Incarnazione e Resurrezione di Cristo

Scritto da Guerino D'Amico on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Se Cristo non fosse risorto noi oggi non avremmo i vangeli perché alla buona novella da lui annunciata nessuno avrebbe avuto e avrebbe la forza psicologica, morale e spirituale di credere. Della buona novella nessuno saprebbe alcunché, o meglio storicamente se ne parlerebbe come di una delle tante stramberie visionarie di cui la storia degli uomini è piena e Gesù, pur apprezzato come uomo dotato di eccezionale statura morale, non sarebbe né amato né adorato come Dio. Se Cristo non fosse risorto, gli apostoli, pur credendo nel Signore con cui avevano mangiato e bevuto e da cui avevano appreso meravigliose verità, si sarebbero presto dispersi e non avrebbero potuto intraprendere la faticosa e spesso dolorosa missione di testimoniare il Cristo tra le genti e di evangelizzare il mondo.

Cristo doveva risorgere per dimostrare a tutti inequivocabilmente che egli si era incarnato per amore, aveva sofferto per amore e per amore aveva liberamente accettato di morire crocifisso, benché, come dice Abramo in un racconto evangelico, ci sono anche quelli che non credono pur vedendo che uno resuscita da morte (Lc 16, 31). Per dimostrare che Dio era giunto ad incarnarsi davvero per amore, per condividere la stessa condizione degli uomini e le loro necessità e il loro bisogno di verità e di giustizia, per poterli salvare come esseri umani facendosi carico dei loro peccati di fronte al Padre, Cristo si sottopone alla umiliazione della morte per trionfare successivamente e gloriosamente sulla morte e per dimostrare il vero potere di Dio non meno che l’immensità incontenibile del suo amore.

Dunque, anche quando ci si mostra giustamente ammirati dinanzi all’incarnazione divina, a questo estremo rimpicciolirsi di Dio per amore verso il genere umano, non si può mai prescindere dalla risurrezione di Cristo, senza la quale probabilmente nessuno avrebbe potuto e potrebbe ancor oggi proferire parole esaltanti sull’incarnazione medesima, né sulla figura di Maria madre di Cristo, né sui primi grandi apostoli, né sulle originarie comunità cristiane né su tanti momenti della storia della Chiesa. Peraltro, è strano che in ambito cattolico si sentano fare talvolta ragionamenti del tipo: “la resurrezione, va bene; ma vuoi mettere l’incarnazione? E’ quello il momento in cui si manifesta realmente l’amore di Dio per l’umanità”.

A cosa sono dovuti ragionamenti siffatti? Forse alla preoccupazione di rendere più “disinteressata” e più elevata la fede in Cristo: come dire, se credo in lui a prescindere dal fatto che egli risorga e io possa risorgere con lui, allora la mia fede è più vera, più genuina, più sana Ma può anche darsi che questa preoccupazione abbia una natura più intellettualistica che spirituale e nasca da un’esigenza appunto intellettualistica di apparire più credenti di quanto in realtà non si sia e più cristiani di quanto in realtà non si riesca ad essere nell’ambito della propria quotidianità. Gesù, venendo al mondo, sperava certo di essere accolto dai suoi, come uomo e come Dio, per la sua parola di verità e le sue opere di straordinaria bontà, per gli innegabili segni della sua divinità e della sua capacità redentiva, ma sapeva che, solo vincendo la morte, la gran parte dell’umanità sarebbe stata attirata dalla sua croce e ne avrebbe seriamente preso in considerazione la potenza salvifica.

Sapeva che l’uomo e la sua fede hanno bisogno di certezze concrete e non aleatorie; sapeva anche che persino i suoi più degni seguaci non avrebbero potuto sostenere il peso della sua morte e rendere fruttuosa e proficua la loro fede se non avessero avuto la prova incontrovertibile del suo dominio sulla morte e quindi della sua immortalità. E non è un caso, d’altra parte, che san Paolo definisca vana la nostra fede ove non vi sia resurrezione. Non pretendiamo da noi stessi quel che non possiamo essere: innamorati di Dio anche indipendentemente dal dono (perché è un dono, il più grande) della resurrezione! Non pecchiamo, noi che non abbiamo mai sperimentato Dio allo stesso modo in cui  lo sperimentarono i grandi profeti veterotestamentari, la madre Maria, il padre terreno Giuseppe, gli apostoli, i Zaccheo, le Maria di Magdala, molti peccatori del tempo di Gesù e qualcun altro, di inautenticità e di presunzione, e vediamo anzi di non caricarci di ridicolo.

