Francesco Bacone tra modernità scientifica e modernità religiosa
Per Francesco Bacone, il fare più che il pensare, i pratici più che i teorici, avevano messo in crisi la tradizionale immagine del mondo; un’idea pragmatica più che speculativa aveva provocato un rapido e insospettato allargamento dei confini terrestri e un’improvvisa e notevole estensione delle stesse possibilità umane di intervenire sui processi naturali; le opere più che i sillogismi e i discorsi, le arti meccaniche più che le congetture, avevano contribuito a far emergere una natura meno definibile e prevedibile che in passato e paragonabile ad una selva oscura e ad un labirinto estremamente complicato.
Non che speculazioni, teorie, congetture, ivi comprese quelle matematiche, non avessero determinato un significativo incremento del sapere; ma solo un’utilizzazione strumentale e pragmatica della conoscenza aveva dato luogo ad una radicale e significativa trasformazione delle condizioni materiali e morali degli uomini. Dove appariva chiaro che la verità delle ipotesi era sostanzialmente nella loro utilità e che la loro utilità era innanzitutto conseguente alla loro capacità di esporsi allo scuotimento corroborativo dei fatti e di sottoporsi agli accertamenti orientativi della pratica sperimentale.
La legittimità del sapere doveva insomma giudicarsi dalla sua operatività e produttività e il suo criterio doveva rinvenirsi nella prassi, in modo tale che, solo fra ripetuti tentativi ed errori, il pensiero potesse avvicinarsi alla verità del mondo e di un mondo dotato di proprie leggi e irriducibilmente collocato, con le sue strade invisibili e ambigue e con le sue “spirali” e i suoi “nodi avvolti e complicati” (come ha scritto il noto studioso baconiano P. Rossi, Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 41), al di là del pensiero e di ogni sua capacità investigativa e problematizzatrice.
Il mondo, la natura, le cose della terra, sono permanentemente soverchianti rispetto alle scoperte logiche e concettuali della ragione e la legislazione della ragione non è né indipendente dalla legislazione dei fatti né a questa superiore, dal momento che la conoscenza è frutto solo di un’obbedienza della ragione alle leggi della natura e di un umile «commercio della mente con le cose». Già per questo, dunque, è difficile vedere nel moderno Bacone un filosofo totalizzante. Per lui, indubbiamente, l’uomo ha il compito di dominare la natura, ma questo compito è visto come inesauribile e drammatico, in quanto da una parte non viene ritenuto realisticamente possibile escogitare un metodo definitivo di ricerca che assicuri il totale e irreversibile possesso del mondo naturale, e dall’altra proprio quest’ultimo viene concepito come una specie di sovrano impersonale sempre pronto a dispensare i suoi castighi ad un’umanità che si illuda di poterne infrangere le leggi e violarne i tesori a proprio piacimento e per fini umanamente e moralmente arbitrari.
Semmai, si può vedere in Bacone un filosofo dell’ambiguità, di quell’ambiguità che è una nota tipica della modernità; non tanto nel senso che da un lato egli coglie il più alto significato della scienza nel suo universalismo etico e nella sua capacità di promuovere l’unificazione materiale e morale dei popoli della terra, e dall’altro sottolinea con forza i moventi utilitaristici dell’impresa scientifica, quanto nel senso che sembra ignorare o sottovalutare le difficoltà che si frappongono all’attuazione di un progetto storico-culturale in cui queste due istanze della scienza, quella etica universalistica e quella utilitaristica ed efficientistica per l’appunto, possano essere felicemente coniugate e non restino invece ingiustificatamente divise o separate. L’ambiguità della filosofia baconiana nasce proprio dall’incapacità di indicare le condizioni o i modi specifici, solo parzialmente compresi nel sincero ma ancora generico appello baconiano alla caritas cristiana, in cui quel matrimonio possa essere realmente e stabilmente celebrato.
