempre più frequenti e violente, la destabilizzazione graduale ma inarrestabile di ogni ordine costituito, il crollo tombale del sistema o la fuoriuscita da esso in forme drammatiche e devastanti.

Non si può stabilire quanto tempo occorra perché tutto questo accada ma è certamente questo quel che non potrà non accadere se si continua a parlare di economia, magari anche in senso genericamente etico, ma con l’idea precisa di renderla esclusivamente funzionale a ragioni e ad interessi finanziari che, soprattutto per la loro dichiarata e pretesa entità, a molti non sembrano né comprensibili né tanto meno giustificati. Ancor meno comprensibili e giustificate, peraltro, appaiono quelle politiche economiche alla Monti che, pur fondate su premesse teoriche e promesse morali di equità, non possono non sottrarre ricchezza ai ceti meno abbienti in una misura incomparabilmente più ampia di quella riservata ai ceti più ricchi e possidenti.

Per esemplificare attraverso il riferimento alla situazione del nostro Paese, pare che le cosiddette politiche di risanamento dei conti pubblici, alla Monti appunto, abbiano una delle loro più forti motivazioni in un presupposto a tutt’oggi francamente indimostrato o inverificato: che, a fronte di servizi sociali sempre più carenti e di una situazione occupazionale sempre più critica,  le montagne di tasse dirette e indirette pur versate dal popolo italiano e largamente soverchianti quelle di qualunque altro popolo europeo, che le continue “riforme strutturali” attuate a partire dagli anni ’90, che gli ingentissimi prelievi fiscali anche in chiave antievasione effettuati ogni anno dagli organi dello Stato, che le sistematiche e molteplici inadempienze burocratiche e soprattutto fiscali e finanziarie di quest’ultimo nei confronti di imprese, aziende, privati cittadini e pubblici lavoratori, i cui diritti e le cui legittime aspettative vengono solo in parte e assai tardivamente rispettati e soddisfatti, che proprietà e beni mobili ed immobili significativamente recuperati attraverso la lotta alla criminalità organizzata, non siano stati sin qui e non siano oggettivamente sufficienti né a far fronte decorosamente al “debito pubblico”, né a finanziare adeguatamente sagge ed efficaci politiche di investimento con ricadute occupazionali stabili e proficue, né a tenere in qualche modo sotto controllo i mitici conti dello Stato, né ad assicurare un ragionevole controllo dei prezzi, e via dicendo.

Pare insomma che, per quanto inflessibile e draconiana, non ci sia misura, tra quelle numerosissime e dolorosissime adottate dalla politica governativa e statuale nazionale degli ultimi vent’anni, capace di ridare slancio all’economia, di creare veri e stabili posti di lavoro, di alleviare il bilancio delle piccole e medie imprese come quello delle famiglie e dei soggetti sociali più provati, di introdurre concreti elementi di serenità e motivi non fittizi di speranza nella vita sociale e in particolare nella vita delle giovani generazioni. Dove vanno a finire quei fiumi torrentizi di denaro destinati alle casse dello Stato? Come vengono utilizzati? Per chi e per cosa esattamente? Sono tutte lecite e prioritarie le vie che il denaro pubblico, tra un anno finanziario e l’altro, viene prendendo? Come si fa esattamente a controllare i controllori dello Stato? Ed è ragionevole pensare che una buona parte del popolo italiano debba essere eternamente condannato ad una sorta di fatica di Sisifo? Sono scontate, sono ingenue, sono troppo sospettose ed irriverenti queste domande? Non saprei: certo è che le pubbliche autorità non fanno molto obiettivamente né per rassicurare tutti coloro che individuano i principali destinatari del pubblico denaro nel complesso ed articolato arcipelago della politica istituzionale, nel non meno composito e strutturato sistema bancario e negli stati maggiori della grande industria, né per evitare che sprechi e scelte inopportune o comunque fallimentari abbiano a ripetersi in modo assolutamente indefinito.  