Noi siamo esseri deboli, incerti, paurosi: Dio lo sa ed è per questo che, risorgendo, ha voluto tranquillizzarci, fornirci buoni elementi per mantenere certa e salda la nostra fede, per convertirla più agevolmente in essenziali opere di carità. Peraltro, anche i veri credenti vissuti prima di Cristo coltivarono un’intima ma fortissima speranza di poter un giorno risorgere al cospetto di Dio. Senza resurrezione l’uomo non avrebbe alcun movente per credere in Dio, foss’anche un Dio buono e misericordioso ma indifferente alla vita ultraterrena degli uomini o, più semplicemente, alla loro insopprimibile esigenza di poter contare realisticamente su un Dio salvatore non solo e non tanto per quanto riguarda l’esperienza di vita terrena ma soprattutto per quanto si riferisce alla umanissima aspettativa di poter continuare a vivere anche dopo la morte in un quadro di gioia inestinguibile e di eterna giustizia.

In questo senso è più che mai opportuna l’affermazione di papa Benedetto XVI: incarnazione e resurrezione di Gesù sono cardini ugualmente importanti della sua opera di redenzione (Benedetto XVI, L’incarnazione e la morte e resurrezione di Gesù, cardini della redenzione, in “Zenit” del 21 dicembre 2008). Sono due “cardini”, precisa il papa, “inseparabili”, che «manifestano un unico disegno divino: salvare l'umanità e la sua storia assumendole fino in fondo col farsi carico interamente di tutto il male che le opprime» (Ivi). Dove dunque c’è un’umanità in attesa dell’incarnazione divina non già in funzione di un qualche piano salvifico meramente terreno ma di una resurrezione divina che sia premessa indispensabile di una salvezza integrale ed eterna personale ed universale.

Sino a quando Cristo non risorge, la vita dell’uomo è senza luce, è opaca, è passiva, e l’incarnazione di Dio resta oggetto di stupore mistico-contemplativo ma oggetto che non si è ancora trasformato in pienezza di vita, in entusiastica capacità di trasformare tutti i possibili motivi di odio in possibili motivi di amore e di offrire la propria vita quanto più radicalmente possibile per il prossimo e per il Signore (A. Gaspari, La risurrezione che illumina e scalda l’umanità, in “Zenit” dell’8 aprile 2012). L’uomo comprende bene tanto il potere di Dio di farsi piccolissimo accettando di nascere dopo essere stato concepito nel grembo verginale di una donna e assumendo le sembianze di un bambino in fasce quanto il potere di Dio di risorgere e far risorgere dalla morte, anche se, senza la resurrezione, la sua fede nella effettiva presenza di Dio nella sua e per la sua vita, fede che implica non solo il riconoscimento intellettuale della potenza e dell’amore di Dio ma anche la volontà di obbedire concretamente alla sua volontà e ai suoi insegnamenti, sarebbe obiettivamente più debole e più insicura.

Sappiamo bene che l’incarnazione di Dio nella persona storica di Cristo è un inaudito atto di amore ma lo sappiamo perché sappiamo che quell’atto di amore si è realmente concretizzato nella volontà e nel potere di Dio di liberarci dalla morte e di regalarci l’eterna felicità: se, ai fini della possibilità umana di comprendere la grandezza dell’amore divino, non fosse stata necessaria la resurrezione, perché mai Cristo sarebbe dovuto risorgere dalla morte dopo essersi sottoposto al martirio più infame e alla morte più straziante? Non avrebbe potuto ascendere direttamente in cielo senza subire né l’uno né l’altra? E’ su questo che bisogna principalmente riflettere prima di sbilanciarsi in giudizi ad effetto, come quello per cui l’incarnazione sarebbe un fatto ancora più eccezionale della resurrezione, il cui limite è nell’ostentazione di una fede tanto superiore a quella comune quanto probabilmente ipocrita e superba.

Un Dio che si incarna ma non risorge lascia “ammutoliti e smarriti” persino i suoi discepoli più fedeli che non sarebbero stati e soprattutto non sarebbero umanamente capaci di continuare a seguire un Re «che sceglie come trono la croce» e che «non…assicura una facile felicità terrena, ma la felicità del cielo, la beatitudine di Dio» (Omelia di Benedetto XVI, Il nostro re sceglie come trono la croce, in “Zenit” dell’1 aprile 2012). Sempre papa Benedetto ha affermato: «Cari fratelli e sorelle! Se Gesù è risorto, allora – e solo allora – è avvenuto qualcosa di veramente nuovo, che cambia la condizione dell’uomo e del mondo. Allora Lui, Gesù, è qualcuno di cui ci possiamo fidare in modo assoluto, e non soltanto confidare nel suo messaggio, ma proprio in Lui, perché il Risorto non appartiene al passato, ma è presente oggi, vivo» (Messaggio pasquale “Urbi et Orbi” di Benedetto XVI, E’ risorto! E’ veramente risorto!, in “Zenit” dell’8 aprile 2012).     

