Il prete e la carità pastorale
Certi di fare cosa utile alla comunità cattolica e di sollecitare opportunamente la riflessione critica di tutti coloro che la amano non per abitudine o per semplice educazione ma per intima e sempre riconquistata convinzione, pubblichiamo qui alcuni stralci della meditazione particolarmente incisiva fatta recentemente dal Patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia sul prete e sulla carità pastorale che egli è tenuto ad esercitare nel quadro del suo ministero e della sua attività ecclesiale.
«Per vivere le promesse dell’ordinazione si richiede…una precisa disposizione del cuore insieme a una testimonianza chiaramente percepibile e ben visibile; infatti, il prete, come ogni uomo, è fatto d’interiorità e di esteriorità. L’amore pastorale chiede di occuparci dell’altro, degli altri, della comunità a prescindere dai motivi umani e a farcene carico con amore. Ciò avviene anche attraverso azioni esteriori che, talvolta, però, potrebbero finire per esercitarsi non più per quell’affetto intimo del cuore che chiamiamo il desiderio delle salvezza della anime, ma per altri motivi che possono essere - di volta in volta - per alcuni abitudine, per altri esteriorità giuridica, timore d’essere criticati o rimproverati, desiderio di essere considerati dagli altri, voglia di primeggiare, o per interesse personale o perché, per determinate questioni, si può avere una propensione personale (ci piace farle).
Dobbiamo chiederci, allora, quale è il motivo ultimo, il motivo vero del nostro operare pastorale. Talvolta si deve constatare che non soltanto viene meno il motivo interiore, ma anche l’esercizio esteriore del nostro operare. Ad esempio quando noi - ordinati sacerdoti per il servizio pastorale, a servizio della Chiesa - a un certo punto “pretendiamo” per un incarico particolare o ci dichiariamo inabili, incapaci, stanchi o non adatti ad un determinato servizio. Ci dichiariamo inabili, incapaci, stanchi, non adatti perché quel servizio impone un impegno faticoso e una logorante dedizione nella predicazione, nell’ascoltare le confessioni, nella pastorale giovanile; in più infine ci viene richiesto attenzione e responsabilità.
Così, poco alla volta, se non vigiliamo su di noi, finiamo per autocostruire - prima nel pensiero e poi con atti apparentemente innocenti - il programma della nostra vita sacerdotale, dove se non ci si lascia portare, c’è molto di nostro, del nostro gusto personale e sempre meno di quello spirito di servizio, di dedizione, d’amore, di offerta di noi stessi da cui il nostro sacerdozio era partito e di cui forse si è svuotato. Questo, concretamente, è il modo in cui ci distogliamo dapprima e poi ci sottraiamo alla carità pastorale abbandonando il nostro posto.
Ciò può avvenire anche rimanendo formalmente all’interno del servizio che ci è stato richiesto, del compito che ci è stato assegnato. In genere lo si interpreta - si dice - in modo più originale, poi si finisce per adattarlo al proprio tranquillo compiacimento e non siamo più disposti ad adattarci all’esigenze dell’ufficio ma è l’ufficio che deve adattarsi a noi; e si finisce per auto-convincerci che è bene così!
Mi servo di un esempio che appartiene alla terminologia evangelica con cui Gesù parla del ministero ordinato ai primi chiamati: amiamo più le nostre reti e le nostre barche che non il pescare, la fatica e l’impegno della pesca (cfr Lc 5, 9). Fuori di metafora, si rischia d’amare più le opere, i titoli accademici, le nostre pubblicazioni, le strutture che abbiamo costituito e ci circondano e servono alla nostra attività pastorale che non il fine per cui quelle cose sono state costituite, ossia le anime. Il rischio è essere organizzatori, impresari, docenti, intellettuali, psicologi, assistenti sociali e non pastori.
Altri atteggiamenti che configgono con la carità pastorale sono quelli che fanno in modo che il pastore si serva del pulpito per dire qualcosa che non ha o ha poco a che fare col Vangelo: per esempio parlare di sé, “togliersi dei sassolini dalle scarpe”; con il desiderio di correggere l’errore, si finisce invece per offendere l’errante. Insomma ogni pastore, proprio in nome della carità pastorale, deve interrogarsi se il suo silenzio è di comodo o addirittura colpevole e se il suo parlare è mancanza d’amore, di pazienza o di fortezza o, ancora, espressione di malumore interiore.
Questo esame di coscienza franco, sereno, con un po’ di misericordia nei nostri confronti, ci aiuta a comprendere se siamo uomini e preti liberi; tale revisione potrebbe iniziarsi - come detto - chiedendo aiuto a un confratello del quale abbiamo stima e che sappiamo persona capace di dire la verità con amore e che sa amare con verità; le due cose sono essenziali al presbitero; un presbitero dovrebbe essere capace di parlare di tutto con tutti senza offendere nessuno, pur proferendo parole di verità. Sono certo, e spero di poterne fare presto esperienza, che nel nostro presbiterio esiste una diffusa e radicata carità pastorale, sia nei giovani sacerdoti, sia negli anziani; forse, però, non ne abbiamo sempre la dovuta consapevolezza. Quando c’è vera carità pastorale non c’è situazione che possa diventare ostacolo insuperabile, anche l’età avanzata, la salute declinante, una prova imprevista, la richiesta di un’obbedienza impegnativa non ostacolano la carità pastorale ma, al contrario, la evidenziano. E la carità pastorale, per ogni presbitero, rappresenta una vera benedizione e una grande ricchezza per lui e per la sua comunità.
Interrogarsi se tra le pieghe della nostra anima qualcosa limiti o blocchi la nostra personale carità pastorale è ciò su cui ognuno di noi - anche a proposito di ciò che non è stato detto - deve riflettere di fronte al Signore» (Incontro col clero. Meditazione del Patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, Basilica Cattedrale di San Marco, 29 marzo 2012).