Ora, ha osservato Jorge Arturo Chaves Ortiz, professore emerito di Economia etica all’Universidad Nacional San José del Costa Rica, senza scomodare maestri del pensiero morale o del pensiero religioso, «basterebbe che gli economisti e il loro circondario capissero che cosa è l’economia e per che cosa è, per intraprendere subito severe rettifiche alle teorie e alle pratiche attuali», e per recuperare la dimensione intrinsecamente e costitutivamente etica dell’economia stessa (Rifondare l’economia: lo esige l’economia stessa!, in De la utopia a la politica economica. Para una ética de las políticas económicas, Editorial San Esteban, 1999). In realtà, sin dalle sue origini «la scienza economia si sviluppò come una disciplina scientifica che non soltanto si prospettava come risolvere i problemi tecnici che si presentavano nel funzionamento dell’economia reale ma che, prima e in più, si interrogava circa la stella polare della sua attività, definita da due domande chiave: per che e per chi funziona l’economia e per che e per chi si risolvono i suoi problemi, in un modo o nell’altro. Mentre la prima domanda, che sorge nella vita quotidiana, definisce la dimensione tecnica o ingegneristica dell’economia, gli altri due interrogativi esprimono il carattere etico e politico che ha ogni attività economica. Per questo motivo non occorre che autorità morali o religiose esterne vengano a indicare una direzione in senso morale, perché un’economia propriamente detta tenderà sempre a confrontarsi con questa intrinseca dimensione etica. Senza la quale l’economia perderebbe il suo carattere scientifico, sino a smarrire la sua stessa razionalità, pretendendo di convertirsi in un mero insieme di raccomandazioni tecniche per risolvere problemi, ignorando gli obiettivi per i quali lo sta risolvendo e a favore di chi lo sta facendo» (Ivi).

Gli strumenti della scienza economica dunque non possono essere in alcun caso “neutrali” o puramente “tecnici”, come troppo spesso si suole ripetere, dal momento che, a seconda che si scelgano questi piuttosto che quegli altri strumenti, gli obiettivi o gli scopi economici perseguiti non possono non risultare diversi o addirittura opposti. E’ insomma evidente che tutte «le politiche economiche, gli strumenti governativi o imprenditoriali, portano sempre a costruire un certo tipo di economia e a favorire determinati gruppi sociali, per quanto non lo si dica. Gli strumenti tecnici che si escogitano per risolvere i problemi o contribuiscono a costruire una società più equa oppure rafforzano la concentrazione di ricchezze. O riescono a togliere dalla povertà gruppi sociali svantaggiati ovvero si interessano soltanto a generare profitti per i gruppi di potenti. Non esistono strumenti ‘neutri’. Lo si può vedere nelle ‘soluzioni’ previste più frequentemente per le recenti crisi: si rinvia l’aiuto ai disoccupati e alle famiglie che hanno perso la casa per rafforzare, al contrario, i gruppi finanziari che, paradossalmente, sono stati i principali responsabili della crisi. E tutto questo col pretesto di risolvere i problemi» (Ivi).

Purtroppo, l’odierna dinamica economica, comprensiva beninteso di tutta una serie di supporti teorici ed accademici particolarmente sofisticati ed influenti e di intenzionali esoterismi tecnici volti a confondere le idee delle popolazioni, «favorisce in misura sproporzionata piccoli gruppi con grandi poteri. Questi, e i teorici che li legittimano, si opporranno con tutte le loro forze a che l’economia cambi e ritorni a essere ciò cui è chiamata» (Ivi). Ciò cui è chiamata: laicamente ed evangelicamente non ad assolvere solo in senso retorico o generico una funzione etica troppo spesso relegata nella sfera delle buone intenzioni ma ad elaborare strategie giuridico-economiche che, nel rendere impossibile il perseguimento di forme indefinite o illimitate di profitto e nell’incoraggiare apertamente forme di lavoro comunitarie tanto quanto quelle di natura privatistica, risultino coerentemente finalizzate ad un reale incremento sociale delle risorse economiche e finanziarie, ovvero un incremento non più a vantaggio dei soggetti economici più forti o già forti ma di quelli più deboli o non ancora emersi o emergenti dal punto di vista produttivo.

Ma, perché questo accada, è necessario tra l’altro che nel mondo cattolico, troppo impegnato sul fronte convegnistico e troppo poco dedito all’impegno politico diretto, si assumano presto iniziative politiche concrete, possibilmente culminanti nella costituzione di un nuovo partito politico dichiaratamente cattolico e affidato a personalità tanto nuove quanto antitetiche a quelle molli ed ambigue già presenti nella scena politica italiana, iniziative politiche concrete e coraggiose perché basate su una ricerca non approssimativa ma rigorosa della verità e in virtù delle quali, pur senza pretendere di imporre dall’alto ricette o soluzioni  indipendentemente dalla dinamica del mercato, non appaia più utopistico sperare in un mondo non ineluttabilmente votato alla catastrofe.