Se Cristo non fosse risorto noi oggi non avremmo i vangeli perché alla buona novella da lui annunciata nessuno avrebbe avuto e avrebbe la forza psicologica, morale e spirituale di credere. Della buona novella nessuno saprebbe alcunché, o meglio storicamente se ne parlerebbe come di una delle tante stramberie visionarie di cui la storia degli uomini è piena e Gesù, pur apprezzato come uomo dotato di eccezionale statura morale, non sarebbe né amato né adorato come Dio. Se Cristo non fosse risorto, gli apostoli, pur credendo nel Signore con cui avevano mangiato e bevuto e da cui avevano appreso meravigliose verità, si sarebbero presto dispersi e non avrebbero potuto intraprendere la faticosa e spesso dolorosa missione di testimoniare il Cristo tra le genti e di evangelizzare il mondo.

 

Cristo doveva risorgere per dimostrare a tutti inequivocabilmente che egli si era incarnato per amore, aveva sofferto per amore e per amore aveva liberamente accettato di morire crocifisso, benché, come dice Abramo in un racconto evangelico, ci sono anche quelli che non credono pur vedendo che uno resuscita da morte (Lc 16, 31). Per dimostrare che Dio era giunto ad incarnarsi davvero per amore, per condividere la stessa condizione degli uomini e le loro necessità e il loro bisogno di verità e di giustizia, per poterli salvare come esseri umani facendosi carico dei loro peccati di fronte al Padre, Cristo si sottopone alla umiliazione della morte per trionfare successivamente e gloriosamente sulla morte e per dimostrare il vero potere di Dio non meno che l’immensità incontenibile del suo amore.

 

Dunque, anche quando ci si mostra giustamente ammirati dinanzi all’incarnazione divina, a questo estremo rimpicciolirsi di Dio per amore verso il genere umano, non si può mai prescindere dalla risurrezione di Cristo, senza la quale probabilmente nessuno avrebbe potuto e potrebbe ancor oggi proferire parole esaltanti sull’incarnazione medesima, né sulla figura di Maria madre di Cristo, né sui primi grandi apostoli, né sulle originarie comunità cristiane né su tanti momenti della storia della Chiesa. Peraltro, è strano che in ambito cattolico si sentano fare talvolta ragionamenti del tipo: “la resurrezione, va bene; ma vuoi mettere l’incarnazione? E’ quello il momento in cui si manifesta realmente l’amore di Dio per l’umanità”.

 

A cosa sono dovuti ragionamenti siffatti? Forse alla preoccupazione di rendere più “disinteressata” e più "elevata" la fede in Cristo: come dire, se credo in lui a prescindere dal fatto che egli risorga e io possa risorgere con lui, allora la mia fede è più vera, più genuina, più sana Ma può anche darsi che questa preoccupazione abbia una natura più intellettualistica che spirituale e nasca da un’esigenza appunto intellettualistica di apparire più credenti di quanto in realtà non si sia e più cristiani di quanto in realtà non si riesca ad essere nell’ambito della propria quotidianità.

 

Gesù, venendo al mondo, sperava certo di essere accolto dai suoi, come uomo e come Dio, per la sua parola di verità e le sue opere di straordinaria bontà, per gli innegabili segni della sua divinità e della sua capacità redentiva, ma sapeva che, solo vincendo la morte, la gran parte dell’umanità sarebbe stata attirata dalla sua croce e ne avrebbe seriamente preso in considerazione la potenza salvifica.

 

Sapeva che l’uomo e la sua fede hanno bisogno di certezze concrete e non aleatorie; sapeva anche che persino i suoi più degni seguaci non avrebbero potuto sostenere il peso della sua morte e rendere fruttuosa e proficua la loro fede se non avessero avuto la prova incontrovertibile del suo dominio sulla morte e quindi della sua immortalità. E non è un caso, d’altra parte, che san Paolo definisca vana la nostra fede ove non vi sia resurrezione. Non pretendiamo da noi stessi quel che non possiamo essere: innamorati di Dio anche indipendentemente dal dono (perché è un dono, il più grande) della resurrezione! Non pecchiamo, noi che non abbiamo mai sperimentato Dio allo stesso modo in cui  lo sperimentarono i grandi profeti veterotestamentari, la madre Maria, il padre terreno Giuseppe, gli apostoli, i Zaccheo, le Maria di Magdala, molti peccatori del tempo di Gesù e qualcun altro, di inautenticità e di presunzione, e vediamo anzi di non caricarci di ridicolo.