Da una parte la razionalità, dall’altra l’ideologia delle classi borghesi inglesi in ascesa della prima metà del ’600 (di cui c’è un evidente riflesso nel suo pensiero e nel suo stesso universalismo etico-scientifico) che non gli consente verosimilmente di coniugare in modo indefettibile l’universalità conoscitiva della razionalità scientifica con il suo universalismo etico e con la sua vocazione ad unificare il genere umano. Tuttavia, posto che non è affatto agevole stabilire in questo come in tanti altri casi filosofici un confine certo tra razionalità e ideologia, il pensiero filosofico di Bacone risulta saldamente ancorato o ispirato al suo pensiero religioso, che è un pensiero cristiano, di stampo calvinista ma cristiano (come abbondantemente dimostrato soprattutto da Ch. Webster, The Great Instauration, 1975, tr. it. La Grande Instaurazione. Scienza e riforma sociale nella rivoluzione puritana, a cura di P. Corsi, Milano, Feltrinelli, 1980. Ma già il nostro Giulio Preti, in "Retorica e logica. Le due culture", 1968, Einaudi, p. 86, aveva sottolineato l' "educazione calvinista" ricevuta da Bacone e "notata da tutti gli storici" (il che, però, non era vero), benché poi giudicasse molto frettolosamente il filosofo inglese "un pensatore ben poco religioso"). Ed è proprio qui che si deve parlare del Lord Cancelliere inglese non solo come dell’araldo di una modernità scientifica ma anche come dell’araldo di una modernità religiosa.
In effetti, la ragione empiristica e pragmatica baconiana ha un fondamento e questo fondamento non si identifica con un principio logico ma con la fede. Essendo ciò sfuggito all’interpretazione di molti studiosi cattolici, ne è derivata la conseguenza di ritenere Bacone, proprio da parte di quest’ultimi, quasi un padre e un responsabile dello scientismo moderno o di un ateismo scientifico volto a celebrare l’onnipotenza della scienza e della tecnica contro l’onnipotenza di Dio. Ma Bacone, muovendo dal concetto biblico secondo cui l’uomo si guadagnerà il pane con il sudore della sua fronte, lo traduce poi in termini più moderni nel faticoso impegno razionale e pratico che l’uomo dovrà profondere nel duplice tentativo di procurarsi i mezzi necessari al sostentamento della sua vita materiale e spirituale e di rendere gloria proprio a Dio onnipotente.
In Bacone, la fede assolve la funzione di spingere l’uomo non tanto a pensare e a contemplare, ma ad operare e a trasformare la natura per soddisfare i suoi bisogni materiali e spirituali (“l’uomo si guadagnerà il pane” implica appunto questo). La fede, la fede e non la teologia, è la ragione forte che induce l’uomo a non curarsi troppo dei «sistemi» e a cercare invece nelle opere della sua debole ma tenace ragione la condizione primaria della sua redimibilità. L’uomo è, religiosamente, creatura prediletta di Dio e dunque, indipendentemente da ogni riferimento ad oggettivi parametri astronomico-scientifici, centro del mondo, ma di un mondo che che gli è ostile e minaccia la sua centralità.
Nel nome della fede l’uomo può ascendere ed è chiamato ad ascendere al regnum Dei attraverso la sofferta e costosa costruzione di un imperfetto ma razionale regnum hominis. Non vi è dunque nulla di più sbagliato che vedere in Bacone, come ancora facciamo noi cattolici, il padre di una modernità colpevole di aver fatto sí che «la speranza biblica del regno di Dio» fosse «rimpiazzata dalla speranza del regno dell'uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero "regno di Dio". Questa sembrava finalmente la speranza grande e realistica, di cui l'uomo ha bisogno» (A. Scacco, La scienza di Bacone nella “Spe salvi” di Benedetto XVI, in “Zenit” dell’8 aprile 2012).
Questo è un esempio di come i cattolici vadano incontro ad errori clamorosi ed autolesionistici tutte le volte che, presi da sacro ma sterile furore religioso e da una connessa smania semplificatrice, vogliono per forza parlare di cose che non conoscono o non hanno studiato a sufficienza. Perché non è che in Bacone non ci sia effettivamente una fede nel progresso scientifico ma in lui il progresso scientifico resta pur sempre un mezzo e non un fine, un mezzo potentissimo di trasformazione del mondo e delle condizioni di vita del genere umano ma pur sempre mezzo da utilizzare sapientemente e in spirito di carità ad majorem gloriam Dei.
Bacone, in sostanza, pensa ad una fede religiosa che non impone «limiti prestabiliti all’indagine umana» (P. Rossi) ma stimola la ricerca e l’azione, incoraggiando l’umanità a soddisfare le sue complessive necessità non contemplativamente ma pragmaticamente. La sua è dunque una fede non chiusa ma aperta, non statica ma dinamica, non dogmatica ma pragmatica, non idolatrica ma critica, non pavida ma coraggiosa; una fede che esalta la funzione liberatoria del sapere scientifico proprio mentre sottolinea il precario potere conoscitivo dell’uomo e distrugge ogni immagine totalizzante del mondo. Bacone non rinuncia affatto alla fede e alla sua funzione pubblica ma a certe sue secolari ed arroganti pretese: per lui la religione «resta il principale vincolo dell’umana società» [F. Bacone, Saggi (1597-1625), in Scritti politici giuridici e storici, a cura di E. De Mas, Torino, Utet, 1971, 2 voll., vol. I, p. 309]. La religione, non la scienza, anche se la fede senza la scienza è primitiva, insipida, insulsa: la si coltiva in modo regressivo, spesso senza convinzione e senza entusiasmo, e talvolta per disperazione.
