Benedetto XVI: "rivoluzionario di Dio"?
Confesso che mi sembra eccessivo vedere in Benedetto XVI un “rivoluzionario”, anzi addirittura un o il “rivoluzionario di Dio”! Ma Samuel Gregg, uno studioso di problemi economici ed etici e docente della Pontificia Università Lateranense, ha ritenuto di dover definire cosí il papa in un articolo del 16 aprile scorso (Benedict XVI: God's Revolutionary) apparso sulla rivista Crisis Magazine. Ma per quali ragioni? Benedetto XVI, scrive Gregg, «ha compreso da tempo una verità che sfugge a molti attivisti politici contemporanei: nel mondo, i cambiamenti più significativi non iniziano normalmente nell'arena della politica. Invariabilmente, iniziano con le persone che lavorano – nel bene o nel male – con l’elaborazione di idee». E allora ecco che egli si impegna strenuamente sul piano intellettuale per demolire l’arroganza di coloro che, mettendo la religione al servizio della violenza e di disegni sovversivi, non colgono affatto il significato del Logos divino che fa tutt’uno con il concetto di Dio-Amore, e di coloro che riducono la fede a qualcosa di irrazionale senza comprendere che la razionalità umana non può essere ridotta semplicemente a ciò che può essere quantificato o misurato con criteri empirici o “scientifici” e che in realtà non può essere identificata con determinate forme date di razionalità.
Ma anche nell’affrontare le questioni più interne alla Chiesa, sostiene Gregg, il papa mette in campo tutta una serie di argomentazioni molto vigorose ed efficaci. Si pensi, per esempio, alla “dissidenza” di buona parte della Chiesa austriaca che, per mezzo di alcune centinaia di preti, sta oggi contestando l’“immobilismo” delle gerarchie romane e dello stesso pontefice circa alcune questioni di fondamentale importanza per il presente e soprattutto per il futuro della stessa Chiesa cattolica quali l’abolizione del celibato obbligatorio per i sacerdoti, la concessione dell’ordinazione sacerdotale ai viri probati e addirittura alle donne, la comunione ai divorziati risposati e l’apertura ai laici. Ecco: di fronte a queste spinte, a metà tra eversive e modernizzatrici, qual è il pensiero del papa? Egli, secondo Gregg, ridicolizza i teorici della “disobbedienza” semplicemente ponendo delle domande: «essi cercano davvero un autentico rinnovamento? Oppure si tratta “soltanto della spinta disperata di fare qualcosa, di trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?”».
Con molto tatto ma sempre molto incisivamente, e anche al di là del caso austriaco, spiega il docente della Pontificia Università Lateranense, il papa riesce a sottolineare «una cosa che tutti noi cattolici, non solo quelli dissidenti, a volte dimentichiamo. La Chiesa non è infatti "la nostra". Piuttosto, è la Chiesa di Cristo. Non è quindi solo un'altra istituzione umana che può essere cambiata secondo i capricci umani. E questo, a sua volta ci ricorda che il cristianesimo non si basa su me stesso, sul mio io, ma è centrato su Cristo e sulla nostra necessità di avvicinarci a lui. Certamente la Chiesa ha sempre bisogno di riforme - ma di riforme volte alla santità, essa non è un semplice alloggio per le basse aspettative del secolarismo».
Osservazione in parte giusta, in parte no, giacché è vero che la Chiesa è solo di Cristo e di nessun altro, per cui non vi può essere spazio per desideri e idee soggettivi o per capricci umani, ma è altrettanto vero che il papa, che deve farsene custode e garante principale, è tenuto, proprio per non dare la sensazione che la Chiesa sia “sua”, a dare spiegazioni chiare, inequivoche e convincenti a tutti i pronunciamenti e a tutti gli atti del suo magistero innanzitutto sulla base dei testi biblico-evangelici e poi sulla base dell’intera storia della Chiesa con uno specifico riferimento alle idealità e alla prassi delle più antiche comunità cristiane, dove magari si potrebbe molto difficilmente argomentare che uomini sposati non siano mai stati ordinati sacerdoti dalle autorità ecclesiali o che l’originario comunitarismo cristiano non abbia avuto nulla che somigliasse ad una qualche forma di santo socialismo sociale ed economico.
Perciò, senza voler qui porre in dubbio l’affermazione per cui Benedetto XVI sarebbe molto attento al mondo delle idee e preso dai suoi studi scritturali e teologici più che dalla passione del governare, non sarebbe forse inopportuno evitare di sopravvalutare, oltre ogni limite di ragionevolezza, lo stesso impegno intellettuale e culturale di questo papa. Ed è anche per questo che si avverte una certa difficoltà a capire e a condividere totalmente un altro passaggio dello scritto di Gregg: «come accade per tutti i veri rivoluzionari, il pensiero di Benedetto è libero e indipendente. Durante il suo pontificato, ha incessantemente cercato di fare quello che molti della generazione immediatamente successiva al periodo post conciliare, vescovi, sacerdoti, religiosi e teologi non sono riusciti a fare apertamente – agire in modo tale da metterci di fronte alla persona di Gesù il Nazareno e di porci davanti al pensiero e alle vite dei dottori e dei santi della Sua Chiesa, al fine di aiutarci a ricordare la vera vocazione del cristiano in questo mondo». Veramente c’è chi pensa, e io fra questi, che per essere «un rivoluzionario di Dio», occorra forse qualcosa di più di un pensiero “libero e indipendente” e, quanto a quella netta differenziazione tra l’attuale papa e tanti “vescovi, sacerdoti, religiosi e teologi” del periodo postconciliare, essa non sembra rispecchiare un grandissimo spirito di carità oltre che probabilmente di verità.
Al docente della Pontificia Università Lateranense sembra stare molto a cuore il concetto di “santità”, parola, egli scrive, «che non viene molto pronunciata dai dissidenti», aggiungendo giustamente che la vera vocazione del cristiano è proprio la santità, ovvero la volontà e la capacità di seguire Cristo tutti i giorni. Il fatto è che anche quei cattolici che alla santità si richiamano continuamente non sempre poi appaiono pronti ad ottemperare a taluni esigenti comandi di Cristo di cui non si possono dimenticare le parole: “Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando” (Gv 15, 14). E, anzi, direi che, cristianamente, è molto meglio praticarla silenziosamente la santità, posto che se ne sia realmente capaci, che non proclamarla o ostentarla come una specie di trofeo preventivo ogni volta che qualche critica ci mette in difficoltà o ci crea qualche serio imbarazzo.
Ma, d’altra parte, non si può non essere con papa Benedetto quando afferma che «la santità sta nell’impegno che mettiamo nel seguire Cristo, non importa quante volte si cade durante il cammino» e quando sostiene che solo la santità può cambiare veramente il mondo. Dopodiché, appare decisamente esagerato o almeno prematuro parlare di lui come di un “rivoluzionario di Dio”, anche in considerazione del fatto che, assai recentemente ed esplicitamente, lo stesso pontefice ha escluso, senza operare distinguo concettuali e semantico-lessicali di sorta, che nostro Signore Gesù Cristo sia stato “un rivoluzionario” (Angelus dell’11 marzo 2012). Non è per essere maliziosi e gettare discredito sul papa, al quale va il nostro incondizionato amore fraterno e filiale, ma perché usare toni trionfalistici ed apologetici su un pontificato ancora in corso e il cui significato in verità si presenta molto complesso e articolato? Ma, soprattutto, non è cristianamente più saggio e prudente attendere che ognuno di noi apprenda direttamente dal giudizio finale di Gesù se è stato o non è stato santo e se e in che senso eventualmente è stato un rivoluzionario?