Amare gli ebrei amando Cristo
E’ comprensibile che il cardinale Kurt Koch, dal luglio 2010 elevato alla dignità di arcivescovo e nominato presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e della Commissione per le Relazioni Religiose con gli Ebrei, ci tenga a svolgere bene gli incarichi che gli sono stati affidati e a prendere veementemente di mira quell’antisemitismo «che», come ha detto il 16 maggio 2012 presso l’Angelicum ovvero la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino, «non sembra essere estirpabile nel mondo di oggi e che costituisce un tradimento della fede cristiana». Cosí facendo, però, egli assolve una funzione politico-diplomatica gradita agli ebrei seppur di valore piuttosto dubbio e non certo una funzione eminentemente religiosa e spirituale che richiede invece una rigorosa e incondizionata adesione allo spirito di verità.
Non che non sia vera l’esistenza di un gratuito antiebraismo in diverse parti del mondo e forse in una parte del mondo cristiano e cattolico e che pertanto non ci si debba sempre impegnare in un’opera di seria riconciliazione tra cattolici ed ebrei. Ma sono i modi in cui l’alto porporato svizzero viene esercitando le sue critiche e le sue denunce che suscitano dubbi e perplessità nel mondo cattolico. Direi modi assolutamente unilaterali, inesatti e poco opportuni, perché non rispondenti alla verità storica che resta sempre più complessa di quel che sia gli ebrei sia talvolta i cattolici sono portati a pensare. Se c’è un modo per impedire che i rapporti tra ebrei e cattolici possano davvero chiarirsi e risultare suscettibili di significativi sviluppi spirituali, ben prima che politici e diplomatici, questo modo consiste proprio nel ritenere che quei rapporti debbano essere coltivati a colpi di galanteria, vera o falsa che sia, a colpi di cortesia e di affabilità che però, almeno quando si tratta direttamente della Persona di Cristo, non sono affatto richiesti da una genuina fede evangelica.
E cose che riguardano direttamente la Persona di Cristo sono certamente la sua uccisione, voluta non da tutti gli ebrei ma certo da parte considerevole del mondo ebraico (come i vangeli, cui almeno noi cattolici siamo obbligati a credere, testimoniano chiaramente), la sua divinità ostinatamente disconosciuta nei secoli sino ad oggi dal popolo ebraico, la sua risurrezione sistematicamente negata dalla gente ebraica che aspetta ancora il Messia per la prima volta, l’assoluta veridicità dei suoi insegnamenti rispetto alla incompleta tradizione religiosa ebraica. Ora, sono tutti punti qualificanti, non gli unici, della nostra fede cattolica su cui non solo non si può trattare ma che non dovrebbero mai passare sotto silenzio o essere posti quasi tra parentesi nelle relazioni dirette con gli ebrei in funzione di presunti e più vantaggiosi scambi politici e diplomatici. Non è questo che Cristo si aspetta dai suoi veri e sinceri seguaci. Egli ci concede certo di essere “prudenti” ma solo per essere “puri o semplici come colombi”, cioè onesti e fedeli alla Parola di Dio, e non certo per ottenere vantaggi politici, giuridici, istituzionali, a detrimento di una fede schietta e impavida nella indistruttibile Signoria di Cristo sulla storia degli uomini. Cosa ce ne facciamo di una Chiesa cattolica più presente in Terra Santa se essa, in cambio, deve far finta di non sentire il quotidiano disprezzo reale degli ebrei in genere (che, in fatto di ipocrisia, restano anche oggi maestri insuperabili da cui non di rado i cattolici attingono perfidi insegnamenti) per Cristo, per Maria di Nazaret, per i cattolici stessi?
Allora: che si abbiano pure dei cortesi rapporti diplomatici e politici tra lo Stato Vaticano e lo Stato israeliano, allo stesso modo in cui si hanno rapporti con tutti gli altri Stati del mondo. Ma si faccia capire chiaramente al governo di Israele che eventuali sue concessioni politiche e finanziarie non possono avere contropartite in concessioni “cattoliche” relative alla verità storica effettiva dei rapporti tra ebrei e cattolici ma semplicemente nella opportunità storica per il mondo ebraico e per quello cattolico di far progredire il proprio rapporto sul terreno civile e politico senza continue pretese di rivedere la storia dell’umanità in funzione di precisi interessi ebraici. Si faccia anche capire con garbo ma con fermezza che la presenza cattolica in Terra Santa non può né potrà mai essere barattata con un riconoscimento cattolico “paritario” alla fede ebraica, in virtù del quale lo Stato d’Israele possa vantare una religiosità, una fede dotate di una dignità spirituale, religiosa e teologica, perfettamente uguale a quelle della fede cristiano-cattolica: i cattolici siano sempre pronti a replicare che non c’è parità, né uguale dignità, semplicemente perché la fede in Cristo è l’espressione più vera ed elevata della fede in Dio e perché tutti coloro che non aderiranno a questa fede, pur avendone avuto amplissima opportunità, saranno destinati a perire miseramente secondo le parole inequivocabili di Gesù.