 

Noi siamo esseri deboli, incerti, paurosi: Dio lo sa ed è per questo che, risorgendo, ha voluto tranquillizzarci, fornirci buoni elementi per mantenere certa e salda la nostra fede, per convertirla più agevolmente in essenziali opere di carità. Peraltro, anche i veri credenti vissuti prima di Cristo coltivarono un’intima ma fortissima speranza di poter un giorno risorgere al cospetto di Dio. Senza resurrezione l’uomo non avrebbe alcun movente per credere in Dio, foss’anche un Dio buono e misericordioso ma indifferente alla vita ultraterrena degli uomini o, più semplicemente, alla loro insopprimibile esigenza di poter contare realisticamente su un Dio salvatore non solo e non tanto per quanto riguarda l’esperienza di vita terrena ma soprattutto per quanto si riferisce alla umanissima aspettativa di poter continuare a vivere anche dopo la morte in un quadro di gioia inestinguibile e di eterna giustizia.

 

In questo senso è più che mai opportuna l’affermazione di papa Benedetto XVI: incarnazione e resurrezione di Gesù sono cardini ugualmente importanti della sua opera di redenzione (Benedetto XVI, L’incarnazione e la morte e resurrezione di Gesù, cardini della redenzione, in “Zenit” del 21 dicembre 2008). Sono due “cardini”, precisa il papa, “inseparabili”, che «manifestano un unico disegno divino: salvare l'umanità e la sua storia assumendole fino in fondo col farsi carico interamente di tutto il male che le opprime» (Ivi). Dove dunque c’è un’umanità in attesa dell’incarnazione divina non già in funzione di un qualche piano salvifico meramente terreno ma di una resurrezione divina che sia premessa indispensabile di una salvezza integrale ed eterna personale ed universale.

 

Sino a quando Cristo non risorge, la vita dell’uomo è senza luce, è opaca, è passiva, e l’incarnazione di Dio resta oggetto di stupore mistico-contemplativo ma oggetto che non si è ancora trasformato in pienezza di vita, in entusiastica capacità di trasformare tutti i possibili motivi di odio in possibili motivi di amore e di offrire la propria vita quanto più radicalmente possibile per il prossimo e per il Signore (A. Gaspari, La risurrezione che illumina e scalda l’umanità, in “Zenit” dell’8 aprile 2012). L’uomo comprende bene tanto il potere di Dio di farsi piccolissimo accettando di nascere dopo essere stato concepito nel grembo verginale di una donna e assumendo le sembianze di un bambino in fasce quanto il potere di Dio di risorgere e far risorgere dalla morte, anche se, senza la resurrezione, la sua fede nella effettiva presenza di Dio nella sua e per la sua vita, fede che implica non solo il riconoscimento intellettuale della potenza e dell’amore di Dio ma anche la volontà di obbedire concretamente alla sua volontà e ai suoi insegnamenti, sarebbe obiettivamente più debole e più insicura.

 

Sappiamo bene che l’incarnazione di Dio nella persona storica di Cristo è un inaudito atto di amore ma lo sappiamo perché sappiamo che quell’atto di amore si è realmente concretizzato nella volontà e nel potere di Dio di liberarci dalla morte e di regalarci l’eterna felicità: se, ai fini della possibilità umana di comprendere la grandezza dell’amore divino, non fosse stata necessaria la resurrezione, perché mai Cristo sarebbe dovuto risorgere dalla morte dopo essersi sottoposto al martirio più infame e alla morte più straziante? Non avrebbe potuto ascendere direttamente in cielo senza subire né l’uno né l’altra? E’ su questo che bisogna principalmente riflettere prima di sbilanciarsi in giudizi ad effetto, come quello per cui l’incarnazione sarebbe un fatto ancora più eccezionale della resurrezione, il cui limite è nell’ostentazione di una fede tanto superiore a quella comune quanto probabilmente ipocrita e superba.

Un Dio che si incarna ma non risorge lascia “ammutoliti e smarriti” persino i suoi discepoli più fedeli che non sarebbero stati e soprattutto non sarebbero umanamente capaci di continuare a seguire un Re «che sceglie come trono la croce» e che «non…assicura una facile felicità terrena, ma la felicità del cielo, la beatitudine di Dio» (Omelia di Benedetto XVI, Il nostro re sceglie come trono la croce, in “Zenit” dell’1 aprile 2012). Sempre papa Benedetto ha affermato: «Cari fratelli e sorelle! Se Gesù è risorto, allora – e solo allora – è avvenuto qualcosa di veramente nuovo, che cambia la condizione dell’uomo e del mondo. Allora Lui, Gesù, è qualcuno di cui ci possiamo fidare in modo assoluto, e non soltanto confidare nel suo messaggio, ma proprio in Lui, perché il Risorto non appartiene al passato, ma è presente oggi, vivo» (Messaggio pasquale “Urbi et Orbi” di Benedetto XVI, E’ risorto! E’ veramente risorto!, in “Zenit” dell’8 aprile 2012).