Qui dunque la fede è salvifica non contro la scienza ma nella scienza e attraverso la scienza, qui Dio si ama non in quanto ne venga postulata l’esistenza, ma in quanto Egli muove l’uomo ad esistere, ad ex-sistere, ovvero a vivere ponendosi, con la libertà del suo ingegno e la concretezza delle sue opere, al di fuori di ogni mortificante fatalismo teologico e di ogni schematico e precostituito disegno escatologico. La fede pertanto non si piega umiliata dinanzi all’incedere maestoso della ragione scientifica, ma auspica il ritorno alle origini e attende trepidamente l’inizio della riconquista etico-conoscitiva dell’Eden perduto (riconquista che rimane tra le mete dell’escatologia cristiana). La fede prende semplicemente congedo dal sacro e dalla metafisica teologica, che si limitano a parlare di Dio, per accogliere incondizionatamente il Dio della religione biblico-evangelica la quale consente piuttosto di parlare con Dio.
Accade cosí che, per Bacone, il regno di Dio, pur non essendo di questo mondo, sia già presente tra gli uomini, chiamati a servirlo e a preservarlo diligentemente ed energicamente da ogni genere di violenza non evangelica, dottrinale e non, attraverso un dialogo accorato, talvolta drammatico ma ininterrotto e costantemente chiarificatore con il Dio della morte e della risurrezione.
La modernità religiosa di Francesco Bacone consiste in questo: il riconoscimento dell’autonomia del sapere scientifico non comporta un necessario divorzio ma una necessaria ed auspicabile collaborazione tra scienza e fede, tra scienza e religione non “teologica”. Il rispetto delle leggi della natura nasce dal rispetto delle leggi di Dio: anche per arginare il pericolo che, dopo un lungo e nefasto affermarsi della teologia come scienza, la scienza possa affermarsi come teologia. Anzi, la modernità religiosa di Bacone è prioritaria rispetto alla sua modernità scientifica, perché se è vero che egli ha sottratto il sapere scientifico al dominio della teologia, è altrettanto vero che il sapere scientifico ha nella fede religiosa il suo presupposto spirituale e alla luce dei suoi contenuti persegue le sue finalità di progressiva razionalizzazione ed umanizzazione del mondo.
Non meno importante è la sua esplicita convinzione che la fede non possa relegarsi nella sfera privata o personale ma debba assolvere una precisa funzione sociale, dal momento che una società atea sarebbe destinata a disgregarsi: è qui il caso di sottolineare come per lui «quegli ingegni che sono più inclini all’ateismo sono per lo più leggeri, maldicenti, piuttosto arditi e arroganti; cioè sono fatti nel modo più avverso alla saggezza e alla severità dei costumi», e come anche quei politici che fanno pubblica professione di ateismo altro non sono che «politici inetti e ciarlatani, incapaci di grandi azioni» (Bacone, Meditazioni sacre in “Opere filosofiche”, a cura di E. De Mas, Bari, Laterza, 1965, 2 voll., vol. I, p. 20).
Chi ha posto questioni ancora oggi ineludibili e gravi, quali sono quelle relative alla funzione sociale del sapere scientifico, al dovere degli intellettuali di elaborare e trasmettere adeguatamente il sapere o alla loro responsabilità etico-sociale, è Bacone in quanto filosofo religioso e cristiano prima che in quanto filosofo della scienza, ed è per questo precisamente che uno dei frutti più cospicui della sua ricerca è da rinvenire nell’idea che la principale implicazione del progresso scientifico e tecnologico avrebbe dovuto essere un utilitarismo sociale, generalizzato e non ristretto, ma anche non dissociato da una illuminata e rigorosa coscienza morale del bene e da una destinazione comunitaria quanto più estesa ed efficace possibile.
Certo, Bacone, anticipando Adam Smith, avrebbe voluto vincolare lo sviluppo storico della civiltà moderna ad un’etica senza teologia, per usare un’espressione di Giulio Preti (Alle origini dell’etica contemporanea. Adamo Smith, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 165), ma, contrariamente al grande economista inglese, avrebbe sempre sostenuto che la civiltà moderna non potesse trarre giovamento da un’etica senza fede. Di tutto ciò, credo, il miglior pensiero cattolico non può non tener conto e non può non avvalersi proficuamente.