La fede degli ebrei non è solo diversa dalla fede cristiana ma è ad essa antitetica per il semplice fatto che essa poggia su una pessima interpretazione del significato di fondo di tutti i fatti veterotestamentari e sulla pusillanime negazione del fatto che, solo attraverso Gesù Cristo, Dio stesso possa essere conosciuto, amato ed adorato. Perciò sembra culturalmente fuorviante che il cardinale Koch continui oggi a riproporre vecchi luoghi comuni come quello per cui «anche nella teologia cristiana l'antichissimo marcionismo e l'antiebraismo riemergono con spirito di rivalsa, e di fatto non solo da parte dei tradizionalisti ma anche nel filone liberale dell'attuale teologia», come se concetti simili, nel loro uso prevalentemente polemico e strumentale, potessero contribuire a ridimensionare l’antico ed evidente risentimento ebraico anticristiano e a potenziare per contro il doveroso spirito evangelico-missionario cattolico nei confronti degli ebrei come di ogni altro popolo del mondo ancora non convertito a Cristo Signore.
I cristiani hanno certo molto da rimproverare a se stessi e alla loro storia, i loro stessi possibili sentimenti di rivalsa per esempio, e ogni cristiano serio e responsabile sa che non farà mai abbastanza senza la grazia di Dio per essere credibile agli occhi dei popoli e dei fratelli di ogni parte del mondo che ancora non abbiano abbracciato la fede in Cristo e nella sua Chiesa cattolica, apostolica e romana. I cristiani cattolici, dunque, non possono pensare di testimoniare la propria fede presuntuosamente o trionfalisticamente. Tuttavia, essi sono tenuti a testimoniarla e a testimoniarla senza tiepidezze e senza puerili accorgimenti psicologici volti a non toccare troppo l’altrui suscettibilità. Agli ebrei che continuano a parlare della Shoah come della peggiore catastrofe dell’umanità, i cattolici non possono non replicare che essa, pur essendo indubbiamente una delle peggiori catastrofi dell’umanità, è tuttavia seconda almeno ad un’altra catastrofe dell’umanità: quella relativa all’iniqua e sacrilega crocifissione di Cristo, unico e vero Dio insieme al Padre e nell’unità dello Spirito Santo ed espressione perfettamente compiuta di umanità e della nostra umanità.
Non si ripeterà mai abbastanza che lo sterminio degli ebrei fu uno sterminio di persone innocenti e condannate a morte solo sulla base di un odio razziale totalmente incomprensibile e ingiustificato seppur forse favorito da situazioni storiche di difficile o complessa lettura.. Ma il problema è che gli ebrei in genere non hanno mai mostrato di voler comprendere, a causa di un orgoglio nazionalistico anch’esso di natura razziale, come anche Gesù e quanti se ne sarebbero fatti degni seguaci sino al martirio fossero persone totalmente innocenti e uccisi dal pregiudizio e dall’odio che alberga per i più vari motivi irrazionali nel cuore degli uomini. E’ questa la causa principale della permanenza storica del cosiddetto antisemitismo: la pretesa che non solo i morti ma gli stessi vivi di parte ebraica siano sempre al centro di una perfida e malvagia congiura mondiale e che il mondo intero debba sempre in un modo o nell’altro genuflettersi per reiterare indefinitamente le sue scuse al popolo ebraico ed israeliano, quasi che quest’ultimo, anche al di là della omicida crocifissione di Gesù, non avesse nulla storicamente di cui scusarsi e farsi perdonare.
Può darsi che, come dice Koch, durante la Shoah molti cristiani abbiano tenuto «gli occhi chiusi» dinanzi alla brutale realtà ma questo non significa affatto, come pare invece al cardinale Koch di poter sentenziare, che «la Shoah divenne dunque una domanda e un'accusa al cristianesimo» in quanto tale, in quanto insieme di princípi e norme di vita emanate dalla Parola stessa di Cristo, donde ancora una richiesta supplementare di necessaria elaborazione teologica di una dottrina che per essere approfondita non deve correre ogni volta il rischio di essere travisata o adulterata. Anche i cardinali devono stare attenti a come parlano, alle parole che usano, ma soprattutto, al pari di ogni credente, devono stare attenti a come ascoltano la Parola stessa di Dio (Lc 8, 18). Essi hanno il dovere di proclamare a voce alta, dinanzi a tutti i popoli del mondo, che non c’è altro Dio al di fuori di Cristo e che la salvezza eterna, pur venuta dalla storia e dalla fede del popolo ebraico, non può raggiungersi se non in Cristo e per mezzo di Cristo. Come potrebbero i cattolici amare gli ebrei senza amare veramente il Cristo?